Rapporti di lavoro

Rischio di pagare i danni se non si reintegra il dipendente

di Giampiero Falasca

Il datore di lavoro che non riammette in servizio il dipendente reintegrato dal tribunale e, successivamente, ottiene una nuova sentenza a sé favorevole, non è tenuto a pagare le retribuzioni teoricamente dovute nel periodo intermedio, se non ha eseguito l’ordine di reintegrazione. Tuttavia, questa condotta può dare luogo a una richiesta risarcitoria del dipendente, se questi ha messo in mora il datore per chiedere i danni conseguenti al mancato inserimento sul posto di lavoro (nel periodo compreso tra la sentenza di reintegra e la sua successiva riforma).

Così la Corte costituzionale con la sentenza 86/2018, depositata l’altro ieri (si veda anche il Sole 24 Ore di ieri).

Una lavoratrice ha impugnato il decreto ingiuntivo con il quale la sua azienda le aveva richiesto la restituzione dell’indennità corrisposta per il periodo intercorrente tra la data del licenziamento e la data della sentenza che aveva revocato la reintegrazione nel posto di lavoro.

Il tribunale di Trento ha sollevato una questione di legittimità costituzionale rispetto all’articolo 18 dello statuto dei lavoratori «nella parte in cui…attribuisce, irragionevolmente, natura risarcitoria, anziché retributiva, alle somme di denaro che il datore di lavoro è tenuto a corrispondere in relazione al periodo intercorrente dalla pronuncia di annullamento del licenziamento e di condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro provvisoriamente esecutiva fino all’effettiva ripresa dell’attività lavorativa o fino alla pronuncia di riforma della prima».

La questione è stata sollevata in relazione agli effetti prodotti dal comportamento del datore di lavoro in caso di reintegrazione sul posto di lavoro.

Secondo il tribunale se «solo l’effettiva riammissione del lavoratore in servizio [fosse] in grado di mutare da risarcitoria a retributiva la natura del titolo di corresponsione delle somme (commisurate alle retribuzioni maturate) versate dal datore successivamente alla pronuncia di annullamento del licenziamento e di reintegrazione nel posto di lavoro», si determinerebbe una ingiustificata disparità di trattamento, sotto il profilo della ripetibilità delle somme corrisposte a tale titolo, tra il datore di lavoro che ottemperi all’ordine di reintegra e il datore di lavoro inadempiente rispetto a tale ordine, che si limiti a versare la retribuzione a titolo risarcitorio, “scommettendo” con ciò sulla sua ripetibilità.

La Corte considera infondata la questione, richiamando la giurisprudenza della Corte di cassazione, secondo la quale il rapporto di lavoro affetto da nullità può rientrare nella sfera di applicazione dell’articolo 2126 del codice civile unicamente nel caso, e per il periodo, in cui il rapporto stesso abbia avuto «materiale esecuzione». Di conseguenza, il diritto a percepire la retribuzione sussiste solo in ragione (e in proporzione) della eseguita prestazione lavorativa.

Per evitare che questo principio produca effetti irrazionali (come un incentivo a disapplicare gli ordini di reintegrazione) la Corte precisa che il datore di lavoro, ove messo in mora dal dipendente, può andare incontro alla richiesta risarcitoria per il danno conseguente al mancato reinserimento in azienda, nel periodo intercorrente dalla statuizione di annullamento del licenziamento a quello della sua successiva riforma.

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