Rapporti di lavoro

Patto di prova: quali adempimenti per il datore di lavoro?

di Alberto Bosco

E' buona norma far precedere la definitiva instaurazione del rapporto di lavoro – sia esso a tempo indeterminato ovvero anche a termine – dall'esperimento del periodo di prova. Il patto di prova è quindi l'atto (scritto) che consente a ciascuna delle parti di valutare la convenienza alla definitiva instaurazione del rapporto di lavoro: in particolare, per il datore che assume, costituiscono oggetto di valutazione non solo le effettive capacità e competenze del dipendente, ma anche le sue attitudini caratteriali, ossia la sua capacità a integrarsi nell'ambiente di lavoro e ad interagire positivamente con i colleghi e, ove presenti, con i clienti.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8463 del 4 aprile 2007, ha peraltro precisato che le parti, nella loro autonomia negoziale, possono stipulare tanto un contratto di lavoro con patto di prova, quanto lo svolgimento di una semplice attività “esplorativa” dell'ambiente di lavoro che sia finalizzata unicamente all'acquisizione delle opportune, reciproche informazioni concernenti l'instaurando rapporto. Al di fuori di tale specifico caso, l'articolo 2096 del codice civile, dispone anzitutto che l'assunzione del prestatore di lavoro per un periodo di prova deve risultare da atto scritto: in difetto di che esso si ha come non apposto, e il rapporto viene costituito in maniera “stabile” sin dall'inizio.
Durante il periodo di prova ciascuna delle parti può recedere dal contratto, senza obbligo di preavviso o di indennità. Se però la prova è stabilita per un tempo minimo necessario, la facoltà di recesso non può esercitarsi prima della scadenza del termine. Una volta che sia stato compiuto il periodo di prova, l'assunzione diviene definitiva e il servizio prestato si computa nell'anzianità del prestatore di lavoro.
Particolare attenzione va posta al fatto che la stipulazione in forma scritta deve essere precedente all'effettivo inizio dell'attività o, al più, contemporanea rispetto a tale momento; come precisato dalla Corte di Cassazione (si veda la sentenza n. 16806 del 29 luglio 2011) è ammessa solo la non contestualità della sottoscrizione di entrambe le parti prima della esecuzione del contratto.
La durata massima del patto di prova è normalmente stabilita dal contratto collettivo; in difetto di previsione ad opera delle parti contraenti, si applica quanto previsto dall'articolo 4 del RDL n. 1825/1924, a mente del quale il periodo di prova non può superare i 6 mesi per gli institori, procuratori, rappresentanti a stipendio fisso, direttori tecnici o amministrativi e impiegati di grado e funzioni equivalenti; e i 3 mesi per tutte le altre categorie.
Allo scadere del periodo, se il giudizio è positivo, il datore di lavoro può confermare esplicitamente in servizio il lavoratore (a voce o consegnandogli apposita comunicazione); se non viene comunicato alcunché, il rapporto si instaura in via definitiva. Nel caso in cui le parti abbiano convenuto una durata inferiore a quella massima prevista dal CCNL, la Cassazione ha ritenuto legittimo il successivo prolungamento del periodo di prova, giustificato dalla volontà di adeguare lo stesso alla durata prevista dal contratto collettivo, se la clausola introdotta non prevede termini di durata del periodo di prova maggiori rispetto a quelli determinati dalla contrattazione collettiva.
Altro tema delicato è legato alle assenze del lavoratore: sul punto la giurisprudenza prevalente afferma che, salvo l'operatività di una specifica disposizione del CCNL, se è stato stabilito un periodo di “effettivo servizio”, i giorni in cui la prestazione non si è verificata per eventi non prevedibili in anticipo, quali malattia, infortunio , gravidanza, permessi, sciopero e ferie annuali, hanno un effetto sospensivo del periodo di prova. Tale effetto non è invece riconosciuto ad altri eventi, normali nel corso di un rapporto di lavoro, quali i riposi settimanali e le festività.
Particolare attenzione il datore di lavoro deve sempre porre a quanto scritto nel patto con riferimento alle mansioni del lavoratore: queste devono essere individuate in maniera specifica (anche con richiamo a quanto previsto dal CCNL, ove la clausola contrattuale sia sufficientemente specifica a tal riguardo), posto che è il loro svolgimento a formare oggetto di valutazione ai fini della prova. È poi necessario che il lavoratore venga effettivamente adibito alle mansioni per le quali è stato assunto in prova: se ciò non avviene, non è configurabile un esito negativo della prova, e il licenziamento non è riconducibile alla recedibilità ad nutum, non potendo il datore avvalersi del patto cui non abbia dato corretta esecuzione (Cass. 17.2.2003, n. 2357).
Venendo al recesso, va ricordato che – ai sensi dell'art. 2096 del codice civile – esso è consentito non solo al termine del periodo ma, salvo che l'esperimento sia stato stabilito per un tempo minimo necessario, anche nel corso del periodo di prova. Durante il periodo di prova (o al suo termine) ciascuna delle parti può quindi risolvere il contratto, senza obbligo di motivazione, di preavviso o di pagamento della connessa indennità . Al lavoratore assunto in prova spetta in ogni caso il TFR maturato nel periodo in cui il rapporto ha avuto corso.
Infine, il recesso durante o al termine della prova, data la specialità della disciplina, non deve necessariamente avvenire in forma scritta ma può validamente consistere in una comunicazione verbale (Corte Costituzionale 4 dicembre 2000, n. 541).

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