Rapporti di lavoro

Spetta al lavoratore dimostrare l’inadempimento

di Sara Anesi, Elsa Mora e Valentina Pomares

Grava sul lavoratore vittima di mobbing l’onere di provare, in applicazione del principio generale di cui all’articolo 2697 del Codice civile, la sistematicità della condotta del datore di lavoro e la sussistenza di un intento emulativo o persecutorio che deve sorreggerla.

Lo conferma la Corte di cassazione, sezione lavoro, con la sentenza del 27 gennaio 2017 n. 2148, avallando l’orientamento giurisprudenziale secondo cui non sussiste mobbing senza la prova dell’intenzionalità persecutoria del datore di lavoro, preordinata alla vessazione o alla emarginazione del dipendente, con evidenti ricadute in termini di onere probatorio tra le parti.

La giurisprudenza prevalente ha inquadrato il mobbing - non tipizzato all’interno del nostro ordinamento - nell’alveo della responsabilità contrattuale, riconducendo la fattispecie alla violazione dell’obbligo di protezione sancito dall’articolo 2087 del Codice civile, che impone al datore di lavoro di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del dipendente (Cassazione sezione lavoro, sentenza 3 marzo 2016 n. 4222).

Conformemente alla natura contrattuale della responsabilità, grava sul lavoratore l’onere di provare l’inadempimento del datore di lavoro, il danno patito (nella sua componente patrimoniale e non patrimoniale) e il nesso di causalità tra danno e inadempimento (attraverso idonea documentazione medico-legale). Spetta, invece, al datore di lavoro la prova di aver adottato tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità psicofisica del dipendente (Cassazione, sezione lavoro, 10 gennaio 2012, n. 87).

La giurisprudenza, tuttavia, nel tentativo di circoscrivere le richieste risarcitorie meramente pretestuose, ha ricostruito l’istituto in maniera rigida e restrittiva, gravando il lavoratore di un onere probatorio molto rigoroso.

Come chiarito dalla Suprema corte con la sentenza del 6 agosto 2014 n. 17698, e secondo un orientamento ormai consolidato, per la configurabilità del mobbing non rilevano mere posizioni conflittuali tra le parti, fisiologiche allo svolgimento di un rapporto di lavoro, dovendo sussistere contemporaneamente una serie di cinque elementi costitutivi (si veda l’articolo a fianco).

La Cassazione ha dunque stabilito, in analogia con una recente pronuncia di merito (Tar Calabria, sezione Reggio Calabria, 1° febbraio 2017 n. 84), che il lavoratore ha l’onere di allegare e provare in giudizio non solo l’esistenza di atti vessatori sistematici e duraturi, ma anche «l’esplicita volontà del datore di lavoro di emarginare il dipendente in vista di una sua espulsione dal contesto lavorativo o, comunque, l’intento persecutorio» (Cassazione, sezione lavoro 8 gennaio 2016 n. 158).

Il disegno vessatorio del datore di lavoro consente di distinguere il mobbing da singoli atti illegittimi, come il mero demansionamento, e dal diverso e più attenuato fenomeno dello «straining».

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