Contenzioso

Il licenziato non deve restituire l’indennità se l’errore è dello Stato

di Marina Castellaneta

Lo Stato non può chiedere la restituzione delle indennità di licenziamento corrisposte per un periodo più lungo del dovuto, se sono le stesse autorità nazionali a sbagliare le modalità e i tempi di pagamento, senza che il lavoratore contribuisca in alcun modo a trarre in inganno gli enti competenti. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza del 26 aprile (Cakarevic contro Croazia, ricorso n. 48921/13) che ha così posto un freno all’imposizione – da parte degli Stati – di oneri sproporzionati sul beneficiario dell’indennità, bloccando l’applicazione retroattiva delle misure necessarie per rimediare all’errore (come la richiesta di restituzione dell’intera somma).

A rivolgersi ai giudici di Strasburgo è stata una cittadina croata che nel 1995, dopo 25 anni di lavoro, aveva perso l’impiego a causa del fallimento dell’azienda. Ricevendo, in seguito, un’indennità di licenziamento. Nel 2001 l’ufficio per l’impiego aveva però revocato tale indennità, con un effetto retroattivo e, per di più, una richiesta di rimborso pari a 2.600 euro. La donna si era rifiutata di restituire la somma e l’ufficio aveva quindi avviato un’azione per arricchimento senza causa. I giudici nazionali, malgrado lo stato della ricorrente, le avevano dato torto: di qui il ricorso alla Cedu.

In primo luogo, la Corte europea riconosce che il diritto all’indennità di licenziamento rientra nel perimetro di applicazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione europea, che garantisce a ogni individuo il diritto di proprietà. È vero che, in via generale, nella nozione di “proprietà” rientrano i beni già in possesso di un individuo, ma in certe circostanze «una legittima aspettativa a ottenere un bene», di natura più concreta rispetto a una mera speranza, beneficia della protezione dell’articolo 1 del Protocollo.

La Corte lascia spazio allo Stato, che può rimediare ai propri errori, ma garantendo un giusto equilibrio tra interesse generale e diritti del singolo individuo. La ricorrente – osservano i giudici internazionali – non aveva mai cercato di trarre in inganno l’ufficio per l’impiego e non era mai stata informata del limite alla durata temporale della prestazione, direttamente collegata al periodo di lavoro svolto. Poiché continuava a ricevere l’indennità sulla base di una decisione delle autorità amministrative, aveva una legittima aspettativa a ritenere di avere diritto a quella prestazione. Certo, una decisione amministrativa può essere soggetta a revoca, ma per il futuro (ex nunc) e non con un’applicazione retroattiva (ex tunc), salvo nei casi in cui non vi siano forti esigenze legate a un interesse generale.

Per la Corte è da stigmatizzare anche il comportamento delle autorità nazionali nella fase successiva all’individuazione dell’errore, che si era protratto per tre anni. In pratica, spogliandosi di ogni responsabilità, l’ufficio per l’impiego ha riversato sulla sola cittadina le conseguenze di tale errore. Non solo. I giudici nazionali non hanno preso in considerazione il cattivo stato di salute della donna e la circostanza che non aveva più un lavoro. È indubbia, quindi, la violazione del diritto di proprietà, con l’obbligo per le autorità nazionali di versare alla ricorrente 2.600 euro per il danno patrimoniale subìto.

Leggi la motivazione

Sentenza 48921/13 della Corte europea dei diritti dell’uomo

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