Adempimenti

Le tutele nell’era dell’insicurezza

di Patrizia Tullini

È tempo di abbandonare le affascinanti narrazioni sul cambiamento tecnologico e le prognosi futuristiche sulle conseguenze destinate ad abbattersi sulla forza lavoro. Le pronunce dei giudici, italiani e stranieri, sulla piattaforma Uber e le azioni giudiziarie intentate dai rider riconducono il dibattito giuridico a un orizzonte concreto, e molto prossimo, nel quale non basta individuare i problemi e mai le soluzioni. Al contempo la mobilitazione e le inedite forme di protesta nei settori del trasporto e della logistica, ormai dominati dai giganti della rete, hanno fatto emergere con chiarezza i reali bisogni e le domande di tutela avanzate dai lavoratori delle piattaforme.

Sembra di capire che la principale preoccupazione non sia tanto la rivendicazione dello status di lavoratore subordinato o d’un inquadramento giuridico classico, quanto piuttosto la ricerca di condizioni di lavoro eque e dignitose, di basilari misure di welfare, di livelli retributivi e di reddito che non tradiscano il principio costituzionale della «sufficienza» rispetto alle esigenze di vita (art. 36 Cost.).

La forza lavoro utilizzata nell’economia digitale pare aver interiorizzato – anche se non accettato – l’idea che l’insicurezza è parte ineliminabile del mondo fluttuante del web: conforma di sé modalità lavorative atipiche, disegna traiettorie occupazionali frammentate, dischiude percorsi professionali incerti, premia il talento nativo, le competenze trasversali e le capacità intuitive.

Eppure l’insicurezza è un prezzo che molti sono disposti a pagare in omaggio al (presunto) determinismo tecnologico e in cambio dell’estrema accessibilità della rete. La possibilità di fruire senza intermediazioni d’una mole d’informazioni da utilizzare come estensione delle capacità individuali lascia intravedere una portata universale: la rete diventa cantiere del self-made e l’iper-produttività del singolo si trasforma in un mito di massa.

Senza dubbio le nuove relazioni lavorative richiamano l’adozione di strumenti concettuali appropriati e un impegno culturale adeguato alla sfida. Ma l’affinamento teorico – che è indispensabile per oltrepassare la narrazione – non può trascurare l’esigenza più immediata e pressante: quella d’introdurre un argine alla precarietà lavorativa e alla fragilità sociale che sono conseguenze per nulla legittime e neutrali dell’evoluzione antropologica in atto.

Questa consapevolezza induce a chiedersi se il perno del dibattito non debba riguardare il contenuto di valore delle categorie sinora applicate dal diritto del lavoro, la loro capacità di leggere i fenomeni economico-sociali e la razionalità delle soluzioni regolative. La domanda è se occorra sforzarsi d’inquadrare le attività sul web secondo la tradizionale coppia lavoro autonomo/subordinato, oppure sia più utile puntare su un pacchetto di tutele sociali svincolate dalla rigidità degli schemi legali e negoziali.

Chi propende per l’irrinunciabilità del riferimento alla subordinazione valorizza il percorso storico d’una categoria che ha dimostrato di sapersi adattare a qualsivoglia processo o modalità lavorativa. Tanto più che non c’è una reale differenza in termini economico-sociali tra il lavoro dei pony express nel secolo breve e quello dei fattorini del web sperimentato dai millennials.

Chi invece accoglie la tesi opposta – o comunque non teme una decostruzione dei concetti tradizionali – sottolinea la scarsa razionalità d’una difesa a oltranza della coppia autonomia/subordinazione, e soprattutto il fatto che il legislatore (in Italia e in Europa) ha ormai fatto il salto verso regole selettive collocate su una linea di continuità e agganciate a status normativi ibridi o intermedi.

Si dirà che l’operazione giuridica che punta al riconoscimento della subordinazione al potere altrui rimane centrale e insostituibile: in fondo, si tratta della metodologia di risposta più soddisfacente rispetto ai bisogni delle persone che lavorano, quella che apre le porte alla tutela individuale e collettiva, in una parola alla cittadinanza sociale.

Ed è senz’altro vero, ma resta il fatto che il rinvio alle classiche categorie lavoristiche non è in grado di mantenere ciò che promette. Il potere delle piattaforme di determinare la relazione tra domanda e offerta agisce sul piano economico-sociale, ma anche su quello giuridico. L’utilizzo di determinati schemi contrattuali dipende dalla domanda asetticamente veicolata attraverso la rete, dal grado di (in)sicurezza che le piattaforme sono disposte a concedere agli utenti-lavoratori, dall’eventuale politica di fidelizzazione verso alcune fasce di web worker. Non è casuale che le formule d’ingaggio siano indifferentemente riconducibili alla parasubordinazione, al lavoro autonomo o alla prestazione occasionale, pur a fronte delle medesime modalità esecutive. Sino alla massima esternalizzazione possibile, quando si esclude qualsiasi vincolo negoziale perché la piattaforma intende formalmente agevolare – o al massimo, intermediare – la relazione con il cliente finale, pur senza rinunciare a dirigere l’attività lavorativa tramite un algoritmo.

Questo potente dispositivo matematico-informatico rappresenta, anche simbolicamente, l’epicentro dell’innovazione tecnologica: distribuisce le opportunità occupazionali in una platea potenzialmente illimitata di aspiranti, organizza il lavoro, ne valuta i risultati e ne decide la cessazione con la disattivazione dell’account.

Di fronte ai rischi che ognuno intravede in simili scenari qual è la sollecitazione più urgente per il diritto del lavoro ?

Al diritto del lavoro si chiede anzitutto di cogliere le differenze e di saper distinguere: le situazioni che stanno pericolosamente virando verso un’economia neo-schiavistica e quelle che, invece, stanno incubando opportunità d’impiego e di sviluppo occupazionale; le forme di lavoro gestite dai giganti della on-demand economy da quelle ispirate ai criteri solidaristici della sharing economy; le attività app-driven eppure svolte nelle modalità ordinarie della subordinazione.

Diversificare le discipline, differenziare i trattamenti contrattuali, regolare l’annessione al diritto del lavoro di territori che presentano similari caratteristiche economico-sociali, captare i nuovi bisogni di rappresentanza e gli interessi da proteggere: sono i passaggi salienti d’un dibattito che s’è snodato per decenni rispetto all’impresa terziarizzata e post-fordista, ma acquistano oggi un’accelerazione senza precedenti.

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