Previdenza

Rischio Pil sugli assegni

di Matteo Prioschi e Fabio Venanzi

Il sistema contributivo, introdotto dalla riforma Dini (legge 335/1995) risulta più aderente ai versamenti previdenziali effettuati dal lavoratore e dall'azienda nel corso dell'intera vita lavorativa. Però non garantisce in modo automatico che il capitale accantonato cresca nel tempo. Anzi, con un'economia in recessione c'è il rischio concreto che il montante si svaluti.

L'importo dei contributi rappresenta il montante contributivo che viene rivalutato annualmente sulla base dell'indice che fotografa il Prodotto interno lordo (Pil). La somma accumulata nel corso degli anni pertanto non è la semplice sommatoria dei contributi perché questi subiscono le rivalutazioni nel corso del tempo.

Il tasso annuo di capitalizzazione è dato dalla variazione media quinquennale del Prodotto interno lordo nominale appositamente calcolato dall'Istat, con riferimento al quinquennio precedente l'anno da rivalutare. Maggiore sarà la crescita del Pil, più verrà rivalutato il montante contributivo e più elevata sarà la rata pensionistica messa in pagamento.

Per esempio, a differenza di quanto accadeva nel passato quando nel sistema retributivo il beneficio attribuito al riscatto del titolo di studio produceva gli stessi effetti indipendentemente da quando avveniva (a parità di altre condizioni), un eventuale riscatto effettuato in un sistema contributivo puro, a parità di anzianità e di stipendio, potrebbe determinare pensioni di importo diverso a seconda di quando è stata presentata la domanda di riscatto, perché i relativi contributi versati subiranno un numero di rivalutazioni diverse rispetto alla data di presentazione della domanda.

Nei fatti l'indice rappresenta un tasso di rendimento che – come si vede nel grafico sopra – negli ultimi anni è notevolmente sceso per effetto della crisi. Quello applicato nel 2013 al montante accumulato a tutto il 2012 era dello 0,16 per cento. La caduta del Pil comporta necessariamente una minor rivalutazione dei montanti accumulati nel corso degli anni. Come sottolineato nei mesi scorsi dal commissario dell'Inps Vittorio Conti, per un neoassunto un punto di Pil medio in più o in meno durante la sua vita lavorativa determina un tasso di sostituzione (il rapporto tra l'assegno pensionistico e l'ultimo stipendio) che varia di 20 punti percentuali.

Per la prima volta nella storia del sistema contributivo, quest'anno l'indice potrebbe assumere valori negativi comportando inevitabilmente che le somme finora accantonate, anziché essere rivalutate, subiranno una svalutazione. Naturalmente ciò non riguarda quanto versato nel 2014, bensì quanto già accumulato nel corso degli anni precedenti.
In buona sostanza con un tasso di rivalutazione negativo gli ipotetici 10.000 euro di montante contributivo a inizio anno diventeranno 9.99x euro dodici mesi dopo. La norma a tal riguardo non prevede nulla, tuttavia la questione è nota agli addetti ai lavori.

Le cattive notizie non riguardano solo i più giovani, quelli che hanno iniziato a versare i contributi dopo il 1995. Infatti per effetto della riforma Monti-Fornero (legge 214) del 2011 anche i lavoratori ai quali si applicava il sistema retributivo perché avevano almeno 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995 sono interessati dalla quota contributiva che, dal 2012, trova anche per loro applicazione seppur per una quota inferiore rispetto a quelle retributive.

Le strade percorribili di fronte a un tasso di rivalutazione negativo sono due. La prima sarebbe quella di ammettere la svalutazione, ma con un limite ben preciso e cioè che le svalutazioni non dovranno mai intaccare quanto effettivamente versato al netto delle rivalutazioni precedenti. La seconda soluzione potrebbe essere quella di precisare, nel vuoto legislativo attuale, che quando l'indice assume valori negativi esso venga comunque elevato a 1 cosicché le somme fino a quel momento accantonate non subiranno né svalutazioni né rivalutazioni.

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