Previdenza

Il «peso» previdenziale degli euroburocrati

di Claudio Gatti

Sono due decenni che le istituzioni europee – dalla Commissione al Consiglio europeo per finire con la Banca centrale – suonano l’allarme sul rischio di sostenibilità dei sistemi previdenziali degli Stati membri e chiedono riforme incisive. Ma un’inchiesta del Sole 24 ore durata oltre due mesi dimostra che le stesse persone e istituzioni che chiedono sacrifici politici, sociali ed economici non sono state capaci di implementare le stesse riforme a casa propria.

Nel rapporto annuale del lontano 2000, la Bce parlava della necessità di arrivare a una «sostituzione graduale dei sistemi tradizionali a ripartizione con sistemi a capitalizzazione». E appena due mesi fa, l’Eurogruppo ha emesso un comunicato in cui diceva che «in molti Stati membri esistono ancora rischi considerevoli», e chiedeva «ulteriori azioni politiche per rafforzare la solidità dei sistemi pensionistici pubblici».

Due pesi, due misure

In buona sostanza, dal 2000 a oggi, l’Europa continua a domandare due cose: l’abolizione definitiva del cosiddetto calcolo retributivo e l’aumento dell’età pensionabile. Ma l’inchiesta de Il Sole 24 Ore ha appurato che tutti e tre i sistemi previdenziali delle istituzioni europee – quello dell’Unione europea, quello della Banca centrale europea e quello della Banca europea per gli investimenti (Bei) – si reggono su impianti retributivi e hanno requisiti, età pensionabile in primis, molto più favorevoli di quelli stabiliti da riforme come quella fatta in Italia nel 2011 su richiesta di Commissione europea e Bce.

I trend demografici e finanziari che emergono dai dati da noi raccolti portano Stefano Patriarca, consulente del governo italiano sulle riforme pensionistiche e membro del Social Protection Committee dell’Unione Europea, a parlare di «una dinamica fortemente divaricante tra contributi e prestazioni che porta a prevedere una crescita sia della spesa che del debito pensionistico».

È il classico esempio di buoni predicatori che razzolano male? Elsa Fornero, la ministra che nel 2011 ha dovuto far fronte alla bomba a orologeria del nostro sistema pensionistico con una riforma che sta portando all’abolizione dello schema retributivo alzando l’età pensionistica, più elegantemente ci dice che «tutti sono sempre pronti a cambiare le pensioni altrui, ma per un cittadino di un Paese che ha mostrato la capacità di fare sacrifici - e l’Italia nel 2011 l’ha mostrata - è particolarmente sconfortante vedere che gli euro-funzionari che li hanno chiesti hanno continuato a mantenere i propri privilegi».

Sia in termini di contributi versati sia in termini di diritti acquisiti, i dipendenti delle istituzioni europee hanno ancora trattamenti che dai dati raccolti da Il Sole 24 Ore risultano tanto vantaggiosi (per loro) quanto insostenibili (per i contribuenti europei).

A ognuno il suo privilegio

Ogni realtà ha i suoi privilegi particolari. Nel caso della Bce, è l’aliquota contributiva a carico dei lavoratori: mentre per i dipendenti di Ue è oggi del 9,8% e per quella della Bei del 10,9%, per chi lavora alla Bce è appena del 7,4%. Ma su questo fronte nessuno ha più privilegi dei parlamentari europei. Rispetto a chi siede al Parlamento europeo persino i tanto criticati deputati e senatori italiani risultano svantaggiati. Come ci spiega Giuliano Cazzola, esperto di politiche sociali che quando era deputato alla Camera è stato membro del Nucleo di valutazione della spesa pensionistica, «stante la normativa vigente, per acquisire il diritto alla pensione nel Parlamento italiano occorre avere un minimo di quattro anni, sei mesi e un giorno e, con il regime contributivo, a partire dal 2012 per avere la pensione si dovranno raggiungere i 65 anni. Su di una retribuzione lorda annua di 125.220 l’accantonamento annuale è inoltre pari a 41.322, di cui un terzo a carico del parlamentare. I parlamentari europei invece acquisiscono, dopo un anno di mandato, il diritto alla pensione – cumulabile con altre derivanti da diversi mandati elettivi oltre che da attività lavorative e in misura del 3,5% della indennità parlamentare, circa 9mila euro lordi al mese, per ogni anno di mandato – senza contribuire neppure per un centesimo. E l’erogazione parte il giorno del compimento dei 63 anni».

