Rapporti di lavoro

Risarcibile il danno causato dalla paura di ammalarsi

di Giulia Bifano e Uberto Percivalle

È risarcibile il danno morale attinente al timore che una patologia fatale possa insorgere, laddove esistano condizioni mediche tali da comportare il rischio di contrarre tale patologia (e dove sia stata comunque riconosciuta la sussistenza di una malattia conseguente alla mancata adozione di misure di sicurezza).

Accanto a tale pronuncia, contenuta nella sentenza 24217/2017 depositata il 13 ottobre e destinata probabilmente ad avere un seguito e a essere citata in casi analoghi in futuro, la Corte ha ribadito la sufficienza di una relazione di causalità probabilistica per poter parlare di responsabilità del datore di lavoro nel caso di patologie contratte dal dipendente che abbia svolto mansioni a contatto con l’amianto (sentenza 19270/2017), nonché il fatto che la conoscenza della pericolosità delle fibre d’amianto (e la doverosità delle misure di volta in volta conosciute per contrastarla) possa essere fatta risalire quantomeno al primo decennio del novecento (anche se naturalmente non con lo stesso grado di conoscenze scientifiche acquisite successivamente).

La sentenza trae origine dal ricorso di un’autorità portuale, subentrata al provveditorato del porto nel 1995, che non aveva adottato l’utilizzo di mascherine protettive nello svolgimento delle mansioni degli scaricatori di porto, in tal modo esposti all’inalazione delle microfibre di amianto.

La Corte suprema ha confermato quanto già esposto dai giudici di Appello, circa il fatto che la comparsa di placche pleuriche (riscontrate a mezzo di una Tac) consentiva di riconoscere a favore del lavoratore il diritto al risarcimento del maggior danno morale, dovuto «al patema e al turbamento provati per il sospetto di malattia futura, correlata al maggior rischio di contrarre il mesotelioma rispetto a soggetti con storie espositive comparabili ma non affetti da placche pleuriche».

L’autorità portuale ricorrente aveva censurato il riconoscimento di tale risarcimento, sostenendo che fosse stato operato quasi come un’automatica conseguenza del riconoscimento del danno per la malattia amianto-correlata, ossia senza tenere conto dei reali pregiudizi sofferti dal lavoratore secondo il principio della doverosa “personalizzazione” del danno.

La Cassazione ha ritenuto l’obiezione infondata, sostenendo invece come il pregiudizio posto alla base del riconoscimento del danno morale liquidato dal giudice d’Appello fosse correttamente commisurato al timore del lavoratore di contrarre una malattia letale quale il mesotelioma a causa della presenza delle placche pleuriche. L’accertamento della sussistenza di queste ultime, a parere della Corte, ben giustificava la differenziazione della posizione del lavoratore rispetto a quella di colleghi ugualmente esposti al rischio di amianto, ma non affetti da placche.

Con tale decisione la Corte ha delimitato in modo chiaro e ancorato a elementi di prova oggettivi l’articolazione focalizzata di una voce di danno spesso temuta per gli spazi di discrezionalità che ha in passato concesso.

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