Adempimenti

Diritti minimi europei non applicabili ai Gig workers

di Aldo Bottini

Il 16 aprile il Parlamento europeo ha approvato una direttiva che si propone di stabilire per tutti i lavoratori condizioni di lavoro «trasparenti e prevedibili» e diritti minimi. Il testo ufficiale non è ancora pubblicato, il che impone cautela nell’interpretazione, considerata la delicatezza di alcune definizioni, prima tra tutte proprio quella di “lavoratore”. Ma alcune considerazioni possono già essere svolte.

Intanto la direttiva si pone come il primo strumento attuativo del Pilastro europeo dei diritti sociali, proclamato a Goteborg il 17 novembre 2017, sinora rimasto a livello di affermazioni di principio, ma che, almeno nelle intenzioni, si avvia a diventare la base di un vero e proprio diritto del lavoro europeo. La novità (e problematicità) della direttiva, che gli Stati membri hanno tre anni per attuare, non sta tanto nei diritti minimi individuati, tutti ben conosciuti dal nostro e dalla maggioranza degli ordinamenti europei (anche se è interessante notare come faccia significativamente la sua comparsa tra essi il diritto alla formazione durante l’orario di lavoro), quanto nel suo campo di applicazione.

L’articolo 1, nel testo diffuso all’indomani della approvazione, stabilisce che i diritti minimi si applichino «a tutti i lavoratori nell’Unione che hanno un contratto di lavoro o un rapporto di lavoro quali definiti dal diritto, dai contratti collettivi o dalle prassi in vigore in ciascuno Stato membro, tenendo conto della giurisprudenza della Corte di Giustizia». Fin qui nulla di particolarmente nuovo o dirompente. Tuttavia nei “considerando”, in particolare nell’ottavo, dopo il richiamo ai criteri stabiliti dalla Corte di giustizia per determinare la condizione di lavoratore, si legge che «i lavoratori domestici, i lavoratori a chiamata, i lavoratori intermittenti, i lavoratori a voucher, i lavoratori tramite piattaforma digitale, i tirocinanti e gli apprendisti potrebbero rientrare nell’ambito della presente direttiva a condizione che soddisfino tali criteri».

Un apparente allargamento a tutte le tipologie di lavoro che ha fatto dire, nel comunicato stampa diffuso dallo stesso Parlamento europeo, che i riders (e più in generale i Gig workers) potranno godere di nuovi diritti. In realtà le cose non stanno proprio in questi termini. Il riferimento alle definizioni nazionali e a quelle stesse della Corte di giustizia non consente di superare la tradizionale distinzione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato. Tanto più che lo stesso ottavo considerando afferma che «i lavoratori effettivamente autonomi non dovrebbero rientrare nell’ambito di applicazione della presente direttiva», in quanto non soddisfano i criteri che definiscono la nozione comunitaria di lavoratore. E per i tribunali italiani (come per la maggior parte delle corti europee), quello dei fattorini del food delivery è lavoro autonomo, per la semplice considerazione che essi possono scegliere se e quando lavorare, mancando il requisito dell’obbligatorietà della prestazione.

Nè il riferimento ai criteri stabiliti dalla Corte di giustizia può indurre a diverse considerazioni, posto che anche per la Corte la nozione di lavoratore presuppone pur sempre che una persona si vincoli, per un certo periodo, a fornire prestazioni a favore e sotto la direzione di un’altra. Un vincolo obbligatorio che permane nel tempo dunque, il che non si ravvisa nel lavoro dei riders, che di volta in volta si esaurisce nell’esecuzione del servizio richiesto (la consegna del cibo a domicilio), servizio che, in assenza di obbligatorietà reciproca di proporre e accettare, potrebbe, in ipotesi, non avvenire o non ripetersi mai.

La peculiare natura del lavoro tramite piattaforma (che fa anche fondatamente dubitare della natura di “datore di lavoro” della piattaforma stessa, da considerare piuttosto come mero intermediario tra chi richiede il servizio e chi lo offre) è del resto poco compatibile con il quadro di diritti minimi stabiliti dalla direttiva. In particolare proprio con quel livello minimo di prevedibilità al quale si afferma che il lavoratore debba aver diritto. Prevedibilità che è in linea di massima esclusa laddove la decisione di lavorare sia rimessa alla volontà del prestatore.

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