Rapporti di lavoro

Irpef, anche i conviventi “legali” dell’imprenditore sono tassati per trasparenza

di Matteo Ferraris

Con la risoluzione 134/E/2017, l'agenzia delle Entrate chiarisce che i diritti agli utili del convivente ex articolo 230-ter del codice civile sono trattati fiscalmente come la partecipazione agli utili dei soggetti che partecipano all'impresa familiare ex articolo 230-bis del codice civile (incluse le parti delle unioni civili).

L'Agenzia risponde a un interpello, declinando fiscalmente l'articolo 230-ter del codice civile che prevede il riconoscimento del diritto alla “partecipazione agli utili dell'impresa familiare” anche per il convivente di fatto (articolo 1, comma 30, della legge 76/2016).

L'Agenzia ritiene di poter applicare anche a questa fattispecie i principi generali per cui il regime fiscale dell'impresa familiare (ex articolo 230 bis del codice civile) è regolato dall'articolo 5 del Tuir, vale a dire in ragione del principio di trasparenza, in virtù del quale il reddito prodotto da un determinato soggetto tra quelli contemplati dallo stesso articolo 5 deve essere imputato a ciascuno degli aventi diritto, indipendentemente dalla percezione del reddito e in proporzione alle rispettive quote di partecipazione agli utili.

La collocazione dell'impresa familiare nel contesto dell'articolo 5, secondo consolidata prassi, non è tesa a rappresentare la produzione di un reddito in forma associata ma solo la forma di imputazione, peraltro distinguendo la qualificazione del reddito prodotto: di impresa per il titolare (attesa la natura dell'impresa familiare come impresa individuale), di partecipazione per i collaboratori familiari.

Il regime fiscale della convivenza di fatto
Per meglio comprendere, si rammenta che la legge 76/2016 ha introdotto due distinti istituti: l'unione civile e il regime delle convivenze di fatto. Quest'ultimo istituto non vincola necessariamente persone dello stesso sesso in quanto è riservato a «due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un'unione civile» (articolo 1, comma 36).

La norma ha previsto forme di tutela differenziate tra le parti dell'unione civile e i conviventi legali. Alle sole unioni civili, però, sono estese «le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole ‘coniuge’, ‘coniugi’ o termini equivalenti….contenute nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi nonché nei contratti collettivi» (articolo 20 della legge 76/2016). Analogamente, l'estensione dell'applicazione dell'istituto dell'impresa familiare è limitato alle sole unioni civili (mediante il rinvio contenuto nell'articolo 1, comma 13, della legge 76/2016).

Al contrario, a favore del convivente nel codice civile è stato introdotto l'articolo 230-ter, che reca la regolamentazione delle prestazioni di lavoro rese in favore del convivente more uxorio («al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all'interno dell'impresa dell'altro convivente…il diritto di partecipazione agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché gli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, commisurata al lavoro prestato»).

La lettura formale della norma avrebbe potuto produrre effetti anche in relazione all'immodificato impianto dell'articolo 5 del Tuir che riserva il regime fiscale dell'impresa familiare a favore dei soggetti aventi lo status di “familiare”, ovvero «il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado» (comma 5).

La scelta del legislatore di introdurre una disciplina specifica per il convivente, diversa da quella dell'impresa familiare regolata dal precedente art. 230-bis del codice civile, rifletteva evidentemente l'intenzione di mantenere su posizioni differenti la collaborazione del convivente rispetto a quella del familiare (o della parte civile, alla quale la disciplina dell'impresa familiare è applicabile), come si evince da alcune diversità di rilievo dei regimi previsti dagli articoli 230-bis e 230-ter del codice civile. Tra queste, l'esclusione del convivente dal diritto al mantenimento nonché dal diritto alla partecipazione alle decisioni dell'impresa, diritti spettanti invece al familiare e alla parte civile (articolo 230-bis, comma 1, del codice civile)

Tali distinzioni importanti sotto il profilo civilistico non sono risultate, però, così rilevanti da rendere necessario uno schema tributario differenziato. Appuntiamo come sul tema sia intervenuto anche l'Inps, con circolare 66/2017 confermando che il convivente di fatto non è contemplato dalle leggi istitutive delle gestioni autonome quale prestatore di lavoro soggetto a obbligo assicurativo in qualità di collaboratore familiare. Ciò in quanto i conviventi non hanno lo status di parente o affine entro il terzo grado rispetto al titolare d'impresa; le relative sono da valutare «in base alle disposizioni vigenti ed alle elaborazioni giurisprudenziali, al fine di individuare la tipologia di attività lavorativa che si adatti al caso concreto».

L'Istituto chiarisce che l'articolo 230-ter del codice civile non attribuisce ai conviventi di fatto i medesimi diritti di cui godono i familiari individuati dall'articolo 230 bis, «poiché a tal fine il legislatore avrebbe utilizzato locuzioni idonee ad includere il convivente nella formulazione del predetto articolo e non avrebbe al contrario introdotto un nuovo articolo, che disciplina separatamente i diritti del convivente che presti attività in un'impresa familiare».

L'eventuale attribuzione di utili d'impresa al convivente di fatto ex articolo 230 ter non genera conseguenze in ordine all'insorgenza dell'obbligo contributivo del convivente alle gestioni autonome, mancando i necessari requisiti soggettivi, dati dal legame di parentela o affinità rispetto al titolare.

L'impresa familiare
L'articolo 5, comma 4, del Tuir dispone che il reddito d'impresa risultante dalla dichiarazione dell'imprenditore, in misura non superiore al 49%, sia imputato proporzionalmente alle rispettive quote di partecipazione agli utili, ai familiari che collaborano all'impresa in modo continuativo e prevalente. Il 51% del reddito medesimo rimane, invece, in capo all'imprenditore. Tale disposizione trova applicazione a condizione che:
a) i familiari partecipanti all'impresa risultino (nominativamente e con l'indicazione del rapporto di parentela o di affinità con l'imprenditore) da atto pubblico o da scrittura privata autenticata anteriore all'inizio del periodo d'imposta, recante la sottoscrizione dell'imprenditore e dei familiari partecipanti;
b) la dichiarazione dei redditi dell'imprenditore rechi l'indicazione delle quote di partecipazione agli utili spettanti ai familiari e l'attestazione che le quote stesse sono proporzionate alla qualità e quantità del lavoro effettivamente prestato nell'impresa in modo continuativo e prevalente, nel periodo d'imposta;
c) ciascun familiare attesti, nella propria dichiarazione dei redditi, di aver prestato la sua attività di lavoro nell'impresa in modo continuativo e prevalente.
Le quote di partecipazione agli utili distribuite ai collaboratori familiari sono qualificate reddito di partecipazione e in quanto tali, sono dichiarate nel quadro RH del modello redditi-persone fisiche.

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