Rapporti di lavoro

Scarso rendimento, i presupposti per il licenziamento

di Alberto De Luca, Roberta Padula

È opinione comune, avallata da interpretazioni anche autorevoli, che il licenziamento motivato dalle performance insoddisfacenti del prestatore di lavoro sia pressoché impraticabile. Se da un lato questa opinione trova riscontro in numerosissime pronunce dei giudici del lavoro, essa non deve portare alla ineluttabile resa del datore di lavoro nei confronti dei lavoratori (più o meno intenzionalmente) negligenti. Ciò a maggior ragione in tutti quei contesti in cui la prestazione del lavoratore sia concretamente misurabile.

È infatti proprio la legge a stabilire che il giustificato motivo soggettivo di licenziamento è quello che trae origine da «un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del datore di lavoro». E se è pur vero che l'obbligazione del lavoratore mantiene i connotati di un'obbligazione di mezzi, più che di risultato (dunque facendo prevalere l'obbligo di restare a disposizione del datore di lavoro su quello di svolgere proficuamente le mansioni), può essere comunque identificata una soglia di rendimento oltre la quale non si può più dire che la prestazione del lavoratore sia (quanto meno utilmente) messa a disposizione del datore di lavoro, che legittimamente la esige. Tutto sta nell'identificare questa soglia e gli elementi richiesti perché l'inadempimento possa dirsi provato e sufficientemente grave da legittimare iniziative di autotutela da parte del datore di lavoro (ossia provvedimenti disciplinari, incluso il licenziamento).

Gli elementi di valutazione elaborati dalla giurisprudenza chiamata a pronunciarsi sulla rilevanza dell'(in)adempimento del prestatore sono essenzialmente due: in primo luogo, l'esistenza di riscontri oggettivi circa l'inadeguatezza della prestazione resa dal lavoratore, con analisi comparativa rispetto alla prestazione media resa dai colleghi assegnati alle medesime mansioni (cfr., Cass. 31 gennaio 2013, n. 2291; Cass. 16 luglio 2013, n. 17371; Cass. 22 gennaio 2009, n. 1632; Cass. 22 febbraio 2006, n. 3876; Cass. 9 settembre 2003, n. 13194; Cass. 10 novembre 2000, n. 14605). Si sottolinea al riguardo che l'inadempimento, ai sensi della norma sopra richiamata, deve essere «notevole» e dunque tale da vanificare, o quasi, l'utilità della prestazione del lavoratore e, specularmente, della retribuzione riconosciuta a fronte di essa. In secondo luogo rileva l'analisi soggettiva, che va operata soffermandosi dunque sulla imputabilità dello «scarso rendimento» alla colpevole negligenza del prestatore (che pone non pochi ostacoli sul piano probatorio).

Va osservato, infine, che non necessariamente una pluralità di sanzioni disciplinari può integrare gli estremi del licenziamento per negligenza o scarso rendimento. Su questo punto, si è recentemente espressa la Corte di cassazione (n. 3855 del 2017), affermando che lo scarso rendimento non può essere di per sé dimostrato dai plurimi precedenti disciplinari del lavoratore già sanzionati in passato. Così facendo, ha statuito la Corte, si creerebbe una duplicazione degli effetti di condotte ormai esaurite, in violazione del divieto di esercitare due volte il potere disciplinare per perseguire una medesima mancanza del prestatore. In conclusione, sarà principalmente la gravità della singola mancanza da cui scaturisce l'azione disciplinare a dover essere valutata al fine di adottare il provvedimento (incluso il recesso) ritenuto proporzionato, potendo non essere determinante o perfino inutilizzabile a supporto di tale provvedimento la reiterazione di condotte manchevoli (cfr. Cass. n. 24361 del 1° dicembre 2010).

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