Previdenza

Le riserve delle Casse per far crescere il lavoro dei giovani

di Alberto Oliveti*

L’Italia rischia di essere vittima di uno scontro fra generazioni. Una battaglia sotterranea si sta consumando anche in vista della prossima legge di bilancio. Il governo è tirato tra l’esigenza di favorire l’occupazione giovanile, necessaria per l’economia, e la richiesta, elettoralmente forse più conveniente, di alleggerire i requisiti per il pensionamento.

Per il bene di tutti occorre superare questo schema in cui i vecchi sembrano mangiare il futuro dei giovani. Ribaltando il paradigma, è possibile far sì che il reddito da lavoro dei più anziani serva a promuovere il lavoro giovanile.

Il sistema pensionistico italiano si basa su una ripartizione, per cui chi lavora paga l’assegno di chi è in pensione. La logica della ripartizione si fonda su un patto implicito tra generazioni: chi è vicino alla pensione deve sapere che la percepirà se ci sarà qualcun altro a versare contributi al suo posto.

Per perseguire quest’obiettivo il Governo ha proposto degli sgravi sulle nuove assunzioni. Il provvedimento, anche se riguarda solo i lavoratori subordinati, va certamente nella giusta direzione. Tuttavia è evidente che per creare nuova occupazione non bastano gli sconti.

Occorrono innanzitutto investimenti che diano slancio all’economia. Ed ecco che a questo fine possono entrare in gioco i redditi da lavoro dei più anziani. Il riferimento è ai guadagni che i lavoratori negli anni hanno differito con la contribuzione: oggi solo nel settore dei professionisti ammontano a circa 80 miliardi di euro. Le Casse di previdenza hanno investito queste riserve in modo diversificato a garanzia delle pensioni future ma sarebbero ben felici di immettere una quota maggiore di risorse in circuiti economici in grado di creare lavoro. Ad esempio i medici potrebbero investire di più sulla salute, gli architetti e gli ingegneri sui cantieri, eccetera. Quando si investe nel proprio ambito, infatti, si innesca un circolo virtuoso che favorisce il lavoro dei contribuenti e si generano benefici per l’indotto e l’intera collettività.

La politica da parte sua deve avere chiaro che le Casse gestiscono contributi dei lavoratori, non patrimoni o capitali. Si tratta quindi di redditi da lavoro e non rendite da capitale. Come tali vanno tassati una volta sola, mentre ora sono tassati sia nella fase della loro accumulazione, sia quando danno luogo a pensioni. Di fatto vengono tassati i frutti di investimenti che servono a pagare pensioni e welfare che, se gli enti di previdenza dei professionisti non fornissero, sarebbero a carico dello Stato.

Per la stessa ragione appare ancora più insensato far pagare imposte su somme che vengono reimmesse nei circuiti lavorativi per creare occupazione in Italia, invece di essere investite magari nel Sud-est asiatico come raccomanderebbe la logica finanziaria (il capitale segue il profitto).

Alcune correzioni sono state operate dal Governo: nel 2015 è stato introdotto un credito d’imposta per facilitare alcuni investimenti nell’economia reale e l’ultima legge di bilancio ha previsto la detassazione fino al 5% degli attivi se immessi nelle imprese. La prima misura però è stata cancellata dopo nemmeno due anni e, come ha già evidenziato il Sole 24 Ore, la seconda per come è stata scritta rischia di incentivare solo una parte infinitesimale degli investimenti delle Casse.

Se la politica non cambia paradigma e non si convince che gli enti pensionistici sono custodi di redditi da lavoro e non speculatori, l’Italia rischia che gli interessi degli investitori previdenziali non si allineino mai completamente a quelli dell’economia del Paese.

Con la conseguenza che le Casse a loro volta non riusciranno ad allineare gli interessi degli anziani con quelli dei giovani, investendo appieno nella creazione di lavoro.

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