Rapporti di lavoro

Minimo garantito applicabile anche ai co.co.co

di Aldo Bottini

Il diritto a un equo compenso, «proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto», e la tutela contro le clausole vessatorie delle convenzioni, sono stati estesi, «in quanto compatibili», ben oltre i confini della professione legale. Ma fin dove arrivi tale estensione, e quali categorie ricomprenda, non è del tutto chiaro.

Il riferimento all’articolo 1 della legge 81/2017, il cosiddetto Jobs act degli autonomi, farebbe pensare ad un’estensione dell’equo compenso (e delle connesse tutele) a tutti i lavoratori autonomi ricompresi nel campo di applicazione di tale norma, indipendentemente dalla natura della prestazione (intellettuale o meno), e dal regime fiscale applicabile. Quindi non solo a chi ha una partita Iva ma anche ai collaboratori coordinati e continuativi. Questa interpretazione “estensiva” aprirebbe dunque scenari inaspettati, attribuendo, ad esempio, al giudice (del lavoro) il potere di accertare l’equità o meno del compenso previsto per i co.co.co e quindi di rideterminarlo, anche se non si saprebbe bene in base a quali parametri. Tema comunque non nuovo, posto che la legge 183/2014 (sulla base della quale sono stati emanati gli otto decreti legislativi che compongono il Jobs act) conteneva anche una delega (poi non esercitata) ad introdurre un compenso minimo anche per i co.co.co. Secondo alcuni, peraltro, il divieto di abuso dello stato di dipendenza economica contenuto nella legge 81/2017 già potrebbe fondare un’azione di riequilibrio di un compenso inadeguato imposto da chi abusa della dipendenza economica.

L’uso del termine «professionisti» nella norma appena approvata, tuttavia, potrebbe invece far ritenere che le tutele siano riservate ai soli lavoratori autonomi esercenti professioni intellettuali (articolo 2229, Codice civile). Ma allora perché fare riferimento alla legge 81/2017, il cui ambito di applicazione ricomprende tutto il lavoro autonomo non imprenditoriale, e non solo le professioni intellettuali? Quel che è certo è che la nuova norma non si applica ai soli professionisti iscritti ad ordini o collegi (come è reso evidente dall’utilizzo della parola «anche»). Il che pone un problema più applicativo che interpretativo: una volta che il giudice abbia accertato la non equità del compenso e la nullità della relativa clausola, sulla basi di quali criteri provvederà a rideterminarlo? Anche per chi esercita una professione intellettuale il tema non è nuovo: l’articolo 2233 del Codice civile, pur lasciando alle parti la facoltà di determinare il compenso, afferma che «in ogni caso la misura del compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della professione».

La legge ora prescrive al giudice di «tenere conto», nella determinazione dell’equo compenso, dei parametri previsti dai regolamenti ministeriali adottati ai sensi del Dl 1/2012, che ha abrogato le tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico, prevedendo, per il solo caso di liquidazione giudiziale, la determinazione del compenso con riferimento a parametri stabiliti con decreto del ministero vigilante sulla specifica professione . E così sono stati via via emanati decreti ministeriali recanti i parametri per avvocati, consulenti del lavoro, commercialisti, notai, veterinari, farmacisti, psicologi, infermieri, ostetriche, e via dicendo. Quindi nessun problema per la determinazione dell’equo compenso con riferimento a queste categorie. Rimane invece il dubbio su quali potranno essere i parametri sulla base dei quali determinare l’equo compenso dei professionisti (o più in generale dei lavoratori autonomi, in caso di interpretazione allargata) senza parametri. In attesa di prossimi, auspicabili, chiarimenti.

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