Contrattazione

Società pubbliche, dalle ristrutturazioni più di 50mila esuberi

di Gianni Trovati

Le ristrutturazioni già avviate sulle società partecipate dalla Pubblica amministrazione (Pa) hanno coinvolto più di 26.500 addetti, e gli obblighi di cessione scritti nella nuova riforma dovrebbero investirne almeno altri 19mila. Ma se i parametri fissati dal decreto attuativo della delega Madia saranno attuati pienamente, gli addetti coinvolti da fusioni, cessioni o liquidazioni potrebbero arrivare intorno a quota 150mila.

Questi numeri, imponenti, puntano dritto all’aspetto più delicato della ristrutturazione del socialismo municipale tentata a più riprese negli ultimi anni. I calcoli sono elaborati sulla base del primo monitoraggio puntuale sul tema, prodotto da Ires-Cgil che sarà presentato oggi pomeriggio all’Associazione nazionale dei Comuni. Quello del personale è lo snodo più delicato, perché proprio qui sono inciampati i tentativi più o meno ambiziosi avviati nel passato recente per ridurre i confini delle partecipazioni statali e soprattutto locali.

Nella foresta, però, qualcosa ha cominciato a muoversi già prima della riforma Madia, a partire dalla manovra del 2014 che ha chiesto agli enti proprietari di scrivere i piani di razionalizzazione e soprattutto di accantonare risorse crescenti per coprire le perdite delle aziende in crisi. Sul fenomeno non esiste un monitoraggio puntuale, ma i dati parziali emersi dalle relazioni delle Corti dei conti regionali hanno permesso ai ricercatori di individuare 611 ristrutturazioni, in larghissima parte (85% dei casi) sotto la forma più drastica della liquidazione e della cessazione. Sono queste le procedure che stanno interessando 26.500 dipendenti, ma è probabile che i numeri complessivi siano più ampi.

Questo, però, almeno nelle intenzioni è solo l’antipasto di una ristrutturazione più profonda, che dovrà essere avviata dai nuovi piani da approvare in ogni ente entro il 30 settembre per rispettare gli obblighi della riforma Madia. Oltre a imporre la cessione, la chiusura o la fusione delle società “doppione”, attive cioè in settori già coperti da altre aziende partecipate dallo stesso ente, il decreto attuativo (Dlgs 175/2016) all’articolo 20 fissa una serie di criteri automatici per condannare le società da abbandonare: si tratta di quelle con più amministratori che dipendenti, delle aziende che nell’ultimo triennio si sono fermate sotto ai 500mila euro di fatturato (dal 2020 la soglia sale a un milione) o che, fuori dai servizi pubblici, abbiano chiuso in rosso quattro degli ultimi cinque bilanci. Bastano queste tagliole, secondo i calcoli di Ires-Cgil, a colpire fra le sole aziende strumentali della Pa 2.817 società con 18.775 persone in organico. Ma anche in questo caso gli obiettivi della riforma nata con lo slogan-obiettivo di passare «da 8mila a mille» partecipate restano più ambiziosi, nonostante i ritocchi intervenuti nel lungo iter di costruzione delle norme. Estendendo a tutte le 7.230 società attive, con 762mila addetti complessivi, gli effetti occupazionali misurati sulle 1.509 passate al setaccio dall’analisi sui vecchi piani di razionalizzazione, si arriverebbe a coinvolgere in totale circa 130mila dipendenti. Senza contare che anche le società pubbliche destinate a sopravvivere sono chiamate a effettuare una ricognizione dei propri organici alla ricerca di esuberi.

Un calcolo di questo tipo serve a indicare le dimensioni potenziali di un fenomeno a cui la riforma offre soluzioni tutte da sperimentare. Per il personale delle società a controllo pubblico si affida alle Regioni il compito di favorire processi di mobilità, un po’ come accaduto alle Province, per poi passare la palla all’Anpal. A differenza degli esuberi provinciali, tutti con lo stesso contratto, qui si tratta di persone con contratti differenti, privati, in un quadro molto più complicato da gestire. Quando poi la società è partecipata ma non controllata dalla Pa, in campo entrano solo gli ammortizzatori sociali del Jobs Act: uno scenario che ovviamente preoccupa parecchio sindacati e amministratori locali, e che pone una delle incognite più pesanti sull’attuazione effettiva della riforma.

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