Rapporti di lavoro

Lo Smart Working “ricetta” contro l'eccesso di burocrazia

di Giampiero Falasca

Non passa giorno che non cresca l'attenzione per lo Smart Working, fenomeno tanto diffuso nella vita lavorativa quanto difficile da incasellare dentro i tradizionali schemi giuslavoristici.

Scherzando, ma non troppo, potremmo definirlo un “telelavoro 2.0”. Il punto di partenza dello Smart Working, infatti, è molto simile a quello del telelavoro: c'è un lavoratore che non lavora dentro i locali aziendali.

La differenza, non banale, con il telelavoro classico è che lo “smartworker” non si sposta da una sede fissa - l'azienda - verso un'altra sede fissa - le mura domestiche - ma vuole la libertà di decidere di volta in volta dove stabilirsi per svolgere la propria attività; può essere la casa, uno spazio di co-working, o qualsiasi altro luogo.

Questa libertà mal si concilia con i tanti - troppi - vincoli che ancora oggi frenano il telelavoro, ingabbiato da un livello di burocrazia “lunare”, con alcuni obblighi assolutamente paradossali o comunque eccessivi (le visite ispettive a casa del lavoratore, per controllare se la sua abitazione è conforme alle regole di sicurezza, sono un esempio di questa rigidità).

Per liberarsi da questi vincoli, cresce la domanda di un nuovo telelavoro, lo smart working, nel quale l'allontanamento fisico del dipendente non sia frenato da una scia di scartoffie e burocrazia.

Purtroppo questa domanda oggi fatica a trovare soddisfazione, perché - senza cambiare le regole - sarà difficile distinguere telelavoro e smart working.

Lo scorso anno un progetto di legge bipartisan aveva provato a muovere la acque, chiarendo che entro una certa misura di tempo il lavoro fuori dall'ufficio poteva essere regolato informalmente, senza burocrazie inutili. Il Jobs Act vuole conciliare i tempi di vita e di lavoro: quale migliore occasione per riprendere quelle idee, ancora molto attuali?

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