Rapporti di lavoro

Una «rivoluzione culturale» per il lavoro

di Carlo Carboni

Lavoro e mercato del lavoro si trovano al centro della grande trasformazione del mondo apertasi in epoca globale. Fenomeni come la de-nazionalizzazione, la de-territorializzazione, e anche cambiamenti tecnologici e mutamenti demografici – quali l’invecchiamento della popolazione o le migrazioni –, la finanziarizzazione economica hanno destrutturato il vecchio mondo e con esso anche quell‘alveo in cui è cresciuto il lavoro nella seconda metà del secolo scorso. Richard Sennett vent’anni fa ci aveva già informato sull’uomo flessibile, sulla mobilità-elasticità del suo lavoro. Questa complessa trasformazione globale ci sta gradualmente portando alla quarta rivoluzione industriale, che, secondo Klaus Schwab del World Economic Forum (2016), è differente dalle precedenti: non è spinta da un grande passo tecnologico, bensì da una serie di “svolte” tecnologiche diffuse in un gran numero di mondi digitali e biologici e di campi quali robotica, intelligenza artificiale, nanotecnologie, biotecnologie, Internet delle cose, stampanti 3D, auto autonome, biomedicale ecc. Se cerchiamo lavoro nel futuro, questo sarà il mondo del lavoro.

Non mancheranno idee-sfida. Lavorare in questi campi industriali e di servizio comporterà nuovi strumenti, metodiche e competenze: l’efficienza delle nostre organizzazioni migliorerà enormemente tutte le nostre attività. La scommessa più grande forse si giocherà nei servizi, oggi nel nostro paese depressi quanto a produttività ed efficienza.

Per realizzare un sogno simile ci vuole carattere e tanti ingredienti. I giuslavoristi hanno già abbastanza arato il terreno legislativo-contrattuale del lavoro in questi anni, anche se, non sempre, con la consapevolezza della profondità dei cambiamenti in atto. In politica fiscale, la riduzione del cuneo oggi trova un incoraggiante consenso (ma anche risorse limitate) e, in politica industriale, le misure per Industria 4.0 appaiono un incoraggiante passo verso un più ampio accordo per catturare i benefici delle nuove tecnologie e creare lavoro. Seppure timidi, ci sono anche alcuni miglioramenti di crescita e occupazione. Segnali incoraggianti, ma non basta. Per governare il lavoro nell’età della flessibilità e della mobilità, senza renderlo precario e incrementandolo, i passi pesanti da compiere sono almeno tre, esattamente come i pericoli da evitare.

Il primo è capire – per noi italiani non è così semplice – che i mercati del lavoro vanno organizzati: la nostra rete di centri servizi per l’impiego non è competitiva con gli standard continentali europei, né in termini di numero di centri dedicati né di organizzazione/digitalizzazione. Questo deprime fortemente sia le possibilità d’incontro di domanda e offerta di lavoro sia l’occupabilità di chi cerca lavoro, che dovrebbe essere testata e periodicamente verificata da un network capillare di centri per l’impiego funzionanti in rete con il mondo dell’istruzione e quello imprenditoriale.

In secondo luogo, c’è il pericolo che il Paese nel suo, complesso, non abbia capacità di adattamento al nuovo, perché manca di apprendimento. Quello del singolo dipende dagli apparati che lo formano, quindi dalla scuola, dall’università e dal variopinto mondo della formazione. È un mondo difficile da riformare e da attenzionare al tema dell’occupabilità in una società tecnologica. A esempio, si discute di terza missione dell’università, ma si fa orecchie da mercante alla funzione di job placement. Il mondo dell’istruzione deve fare passi avanti nel disegno del percorso dei suoi studenti, soprattutto negli ultimi anni di studio, quando l’alternanza scuola-lavoro andrebbe progettata e iniziata. Quanto alla formazione, richiederebbe un lungo discorso e, senza dubbio, un turnaround in chiave organizzativo-digitale.

In terzo luogo, il lavoro 4.0 può essere difficoltoso da traguardare perché creare occupabilità e lavoro richiede un’efficace governance di politiche fiscali, industriali, educative-formative, di welfare e perfino un occhio all’emersione del lavoro nero e l’altro a regolamentare il doppio lavoro.

È necessario che Anpal, con politiche attive del lavoro, agisca anche su questi fronti. È il governo della complessità, che comporta un’accentuata mentalità organizzativa e creativa per accedere a una società tecnologica in cui innovazione, digitalizzazione e automazione del lavoro sono fonti di economia circolare, benessere e crescita inclusiva. Un traguardo impervio da raggiungere, che richiede un policy making condiviso. Ci sono grandi opportunità da cogliere, sfide da governare e anche pericoli da evitare.

Tuttavia, alla fine, mi chiedo: ci vuole una rivoluzione culturale copernicana per capire quanto, a esempio, un’umanità invecchiata può trarre vantaggio dalle nuove tecnologie? Sono o non sono strumenti prodotti dalla gente per la gente? D’accordo, il robot magari mangia il vecchio lavoro umano routinario, ma che dire del nuovo ingegnere che ora lo affianca? Forse, dovremmo aver maggior fiducia nel progresso tecnologico? “Gufare” meno quando parliamo del nostro futuro?

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