Contrattazione

Contratti a termine ancora più cari

di Valentina Melis

Per assumere un lavoratore a termine, nell’industria o nel commercio, un’azienda spende oggi 270 euro in più al mese, di quanto non spenderebbe se lo assumesse stabilmente (con lo sconto del 50% sui contributi previsto per favorire l’impiego degli under 35).

Se l’impresa sceglie la via della somministrazione a termine, la flessibilità sarà maggiore ma la spesa in più supera i 400 euro, perché, oltre ai contributi e alla paga, c’è da mettere in conto anche il costo dell’agenzia che invia in “missione” il lavoratore. Se questi contratti a termine fossero rinnovati, l’azienda dovrebbe versare da lì in poi una quota aggiuntiva di contributi, che equivale a circa 100 euro all’anno per lavoratore. Quest’ultimo aggravio è dovuto al decreto estivo sul lavoro (Dl 87/2018), pubblicato sulla «Gazzetta ufficiale» 161 di venerdì e in vigore da sabato: il provvedimento introduce infatti un contributo aggiuntivo dello 0,5% per ciascun rinnovo di un contratto a termine, anche in somministrazione.

La fetta più grossa dei costi aggiuntivi che gravano sui contratti flessibili è dovuta però all’aumento dei contributi già scattato dal 2013 per effetto della legge «Fornero»: con lo scopo di rendere il contratto a tempo determinato meno appetibile rispetto alle assunzioni stabili, la legge 92/2012 aveva introdotto una “addizionale” dell’1,4% che va a finanziare la Naspi, cioè la nuova versione dell’indennità di disoccupazione. Lo stesso intento, ovvero «indirizzare i datori di lavoro verso l’utilizzo di forme contrattuali stabili», giustifica ora il nuovo aumento contributivo sui contratti a termine previsto con il decreto estivo (così si legge nella relazione tecnica al provvedimento).

C’è da dire che se si analizza l’andamento dei contratti a termine attivati ogni anno, dal 2011 (cioè prima della legge «Fornero») fino al primo trimestre del 2018, non si scopre un crollo di questa formula contrattuale. Guardando al numero totale dei contratti «a tempo» attivati (vi rientrano anche gli incarichi di durata molto breve, fino a pochi giorni, e non si tiene conto del saldo rispetto alle cessazioni), si nota che il numero complessivo oscilla tra i 6,5 e i 7 milioni ogni anno. Gli aumenti contributivi non hanno scoraggiato, dunque, l’utilizzo del contratto a termine, che resta la formula prevalente per l’inserimento dei lavoratori: secondo l’ultimo Rapporto annuale sulle comunicazioni obbligatorie del ministero del Lavoro (appena pubblicato), il contratto a tempo determinato si attesta al 70% delle attivazioni avvenute nel 2017, con un aumento dello 0,8% rispetto al 2016 e del 4,7% rispetto al 2015.

A incidere sull’andamento dei contratti a termine nella seconda parte di quest’anno potrebbe essere piuttosto un’altra disposizione del decreto lavoro: quella che limita la durata massima dei contratti a termine da 36 a 24 mesi. In base alle stime della relazione tecnica al Dl 87/2018, sono 80mila i contratti a termine che superano mediamente ogni anno la durata di 24 mesi e che quindi nel nuovo assetto normativo si troverebbero a essere “fuori legge”. La relazione stima che siano 8mila (il 10%) i lavoratori che non troveranno un’altra occupazione alla fine dei 24 mesi (si veda Il Sole 24 Ore del 14 luglio).

Tornando al nodo dei costi, il confronto tra le spese previste per l’assunzione con le diverse formule contrattuali nell’industria, nel commercio e nell’artigianato, rivela una forte penalizzazione della somministrazione a termine e conferma la convenienza dell’apprendistato, che, come incentivo ai datori di lavoro, offre la possibilità di versare contributi ridotti e di sottoinquadrare il lavoratore, con una retribuzione più bassa.

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