Rapporti di lavoro

Contratto a tutele crescenti, il bicchiere è mezzo pieno

di Francesco Rotondi

A valle dell'emanazione del primo decreto attuativo delle deleghe attribuite al governo si è scatenata la solita ridda di commenti, dagli entusiasti ai pessimisti, come ormai solito nel nostro Paese. Personalmente ritengo innegabile che vi siano nel testo del documento in commento elementi di indubbia novità:
• in primo luogo, il tentativo più convincente di escludere la “reintegrazione” come sanzione ordinaria e relegarla ad una previsione “speciale” in casi “speciali” di licenziamento, appare riuscito;
• vi è un consistente ripensamento circa l'impostazione dell'attività da effettuare per la ricollocazione nel mercato del lavoro;
• vi è un modello di sostegno al reddito decisamente più rispondente ai tempi che stiamo vivendo.

Vorrei però spostare l'attenzione su un altro aspetto e, più precisamente, verificare se le norme così impostate siano effettivamente ciò che può essere considerata un'opportunità per i lavoratori (in modo particolare i giovani) e per le imprese. Partendo dal principio che l'introduzione di questa nuova formula contrattuale, parlo del contratto a tutele crescenti, doveva essere anche lo strumento per la lotta al precariato, mi pare che la risposta non potrà che essere negativa. Mi spiego.

Gli effetti negativi per i lavoratori derivanti dal non avere un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato erano originati dal punto di vista dell'accesso al credito per il fatto di non poter immaginare una “continuità” reddituale, dal punto di vista giuridico, per il fatto di poter essere risolti senza le criticità di cui all'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (reintegra). Orbene, se la risposta a quanto sopra è la “eliminazione della reintegrazione” per le nuove assunzioni, non credo che si possa affermare centrato l'obiettivo. Le poche digressioni sul punto che ho avuto modo di leggere parlano di un tema più “psicologico” che reale e pragmatico ovvero di un aspetto che riguarda il pensiero di avere comunque sottoscritto un contratto di lavoro a tempo indeterminato.

Per quanto attiene invece la parte datoriale, ritengo che anche con tale previsione non vi sia data risposta all'esigenza di “flessibilità” organizzativa che richiede il mondo attuale. Questa pseudo-flessibilità si fonda esclusivamente sulla certezza di non avere la reintegra del lavoratore licenziato per motivi economici, non di non dover pagare pur essendo in presenza di mere esigenze organizzative magari volte a cercare di evitare cessazioni di attività, trasferimenti e quant'altro.

Questo è un concetto che non riusciamo a comprendere: la flessibilità organizzativa non è necessariamente coincidente con la libertà di licenziare senza pericolo di reintegrazione. La flessibilità che l'impresa deve avere è quella di mutare il proprio assetto organizzativo in base alle esigenze del mercato, non certo per i capricci del datore di lavoro e ciò per ottenere la continuità aziendale e le opportunità che da essa scaturiscono anche per i lavoratori.

Venendo ai giovani il mio giudizio è che essi ne possano uscire ancora più penalizzati. Non avendo previsioni ad hoc, i nuovi assunti sui quali il mercato del lavoro farà immediatamente riferimento saranno quelli già in possesso di una formazione non completamente coincidente con quelle ricercate. Il giovane appena laureato o diplomato, di fronte a tale situazione contrattuale non credo rappresenterà un'opportunità per l'impresa.

Torniamo dunque al bicchiere: in psicologia si suole affermare che è meglio dire che il bicchiere o è pieno o nulla; dire che vi è un mezzo pieno e un mezzo vuoto certifica l'esistenza di un aspetto negativo, di una criticità, di un problema, ciò non è terapeutico. In questo caso a mio parere ricadiamo nel popolare detto.

Tirando le fila in ordine alla valutazione del primo decreto attuativo, mi pare che si possa apprezzare la chiarezza dell'intervento normativo e la decisa presa di posizione rispetto al tema storico della “reintegrazione”; detto questo, non ci si può di certo sbilanciare invece per ciò che attiene la coincidenza fra la novella e gli scopi e gli obiettivi della riforma. Personalmente i dubbi maggiori sono riferiti all'idea che questo strumento possa considerarsi idoneo al superamento del concetto di precariato, dubbio che comprende anche le valutazioni che in tal senso saranno effettuate dagli operatori del settore ad esempio della concessione del credito.

La soluzione del problema credo vada trovata altrove e al di fuori della materia trattata. Esattamente nello stesso senso, non credo che la flessibilità organizzativa possa ritenersi far parte del nostro impianto normativo.

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