Contrattazione

Pa, fasce di reperibilità per le verifiche sullo smart working

di Gianni Trovati

Per controllare il lavoro agile nella pubblica amministrazione andranno individuate «fasce di reperibilità», anche se la valutazione delle performance dovrà spostarsi sui risultati più che sulla presenza fisica. La disciplina dello smart working, che non potrà penalizzare i dipendenti né in termini economici né di carriera, è affidata all’autonomia di ogni ente, all’interno però di un quadro definito dalla direttiva in arrivo dalla Funzione pubblica. Intanto giusto ieri Palazzo Chigi ha firmato la direttiva per i propri dipendenti, che prevede lo smart working per un massimo di cinque giorni al mese, anche spezzabili in mezze giornate, per il 10% dei propri dipendenti, da individuare con bandi semestrali.

Le istruzioni generali che saranno invece domani sui tavoli della Conferenza Unificata (si veda Il Sole 24 Ore di ieri; testo integrale su www.quotidianoentilocali.ilsole24ore.com) individua prima di tutto una serie di «criteri di priorità», che chiedono alle amministrazioni di mettere in prima fila i dipendenti che «si trovano in situazioni di svantaggio personale, sociale e familiare», oltre a quelli «impegnati in attività di volontariato». Nei propri atti organizzativi, che andranno preceduti da un «documento programmatico» da trasmettere ai sindacati, le Pa potranno ovviamente individuare settori esclusi per incompatibilità dallo smart working; ma l’obiettivo, ambizioso, è quello di coinvolgere in tre anni «almeno il 10% dei dipendenti, ove lo richiedano», e sulla capacità di organizzare il lavoro agile si misurerà anche una quota della performance, e dunque della retribuzione di risultato, dei dirigenti.Il suggerimento, in ogni caso, è quello di partire con un «progetto pilota» all’interno di un’unità organizzativa che si presta alla bisogna, per poi estendere la pratica ad altri uffici.

La direttiva individua in modo puntuale obiettivi e passaggi organizzativi, ma non nasconde i nodi problematici. Il primo riguarda quello di computer e dotazioni informatiche necessarie al lavoro a distanza. Le amministrazioni, “suggerisce” Palazzo Vidoni, non dovrebbero prevedere nei propri atti «l’obbligo di fornire la strumentazione necessaria»; e in ogni caso l’avvio dello smart working dovrà avvenire «senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica», come recita la solita formula che torna anche nella norma-madre dello smart working pubblico (l’articolo 14 della legge 124 del 2015). Il telelavoro, però, ha tra i propri obiettivi anche quello di «realizzare economie di gestione attraverso l’impiego flessibile delle risorse umane», per cui gli uffici potrebbero destinare all’informatica i risparmi (se certificati) che si ottengono per questa via. In ogni caso, prima di partire ogni Pa dovrà risolvere problemi non banali di sicurezza informatica.

«La direttiva di palazzo Vidoni applica in modo innovativo il Ddl sul lavoro agile appena licenziato dal Parlamento - sottolinea Maurizio Del Conte, numero uno di Anpal -. Si apre a una visione nuova del lavoro nella Pa, che valorizzi servizi e performance».

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