Contrattazione

Compenso ad hoc per le ore in più del lavoro part-time

di Monica Lambrou

Forma scritta e adeguamento retributivo. Sono due condizioni richieste per poter ammettere nel rapporto di lavoro part-time, clausole che consentano di variare l’orario della prestazione (al ricorrere di determinate e tassative condizioni, individuate dall’articolo 6, comma 4, del Dlgs 81/2015).

Alla luce delle sue peculiarità, il contratto di lavoro a tempo parziale si caratterizza, per sua natura e in base alla costante giurisprudenza, per una necessaria predeterminazione del periodo in cui deve essere prestata l’attività. Le clausole che variano l’orario, quindi, rappresentano una deroga alla regola generale atta a predeterminare, come detto, la durata della prestazione lavorativa e, quindi, a escludere il potere del datore di una modifica unilaterale dell’orario.

Recentemente la Corte di cassazione, con l’ordinanza 6900 del 20 marzo 2018, nel dichiarare l’illegittimità di una clausola «elastica a chiamata» (un esempio di clausola elastica, con cui, oltre all’orario effettivo, il lavoratore offre la disponibilità all’eventuale “chiamata” del datore per svolgere attività ulteriore) ha offerto spunti di riflessione sui requisiti necessari per la legittimità di queste pattuizioni e sulle conseguenze del loro mancato rispetto. La normativa vigente e la giurisprudenza ammettono la possibilità di apporre sia clausole elastiche, con le quali il datore può ampliare la durata dell’orario, sia clausole flessibili, atte a consentire uno spostamento della collocazione temporale della prestazione.

La forma del patto
Un presupposto della validità di queste clausole è che risultino da un patto scritto espressamente sottoscritto dal lavoratore, e che siano contenute nel contratto o, in alternativa, qualora siano stipulate in un momento successivo, che la relativa pattuizione abbia data anteriore alla richiesta di variazione. Nessuna efficacia può essere attribuita a previsioni di variazione dell’orario di contenuto generico e sottoposte alla condizione «meramente potestativa» dell’insorgenza di esigenze aziendali (Tribunale di Milano, sentenza 1556/2017). Al datore è, poi, concesso di richiedere lo svolgimento di lavoro supplementare, e ciò però nel rispetto dei limiti posti dal Ccnl (o, in loro assenza, dei limiti previsti dall’articolo 6 comma 2 del Dlgs 81/2015) e senza che il rifiuto possa essere addotto a motivo di recesso.

Il fronte retributivo
La maggiore onerosità della prestazione, derivante dall’apposizione delle condizioni citate nel contratto deve, per costante giurisprudenza, essere accompagnata da un adeguamento retributivo, oltre che da un congruo preavviso (Cassazione, sentenza 4229/2016). Un principio, questo, ribadito anche dalla recente pronuncia della Cassazione, in base alla quale la mera disponibilità alla chiamata, seppur non «equiparata a lavoro effettivo», comporta un’offerta di energie lavorative superiore al normale orario della prestazione. Per la Corte, che ha riconosciuto un risarcimento al lavoratore, nel calcolo della retribuzione spettante al dipendente vanno anche quantificati:
• la difficoltà di programmazione di altre attività;
• l’entità del preavviso;
• il rapporto tra ore normalmente prestate e ore eccedenti. Questi elementi fungono da parametro anche per il giudice nella valutazione equitativa sul risarcimento. Ove, infatti, le clausole siano illegittime (perché, ad esempio: non rispettose delle formalità citate o non previste dal contratto collettivo) o il datore non retribuisca la disponibilità del lavoratore, questi può agire per l’accertamento di un danno risarcibile. Peraltro, giova rilevare come il pregiudizio possa essere considerato anche in re ipsa, ossia la mera sussistenza di una disponibilità – non retribuita - del lavoratore alla variazione può comportare un danno di per sé, con condanna del datore alla corresponsione di un importo valutato equitativamente dal giudice.

In ogni caso, trattandosi di responsabilità che la giurisprudenza ha definito di natura contrattuale, il lavoratore è agevolato dal punto di vista del riparto dell’onere probatorio, che grava sul datore di lavoro.

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