Contrattazione

Certificazione incerta dell’etero-organizzazione per i contratti di collaborazione

di Francesco Natalini

A un anno dall'entrata in vigore del Dlgs 81/2015, emanato con il dichiarato intento di riordinare e di semplificare le numerose tipologie contrattuali presenti nell'ordinamento, ci si trova a invece fare i conti con complicazioni ed incertezze sia dal punto di vista giuridico che operativo.

Limitandoci alla materia dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa, dal 1° gennaio 2016 la nuova “complicazione” con cui ci si deve confrontare è rappresentata dalla cosiddetta etero-organizzazione.

Questa nuova declinazione del lavoro parasubordinato ha fatto emergere fin da subito alcune incertezze dal punto di vista concettuale, atteso che secondo una parte della dottrina, si ritiene coincida di fatto con l'etero-direzione, mentre secondo un'altra parte presenterebbe ampi margini di sovrapponibilità con la richiamata subordinazione, ma non tali da far coincidere completamente le due fattispecie, al punto da giungere alla conclusione che un contratto etero-diretto (cioè subordinato) sarà necessariamente anche etero-organizzato, ma non è detto che un contratto etero-organizzato sia anche eterodiretto.

Lo si evincerebbe anche dallo stesso tenore letterale dell'articolo 2 del decreto 81 il quale, nel disporre che in presenza di una completa e accertata modalità di organizzazione della prestazione da parte del committente «si applica la disciplina del rapporto lavoro subordinato», si riferisce pur sempre «ai rapporti di collaborazione» (che quindi “in astratto” rimarrebbero inquadrati come tali).

A questo punto, viene in evidenza il comma 3, primo periodo, dell’articolo 2 del decreto 81, il quale dispone che «le parti possono richiedere alle commissioni di cui all'articolo 76 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, la certificazione dell'assenza dei requisiti di cui al comma 1».

La norma, testualmente, si riferisce alla certificazione dell'assenza dei requisiti della etero-organizzazione (comma 1), e non necessariamente (anche) all'assenza dei requisiti della subordinazione; di talché se ne deduce che sembra possibile richiedere una certificazione “modulare” (o parziale), limitata cioè unicamente a verificare che l'organizzazione della prestazione sia in capo al collaboratore, senza estendersi però a valutare (ed eventualmente a certificare) la natura tipologica del contratto (mantenendo quindi intatto il rischio di una possibile riqualificazione del rapporto), anche se, ovviamente, nulla osta che si possa anche chiedere una certificazione “completa”, che attesti cioè sia l'assenza di etero-organizzazione che di etero-direzione.

Peraltro, che si possa procedere a una certificazione “parziale”, sembra ricavarsi anche proprio dal fatto di essere stata contemplata espressamente nel richiamato comma 3, atteso che se ci si riferisse alla consueta certificazione “qualificatoria” non ci sarebbe stato bisogno di esplicitarla nella legge, essendo pacifico il ricorso a tale istituto, invocabile ogniqualvolta «sia dedotta, direttamente o indirettamente, una prestazione di lavoro» (articolo75 del Dlgs 276/2003).

Stante quanto sopra evidenziato, viene quindi da chiedersi se esista o meno e una differenza di “tenuta giuridica” tra la certificazione atta a unitamente a constatare l'assenza dell'etero-organizzazione rispetto a quella che attesti (anche o solo) l'assenza di subordinazione.

Volendo proporre una soluzione interpretativa (a parere di chi scrive nemmeno troppo suggestiva) si può partire dall'articolo 30, comma 2 della legge 183/2010 (collegato lavoro) nel quale si dispone che «nella qualificazione del contratto di lavoro e nell'interpretazione delle relative clausole il giudice non può discostarsi dalle valutazioni delle parti, espresse in sede di certificazione dei contratti di lavoro di cui al titolo VIII del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni, salvo il caso di erronea qualificazione del contratto, di vizi del consenso o di difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione».

Da una lettura “al contrario”, se ne deduce che se non si verte in materia di (ri)qualificazione del contratto «il giudice non può discostarsi» dalla valutazione delle parti esplicitata presso le commissioni di certificazione. Espressione “forte”, quella utilizzata dal legislatore del 2010 (peraltro molto più vincolante del “tiene conto” di cui al successivo comma 3 dell'articolo 30, allora utilizzato per disciplinare l'atteggiamento del giudice in presenza di clausole contrattuali sulla giusta causa o giustificato motivo), che non sembra lasciare molti spazi di manovra all'autorità giudiziaria.

Riassumendo il percorso argomentativo fin qui adottato, la certificazione potrebbe essere sempre disattesa dal giudice se si verte in ipotesi di qualificazione del contratto (autonomo/subordinato), mentre ciò non sarebbe possibile qualora la stessa riguardi unicamente clausole “endogene” al contratto stesso (ad esempio per certificare il corretto livello di inquadramento, la congruità di un patto di concorrenza), dove cioè non si mette quindi in discussione la natura tipologica del rapporto di lavoro.

Orbene, la certificazione a cui fa riferimento il comma 3 dell’articolo 2 del Dlgs 81/2015 sembra proprio inquadrarsi quale certificazione “interna”, visto che tende a verificare unicamente che non vi sia un potere organizzativo in capo al committente, ma non qualifica il contratto. Ma, se così fosse, atteso che, come si è ritenuto, un contratto etero-organizzato (ma non anche etero-diretto) mantiene pur sempre intatta la sua veste giuridica di “rapporto di collaborazione” (pur con le già menzionate conseguenze sulla disciplina sostanziale da applicare) non pare azzardato poter invocare – per un contratto certificato ai sensi della disposizione da ultimo richiamata - l'applicazione della previsione limitativa all'operato del giudice (“non può discostarsi”) contenuta nel comma 2 dell'articolo30 del collegato lavoro.

Per concludere, è indubbio che se la tesi proposta avesse un qualche fondamento, l'istituto della certificazione (che comunque si sta finalmente affermando come merita), ne trarrebbe un sicuro e ulteriore giovamento in termini di “appeal”, perché, almeno in tale ipotesi, ci si avvicinerebbe molto alla tanto auspicata certezza del diritto, permettendo nel contempo di realizzare quello che resta l'obiettivo fondamentale perseguito dal legislatore della Riforma Biagi e che si trova riassunto nel già menzionato articolo 75 del Dlgs 276/2003 vale dire «ridurre il contenzioso in materia di lavoro».

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