Rapporti di lavoro

Giovani, il «gap» cresce fino al 2030

di Giorgio Pogliotti

La crisi ha accentuato il divario generazionale condannando un’intera generazione, i “giovani”, a non potersi emancipare dai propri genitori. C’è un peggioramento delle condizioni economiche - dal lavoro al patrimonio, dalla casa al credito - rispetto alle fasce di popolazione più anziane e, in assenza di correttivi pesanti, il gap è destinato ad accentuarsi fino al 2030. I rischi sono l’esclusione di intere generazioni dal mondo del lavoro, un azzeramento patrimoniale per i nuclei con capofamiglia under 35 fino a quando non erediteranno dai loro genitori, una «questione abitativa» che spesso contribuisce a rinviare il momento dell’autonomia.

La Fondazione Bruno Visentini ha misurato il gap generazionale nel Rapporto 2017 utilizzando un indicatore composto di 27 voci, dal lavoro alla ricchezza, dalla casa all’accesso alle pensioni, dall’educazione al credito, dalla legalità al debito pubblico. Rispetto all’anno base 2004, il gap sarà doppio nel 2020 e triplo nel 2030. La Fondazione continua a lavorare al tema, uno studio del curatore scientifico del Rapporto, Luciano Monti, (docente alla Luiss di Politiche europee) sarà pubblicato a settembre, nel Rapporto 2018 verrà introdotto un nuovo parametro sull’innovazione tecnologica, e un focus sarà dedicato alle nuove professioni.

Prendiamo l’indicatore “reddito e ricchezza”: il divario generazionale relativo alla componente “patrimoniale” rischia di aumentare di 142 punti tra il 2016 e il 2030 se non verranno adottate misure di sostegno ai redditi delle famiglie giovani. Queste previsioni vengono fatte alla luce di due sotto-indicatori, quelli del reddito e della ricchezza. Il rapporto tra il reddito mediano dei giovani e della popolazione totale in Italia rimane su livelli costanti tra il 2016 e il 2030: «I giovani italiani potranno contare un’entrata netta per “sopravvivere” e soddisfare le spese primarie, ma non permetterà di poter risparmiare ed accumulare ricchezza», sostiene Monti.

La previsione è che nel 2030 vi sarà un netto peggioramento delle condizioni economiche dei nuovi nuclei familiari under35. La ricchezza delle famiglie giovani - la somma di attività reali (immobili, aziende e oggetti di valori) e finanziarie (depositi, obbligazioni e azioni) al netto delle passività (mutui ed altri debiti generati) - sarà 20 volte minore di quella delle famiglie totali. Nel 2014 il rapporto era di 1 a 7 - il patrimonio delle famiglie con capofamiglia giovane era sette volte più basso di quello della media delle famiglie -, l’aumento di questo divario «non è da attribuire a un aumento generale della ricchezza, ma a un progressivo azzeramento dei patrimoni delle famiglie under35 con il rischio di patrimoni negativi». È uno scenario «molto preoccupante» che «impedirebbe ad almeno un’intera generazione di emanciparsi economicamente dai propri genitori e culturalmente dall’appellativo di “bamboccioni”». Si rischia un «effetto trascinamento generazionale della ricchezza, che si esaurirebbe soltanto con il trasferimento post mortem del patrimonio da parte dei genitori ai figli».

Lo stesso vale per il credit crunch: nel 2004 la percentuale dei mutui erogati era distribuita per il 51,6% agli over 35 enni e per il 48,4% agli under 35. Il delta si è progressivamente ampliato, complice la crisi, e nel 2014 il 66,1% dei mutui è andato agli over 35 e il 33,9% agli under 35. È crollata la domanda dei mutui da parte dei giovani, che a causa del progressivo impoverimento hanno avuto meno ricchezza disponibile da investire per l’acquisto della casa. I criteri selettivi adottati dalle banche hanno penalizzato i giovani, perchè con i contratti spesso precari e privi di una solidità patrimoniale, non fornivano sufficienti garanzie per la concessione dei mutui. Anche questo parametro peggiorerà: dall’attuale livello di 180 fino a 300 nel 2030.

Tutti i parametri del divario economico-sociale sono correlati a quello del lavoro: è l’assenza di lavoro il motore del disagio. Lo studio parla di «ritardo generazionale» sottolineando che l’Italia non ha mai conosciuto tassi di disoccupazione giovanile per un periodo così prolungato in un contesto che preclude lo sviluppo dei più giovani. Basta rileggere i dati Istat di giugno con i disoccupati della fascia 15-24 anni al 35,4%, il doppio della media della Ue (16,7%), e osservare che dalla fine del 2011 i giovani senza lavoro viaggiano stabilmente sopra il 30% con punte superiori al 40%. Ma anche per la fascia 25-34 anni, il tasso di disoccupazione al 17,4% è di gran lunga superiore al tasso generale (11,1%). Senza misure drastiche di riequlibrio, andrà peggio: l’indicatore crescerebbe dall’attuale livello 200 fino a 360.

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