Rapporti di lavoro

Il lavoro agile privilegia i tempi vita-lavoro e non la responsabilizzazione del dipendente

di Antonio Carlo Scacco

Il lavoro dei tempi odierni non è più collegato al posto di lavoro inteso come luogo fisico, ma spesso (e sempre più) è un lavoro che si svolge in remoto, generalmente orientato ai progetti e ai programmi.

Paradigma di tale trasformazione è il concetto di agile working, da intendersi come una cultura del lavoro ‘diffuso' che punta più ai risultati e meno alla presenza fisica, abilitando l'adozione di filiere d'impresa fisico-digitali. Il concetto di agile working è stato tradotto con la locuzione italiana di “lavoro agile”, suscitando, sul piano strettamente lessicale, l'apprezzamento della stessa Accademia della Crusca che ha ritenuto l'espressione “lavoro agile” un perfetto equivalente della corrispondente anglosassone, con il vantaggio della maggiore trasparenza.

In realtà la locuzione “agile working” richiama espressamente una modalità di lavoro, certamente riconducibile al lavoro smart, caratterizzata dall'essere fondata sul risultato e sulla prestazione. La “agilità” del lavoro non è altri che il tentativo di creare un mix ideale di nuove opportunità/possibilità circa i luoghi di lavoro, i tempi, i processi, la tecnologia subordinatamente alla specifica finalità di realizzare l'obiettivo ad hoc o compito (task) assegnato al lavoratore nel modo più efficiente possibile.

In quanto tale, l'agile working rappresenta l’evoluzione di quel processo di autonomizzazione del lavoratore (o “ripersonalizzazione” per usare un termine di Alain Supiot) che è al centro degli sviluppi delle più recenti teorie della organizzazione aziendale e del management. Ripersonalizzare significa riattribuire margini di autonomia e responsabilità al singolo operatore, fino ad arrivare a un modello del lavoro basato quasi interamente sull'idea del talento (ambiente disruptive), laddove la stessa esperienza può essere considerata superflua o addirittura dannosa ed assume, al contrario, valore centrale la capacità di esplorare nuove strade e nuovi percorsi.

Il “lavoro agile” definito nei disegni di legge attualmente all'esame della aule parlamentari appare ben lontano dal modello anglosassone. Manca, nella traduzione italiana dell'agile working, la stella polare che dovrebbe connotarne e caratterizzarne l'agilità, ossia l'attenzione al risultato, all'obiettivo. Ma il conseguimento dell'obiettivo in modalità agile non può prescindere dalla responsabilizzazione del lavoratore, dalla sua capacità di autogestirsi in un nuovo contesto, di carattere essenzialmente culturale, di philosophy of empowerment.

Quanto lontano sia il nostro legislatore dall'idea di agility lo si evince già dall'articolo 13 del disegno di legge 2233 il quale, laconicamente, definisce il lavoro agile «quale modalità flessibile di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato», ossia semplice declinazione di un rapporto lavorativo, quello del tradizionale lavoro dipendente e subordinato, ormai retaggio del passato e lontano dall'idea stessa della “agilità” come sopra definita.

La via italiana all'agility sembra essere in primo luogo quella di privilegiare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, ossia consentire al lavoratore la possibilità di “incastrare” agilmente le ore da dedicare al lavoro con quelle da dedicare alle proprie esigenze personali, in un'ottica di onnipresente direzionalità. Dimenticando che il dividendo vero dell'agile working è nella responsabilizzazione del lavoratore sul risultato e sulla prestazione, unica via per giungere ad un incremento effettivo della produttività.

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