Contenzioso

Niente reintegrazione se troppo onerosa per l’azienda

di Angelo Zambelli

Con la pronuncia 10435/2018, la Corte di cassazione offre interessanti spunti per l'interpretazione della nozione di «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo» indicato al comma 7 dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori e interviene sul tema dei criteri ai quali il giudice deve attenersi per stabilire i casi in cui, a fronte della «manifesta insussistenza», debba farsi ricorso alla tutela reintegratoria e quelli in cui debba essere invece riconosciuta la tutela indennitaria.

Nel caso trattato dalla Cassazione, i giudici dei precedenti gradi del giudizio hanno ritenuto pienamente provata sia la situazione di crisi aziendale che la riorganizzazione che l'imprenditore ha attuato per farvi fronte (segnatamente, l'esternalizzazione delle attività alle quali era addetta la dipendente licenziata), nonché - sembrerebbe - l'effettiva soppressione della posizione. Non è stata invece raggiunta la prova circa l'assolvimento da parte dell'imprenditore dell'obbligo di repêchage.

La Corte territoriale, ritenendo che nella nozione di «fatto posto a base del licenziamento» non potesse essere ricompresa l'impossibilità di una differente utilizzazione della lavoratrice, ha applicato la tutela indennitaria perché «non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo» (in senso conforme, tribunale di Roma 26 maggio 2017, numero 5005; tribunale di Torino 5 aprile 2016; tribunale di Varese 4 settembre 2013; contra: Corte d'appello di Roma 1 febbraio 2018, numero 469). La Cassazione, pur pervenendo ad analoghe conclusioni, si discosta però dalle relative motivazioni.

Il ragionamento seguito dal Supremo collegio muove anzitutto dal consolidato orientamento di legittimità a mente del quale «la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo presuppone, da un lato, l'esigenza di soppressione di un posto di lavoro, dall'altro, l'impossibilità di diversa collocazione del lavoratore licenziato». Ebbene, secondo la Corte, se l'imprenditore è gravato dall'onere di provare tanto l'effettiva sussistenza di una ragione inerente l'attività produttiva, l'organizzazione o il funzionamento dell'azienda quanto l'assolvimento dell'obbligo di repêchage, la «manifesta insussistenza del fatto» non potrà che essere intesa con «riferimento a tutti e due i presupposti di legittimità della fattispecie». E ciò nonostante l'articolo 18, comma 7, utilizzi l'espressione «fatto»: tale locuzione deve infatti essere riferita non solo alle ragioni indicate dall'articolo 3 della legge 604/1966, bensì alla «nozione complessiva di giustificato motivo oggettivo», comprensiva, dunque, del repêchage.

Una volta appurata la manifesta insussistenza del fatto, occorre individuare il rimedio applicabile posto che, in tali ipotesi, il giudice ha la facoltà - ma non l'obbligo - di disporre la reintegrazione del lavoratore. La pronuncia 10435/2018 richiama anzitutto il principio per cui il giudice dovrà applicare la tutela reintegratoria in luogo di quella indennitaria ogniqualvolta venga accertata «una evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti giustificativi del licenziamento che consenta di apprezzare la chiara pretestuosità del recesso».

Secondo la Corte di cassazione, tuttavia, e qui risiede la portata innovativa della pronuncia in esame, l'applicazione della tutela reale impone un «ulteriore vaglio giudiziale»: il giudice, infatti, dovrà verificare «se la tutela reintegratoria sia, al momento di adozione del provvedimento giudiziale, sostanzialmente incompatibile con la struttura organizzativa medio tempore assunta dall'impresa», avuto riguardo alla nozione di eccessiva onerosità che, in ossequio ai principi generali, impone l'adozione del risarcimento del danno per equivalente in luogo della reintegrazione in forma specifica (articolo 2058 del codice civile) ovvero la riduzione della penale (articolo 1384 del codice civile).

In altre parole, pur in presenza di un fatto insussistente, che tale risulti anche a colpo d'occhio (vuoi perché contrario a risultanze documentali vuoi perché smentito da circostanze di fatto di immediata percezione), il giudice può optare per l'indennità risarcitoria in luogo del ripristino del rapporto ogniqualvolta quest'ultima tutela appaia eccessivamente onerosa per l'imprenditore.

La sentenza sembra tuttavia prestarsi a talune critiche. In primo luogo, ricomprendere la violazione dell'obbligo di repêchage nella nozione di «fatto posto a base del licenziamento» riduce sensibilmente l'ambito di operatività dell'altra ipotesi in cui «non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo». In secondo luogo, fondare la decisione circa il ricorso alla tutela reintegratoria sullo stato di crisi dell'imprenditore non appare del tutto in linea con il tenore letterale della previsione normativa in esame, che sembrerebbe invece suggerire il diverso (ed esclusivo) criterio della gravità della violazione commessa dal datore di lavoro.

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