Poiché un singolo mandato di cinque anni genera una pensione da 17.816 euro all’anno, considerando i 18 anni di aspettativa media di vita in Europa, Il Sole 24 Ore ha calcolato che ogni parlamentare costerà alla comunità una media di oltre 320mila euro. In quei 18 anni si può stimare che ci saranno oltre 2.500 parlamentari, quindi nei prossimi due decenni il costo si avvicinerà al miliardo di euro.

Seppur in modo meno intollerabile, il problema della passività previdenziale, e cioè dei costi futuri delle pensioni, esiste per tutti e tre gli schemi pensionistici delle istituzioni europee. Per rendersene conto basta guardare alla sua evoluzione. Fatta la premessa che il debito pensionistico non è ancora considerato un dato statistico ufficiale validato dall’Ocse e che le stime sono fornite nei bilanci delle tre istituzioni senza una spiegazione tecnica delle rispettive metodologie di calcolo, il trend emerge evidente. Nel 2010, tra pensioni e benefit sanitari, la passività della Ue era stimata in 37,2 miliardi dai cosiddetti “attuari”, gli esperti che calcolano il debito attualizzandolo. Solo cinque anni dopo, nel 2015, è arrivata a 63,8 miliardi, con un aumento di quasi il 72 per cento. Nei 15 anni tra 2000 e 2015, l’aumento è stato addirittura del 325 per cento. Nello stesso periodo, il numero di dipendenti o contrattisti con diritto alla pensione è invece salito di molto meno: circa il 68 per cento.

Tra il 2000 e il 2016 la sola passività pensionistica del gruppo Bei è aumentata del 523%, arrivando a 2,7 miliardi, mentre in appena dieci anni quella della Bce è salita del 521%, fino ad arrivare agli attuali 1,4 miliardi.

Il ruolo dei fondi pensione

L’aspetto più imbarazzante – e destabilizzante – è dato dal fatto che i fondi pensione creati per coprire quelle passività risultano da tempo insufficienti. In altre parole, si procede in condizioni di deficit non solo costante ma crescente. Nel caso della Bce, per esempio, gli obblighi previdenziali non coperti dal fondo dedicato sono passati dai 93 milioni del 2010 ai 511 del 2016.

Anno dopo anno, i rispettivi deficit vengono colmati dal budget dell’Unione europea ovvero dalle risorse della Bce e della Bei. La portavoce della Banca europea per gli investimenti ha tenuto a sottolineare che nel loro caso il buco non è riempito dai contribuenti europei, bensì dalla banca stessa. Il problema è che i capitali utilizzati a quello scopo vengono sottratti all’attività primaria della Bei, che è quella di erogare prestiti per investimenti a sostegno degli obiettivi dell’Ue. Quindi, seppur indirettamente, a pagare è sempre la comunità.

Nonostante il trend sia preoccupante, i tre sistemi continuano a concedere privilegi che gli esperti consultati da Il Sole 24 Ore ritengono insopportabili da tutti i punti di vista. Ci riferiamo al diritto a una pensione dopo appena 5 anni di lavoro (Bce e Bei) o dieci (Commissione europea e Consiglio europea). Oppure alla pensione “anticipata”, cioè all’accesso a una pensione, seppur fortemente decurtata da una penalizzazione, per chi vuole ritirarsi a 55 anni.

«Mentre insiste perché nei regimi previdenziali nazionali si accresca il più possibile la quota di finanziamento a capitalizzazione, per i suoi dipendenti la Bce usa ancora il cosiddetto “beneficio definito” che assicura un valore finale, cioè applica una forma, seppur ibrida, di modello retributivo. E lo fa con un livello di contribuzione destinato a risultare inadeguato entro breve tempo», osserva l’ex deputato Giuliano Cazzola.

Occorre notare che negli ultimi anni, alcune delle prerogative meno sostenibili sono state soppresse. Unione europea, Banca centrale e Banca europea per gli investimenti hanno infatti ripetutamente ridotto il tasso di accumulo delle quote di stipendio a fini pensionistici e aumentato sia il tasso di contributi dati dalle istituzioni sia l’età pensionabile. Ma lo hanno fatto in modo molto graduale e non risolutivo. Permangono infatti forti privilegi. E non solo per i 109 ex top manager europei oggi in pensione (i dieci ex membri del Consiglio esecutivo della Bce ricevono una media di 78mila euro di pensione, più 5.500 in benefit aggiuntivi).

