Rapporti di lavoro

Consulta: legittima la reintroduzione del Tfs nel pubblico impiego

di Armando Montemarano

L'istituto della «liquidazione», vale a dire la corresponsione generalizzata ai lavoratori subordinati di una somma in denaro con la funzione di aiuto immediato per superare il periodo di adattamento alla nuova condizione di vita, si è affermato nel nostro ordinamento da quasi un secolo, accentuandosene talora la funzione previdenziale e talaltra quella retributiva, ma sempre resistendo, almeno fin qui, ai tentativi di superamento, il più recente dei quali è la proposta in discussione di renderne facoltativa la trasformazione in retribuzione diretta da percepire in quota ad ogni periodo di paga.
Nel pubblico impiego, in cui la «nuova condizione di vita» coincide quasi sempre con il pensionamento, l'importanza dell'istituto è particolarmente avvertita e ha sempre alimentato copiosa giurisprudenza, della quale la sentenza n. 244, depositata il 28 ottobre 2014 dalla Corte Costituzionale, costituisce l'ultima tappa.

La «liquidazione» è attualmente così articolata:
• i dipendenti privati godono del Tfr (trattamento di fine rapporto), frutto dell'accantonamento del 6,91% della retribuzione, con assenza di qualsiasi contributo a carico del lavoratore;
• i dipendenti pubblici assunti prima del 1° gennaio 2001 maturano il Tfs (trattamento di fine servizio), corrisposto da un fondo finanziato, tra l'altro, da un contributo del 9,60% sull'80% della retribuzione lorda a carico dell'amministrazione di appartenenza, con diritto di rivalsa sul dipendente del 2,50%;
• i dipendenti pubblici assunti prima del 1° gennaio 2001 maturano il Tfr se aderiscono alla previdenza complementare;
• i dipendenti pubblici assunti dal 1° gennaio 2001 hanno diritto al Tfr al pari di quelli privati.

Il tribunale di Reggio Emilia aveva sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 98 e 99, L. n. 228/2012 (Legge di stabilità 2013), con cui è stata reintrodotta la trattenuta del 2,50%, che era stata spazzata via dalla sentenza n. 223 del 2012, con la quale la Consulta aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 12, c. 10, D.L. n. 78/2010.
I sospetti di illegittimità delle nuove disposizioni riposavano essenzialmente sul rilievo che la normativa, ripristinando in pratica il regime del Tfs per i pubblici dipendenti assunti prima del 1° gennaio 2001, avrebbe reintrodotto una disparità di trattamento tra costoro, assoggettati al prelievo del 2,5%, e i lavoratori per i quali è in vigore la disciplina del Tfr, sostanzialmente i dipendenti privati e i dipendenti pubblici assunti dal 2001 in poi.
Il giudice delle leggi ha ritenuto insussistenti le censure, argomentando che il Tfs è diverso (e normalmente «migliore») rispetto al Tfr, per cui il fatto che il dipendente partecipi al suo finanziamento non integra un'irragionevole disparità di trattamento rispetto al lavoratore che ha diritto al Tfr. Per altro verso, prosegue la sentenza, il fatto che alcuni dipendenti delle pubbliche amministrazioni godano del Tfs ed altri del Tfr è conseguenza del transito del rapporto di lavoro da un regime di diritto pubblico ad un regime di diritto privato e della gradualità che, con specifico riguardo agli istituti in questione, il legislatore, nell'esercizio della sua discrezionalità, ha ritenuto di imprimervi.

Il citato comma 99 ha pure previsto l'estinzione di diritto dei processi pendenti aventi ad oggetto la restituzione del contributo del 2,50%, stabilendo che le sentenze eventualmente emesse, fatta eccezione per quelle passate in giudicato, restano prive di effetti. Pure tale disposizione veniva censurata dal tribunale: da un parte, poiché avrebbe vanificato il diritto del cittadino alla tutela giurisdizionale e creato una disparità ingiustificata di trattamento tra coloro che avevano già adito l'autorità giudiziaria, ottenendo una pronuncia favorevole alla restituzione del prelievo del 2,50%, e coloro ancora «sub iudice»; d'altra parte, poiché l'estinzione necessariamente automatica di tutti i giudizi pendenti, con la conseguente compensazione delle spese, avrebbe realizzato un'illegittima interferenza del potere legislativo nella sfera della giurisdizione, sopprimendo il diritto dell'interessato ad essere tenuto indenne dal pagamento, al proprio difensore, delle spese processuali sostenute.
Sono, questi, appunti che sovente si indirizzano ai provvedimenti legislativi che intervengono ad estinguere processi in corso. E rispetto ad essi la Consulta ha confermato la propria consolidata giurisprudenza: il legislatore, intervenendo a regolare una data materia, può anche incidere sui giudizi pendenti, dichiarandoli estinti, senza ledere il diritto alla tutela giurisdizionale garantito dall'art. 24 Cost., se la nuova disciplina non travolge i diritti azionati in quei processi ma, al contrario, li realizza, facendo cessare la materia del contendere.

Sulle conseguenze dell'estinzione dei giudizi sul regime delle spese, la Corte ha rilevato che l'estinzione non si accompagna, nella norma impugnata, alla previsione di un'automatica compensazione delle spese di lite. L'art. 91, 1° comma, cod. proc. civ., prevede che il giudice, con la sentenza che chiude il processo, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese e ne liquida l'ammontare insieme con gli onorari di difesa. Vi può essere, dunque, condanna alle spese nella ricorrenza di due presupposti: la chiusura del processo con una sentenza e la soccombenza di una parte. Prescindendo pure da ogni altra considerazione sulla natura del decreto, che il comma 99 impone venga utilizzato per dichiarare l'estinzione, e sulla sua compatibilità con una condanna alle spese, resta da osservare che sarebbe comunque impossibile individuare una parte soccombente nel giudizio estinto in forza di legge. Senza contare che la stessa disposizione prevede che le sentenze emesse prima della sua entrata in vigore e non passate in giudicato restino prive di effetti: sarebbe assurdo che le sentenze già emesse di condanna alle spese restassero travolte, mentre i decreti da emettere nei processi in corso potessero contenere quella condanna, vanificata dalla legge per i giudizi già definiti. Le argomentazioni con cui la Corte ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale sul punto avrebbero dovuto essere meno sbrigative.

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