Rapporti di lavoro

Via libera all’accesso nel pc del lavoratore che viola le regole d’uso aziendali

di Marina Castellaneta

L’accesso ai file di un dipendente, sul computer aziendale, è possibile se il lavoratore non rispetta le regole interne fissate dall’azienda sull’etichettatura dei documenti.

A tornare sulla questione del bilanciamento tra potere di controllo del datore di lavoro e tutela della vita privata del dipendente è stata la Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza depositata il 22 febbraio nel caso «Libert contro Francia» (ricorso n. 588/13). All’esame dei giudici, l’utilizzo per fini personali dei computer messi a disposizione dall’azienda per l’attività professionale.

Questa volta a rivolgersi a Strasburgo è stato il dirigente della società nazionale delle ferrovie francesi, che era stato soggetto ad alcuni controlli. Il suo computer era stato visionato dall’azienda e, poiché vi erano stati trovati filmati di natura pornografica e alcune false attestazioni a beneficio di terzi, era scattato il licenziamento.

Il dirigente aveva quindi avviato un’azione giurisdizionale interna, ma il suo ricorso era stato respinto. Di qui la scelta di rivolgersi alla Corte europea, la quale però gli ha dato torto.

Prima di tutto, Strasburgo ha stabilito che anche le attività lavorative rientrano nel perimetro dell’articolo 8 della Convenzione europea, che assicura il diritto al rispetto della vita privata. Questo perché si tratta di attività con cui l’individuo forma la propria identità sociale, anche grazie alla possibilità «di sviluppare relazioni con il mondo esterno». Pertanto, nella sfera di protezione dell’articolo 8 rientrano anche conversazioni, email e altre attività che si svolgono all’interno dei luoghi di lavoro.

Il datore (che in questo caso, a differenza di altri precedenti, era un ente pubblico) ha obblighi di non ingerenza nella privacy del lavoratore; ma a tal proposito la stessa Convenzione ammette alcune deroghe da interpretare restrittivamente. Qualora l’ingerenza persegua infatti un fine legittimo, come la tutela di diritti altrui, una limitazione del diritto alla privacy è ammissibile. E tra questi fini “legittimi” c’è anche quello di tutelare il buon funzionamento dell’azienda e di imporre ai propri dipendenti il rispetto dei doveri professionali.

Il datore di lavoro – scrive la Corte europea – «può legittimamente voler assicurare che i dipendenti utilizzino le attrezzatture informatiche messe a loro disposizione per il compimento delle proprie funzioni in conformità agli obblighi contrattuali e al regolamento applicabile». Se poi consente anche l’utilizzo del computer a fini personali, ma impone l’osservazione di alcuni standard di comportamento, si può considerare rispettato il principio di proporzionalità. Di conseguenza, se non rispetta gli standard già chiaramente indicati, il lavoratore può subire un controllo.

Nella circostanza in esame, il dirigente aveva violato le regole di condotta aziendali perché aveva inserito i suoi file nel disco fisso classificandoli come “D: dati personali”, non rispettando la richiesta dell’azienda di utilizzare nel caso una specifica opzione su outlook (modalità privata).

La Cedu ha condiviso dunque la scelta dei giudici nazionali, secondo i quali il fatto che sulla cartella fosse stata apposta la dicitura “dati personali” poteva anche far pensare a file di lavoro trattati personalmente dal dipendente, ma non privati.

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