Secondo un portavoce europeo, tutti i top manager europei ingaggiati a partire dal 4 marzo 2016 stanno accumulando per la pensione il 3,6% del proprio stipendio-base per ogni anno di servizio (mentre per il resto dei dipendenti la percentuale oggi è dell’1,8). Costoro hanno inoltre diritto a una cosiddetta “indennità di transizione” legata alla durata del periodo di servizio, per un minimo di sei mesi e un massimo di due anni. Tutto questo dopo una serie di riforme che hanno abbassato l’accumulo dalla quota originale del 4,5% (era il 2% per gli altri) e ridotto il periodo di diritto all’indennità di transizione, che prima era di tre anni indipendentemente dalla durata del servizio.

Che le misure prese non siano sufficienti lo dicono gli stessi dati dei bilanci annuali: la passività pro-capite dei funzionari Ue è infatti passata dai 476mila euro del 2000 ai 724mila del 2010, per arrivare all’1,2 milioni del 2015.

Il conto dei contribuenti

E chi si farà carico di quella crescente massa di debito previdenziale futuro? I contribuenti europei, ovviamente. In questo caso è addirittura dichiarato perché, ci è stato spiegato, il sistema previdenziale dell’Ue funziona come un fondo nozionale in cui non vengono versati capitali. E la differenza tra contributi e prestazioni viene coperta dal budget dell’Ue.

La Bce non è messa molto meglio. La riforma pensionistica attuata nel 2009 non è infatti bastata a evitare né l’aumento della passività pro-capite, cresciuta di oltre il 27% nei sei anni successivi alla riforma, né del deficit dell’apposito fondo amministrato da un gestore esterno in cui sono versati gli investimenti dei contributi previdenziali, passato dai 93 milioni del 2010 ai 511 del 2016.

Sulla gestione dei propri impegni previdenziali, la Bce dà mostra di sicurezza, sostenendo che i suoi «fondi pensioni sono considerati finanziamenti sostenibili», aggiungendo che «la prossima valutazione finanziaria è previsto sia fatta sulla base dei dati del 2018».

Ma se la riforma del 2009 avesse prodotto i risultati desiderati, viene da pensare che la Bce non avrebbe avuto bisogno di fare un aggiustamento in corsa nell’ultima valutazione, quella del 2015, quando, secondo un suo portavoce, «la contribuzione della banca al fondo pensione è stata portata dal 26,2% al 28,1% del salario di ogni dipendente».

Per non parlare degli «unfunded defined benefit arrangements», gli impegni privi di fondi dedicati, presi dalla Bce a beneficio di suoi dirigenti apicali. Per questi non c’è né un fondo dedicato né una cifra pubblica. Ci è stato infatti spiegato dal portavoce che, «in un piano pensionistico senza patrimonio a benefici definiti, non ci sono accantonamenti. I contributi sono direttamente imputati ai fondi della Bce, dai quali vengono poi pagate le prestazioni pensionistiche».

Un quadro preoccupante

Commentando i dati da noi raccolti, Stefano Patriarca conclude dicendo che «non essendo basati sui contributi versati e avendo limiti d’età di accesso inferiori al livello che nelle sue raccomandazioni la stessa Ue considera tollerabile, i sistemi previdenziali europei generano preoccupazione in relazione alla sostenibilità finanziaria nei bilanci Ue».

La professoressa Fornero offre invece una prospettiva diversa: «Io non credo che la criticità maggiore che emerge da questi dati sia data dai rischi di sostenibilità del sistema previdenziale europeo. Si potrebbe infatti dire che, trattandosi di istituzioni governative, basterebbe aumentare la tassazione per coprire il deficit. Io vedo piuttosto un problema di ipocrisia e uno di persistenza di privilegi. L’ipocrisia è ovviamente dovuta al fatto che le stesse istituzioni che ogni giorno chiedono ai cittadini europei di ingurgitare medicina amara, a casa loro si rifiutano di prenderla. E poi c’è il persistere di privilegi. Le eccezioni possono esistere, ma devono riguardare i più deboli, non una categoria già privilegiata qual è quella degli eurofunzionari».

Come ci dice l’ex ministra autrice di una delle più severe riforme previdenziali europee, «in questo momento storico dare l’esempio è molto importante, soprattutto nella logica del superamento dei populismi fortemente sostenuta da Bruxelles, Strasburgo e Francoforte». Ma, almeno sul fronte previdenziale, dal personale e dalle istituzioni europee non si può dire venga un buon esempio.

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