Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

La specificità della contestazione disciplinare
Sopravvenuta inidoneità del lavoratore e licenziamento
Licenziamento per rifiuto della trasferta
La procedura di licenziamento collettivo
Svolgimento di mansioni vicarie di livello superiore e inquadramento


La specificità della contestazione disciplinare 

Cass. Sez. Lav. 20 marzo 2018, n. 6889

Pres. Manna; Rel. Garri; P.M. Servello; Ric. Visinoni; Controric. C.W.W. S.r.l.;

Licenziamento disciplinare - Contestazione disciplinare - Specificità - Esposizione degli aspetti essenziali del fatto - Sufficienza

Nell’apprezzare la sussistenza del requisito della specificità della contestazione il giudice deve verificare, al di fuori di schemi rigidi e prestabiliti, se la contestazione offre indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti addebitati, tenuto conto del loro contesto e verificare altresì se la mancata precisazione di alcuni elementi di fatto abbia determinato un’insuperabile incertezza nell’individuazione dei comportamenti imputati, tale da pregiudicare, in concreto, il diritto di difesa.

Nota

La Corte d’Appello di Milano, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava l’inefficacia del licenziamento intimato dalla Società a un proprio dipendente, ritenendo che la lettera di contestazione disciplinare difettasse del requisito della specificità. 

In particolare, la lettera di contestazione disciplinare descriveva la condotta addebitata,ma non riportava l’indicazione dei nominativi delle colleghe di lavoro molestate dal dipendente (solo una collega di lavoro era stata individuata con le iniziali del nome e cognome). Tale omissione, secondo la Corte territoriale, non aveva permesso al lavoratore di comprendere il contenuto degli illeciti ascritti, così pregiudicandone il diritto di difesa.

Tale sentenza veniva impugnata avanti la Corte di Cassazione sia dal lavoratore che dalla Società.

Nello specifico, la Suprema Corte ha ritenuto di esaminare, preliminarmente, il secondo motivo di ricorso incidentale formulato dalla Società, con il quale veniva censurata la sentenza della Corte d’Appello nella parte in cui aveva ritenuto generica la contestazione disciplinare e, quindi, viziato il provvedimento espulsivo adottato in violazione del diritto di difesa del lavoratore.

La Corte di Cassazione ha accolto tale motivo di impugnazione, ritenendo assorbite tutte le altre censure formulate tanto nel ricorso principale del lavoratore quanto in quello incidentale dellaSocietà.

La Suprema Corte ha anzitutto ricordato che lo scopo della contestazione disciplinare è quello di consentire al lavoratore la sua immediata difesa. Nella stessa devono pertanto essere fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella loro materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o, comunque, violazioni dei doveri di cui agli artt. 2104 e 2015 cod. civ. La contestazione disciplinare deve, infatti, contenere l’esposizione dei fatti e degli aspetti essenziali del fatto materiale posto alla base del licenziamento, restando la verifica della sussistenza del requisito anzidetto rimessa al giudice del merito il cui apprezzamento, se correttamente motivato, è incensurabile in sede di legittimità (in questo senso,ex pluribus,Cass. n. 619/2017, Cass. n. 6898/2016, Cass. n. 20319/2015, Cass. n. 10662/2014 eCass. n. 18279/2010).

Rispetto alla fattispecie oggetto di contestazione disciplinarei Giudici di legittimità hanno ritenuto che la Corte territoriale non abbia correttamente applicato i principi appena esposti.

Secondo la Corte di Cassazione, infatti, l’omessa indicazione nella lettera di contestazione disciplinare dei nominativi delle colleghe di lavoro molestate dal dipendente non aveva pregiudicato, in concreto, il diritto di difesa del lavoratore, poiché la condotta ritenuta disciplinarmente rilevante era stata sufficientemente delineata, così come risultava chiaro il contesto entro cui si erano svolti i fatti oggetto di contestazione disciplinare, senza alcun pregiudizio per il diritto di difesa del lavoratore.  

 

Sopravvenuta inidoneità del lavoratore e licenziamento

Cass. Sez. Lav. 19 marzo 2018, n. 6798

Pres. Di Cerbo; Rel. Spena; P.M. Celeste; Ric. M. e M. s.r.l.; Contr. C.S.;

Inidoneità sopravvenuta alle mansioni - Possibilità per il datore di lavoro di assegnare il lavoratore ad altre mansioni - Licenziamento - Illegittimità - Violazione art. 41 Cost. - Insussistenza

In caso di sopravvenuta inidoneità del lavoratore alle mansioni assegnategli, non viola l'art. 41 Cost., il giudice che dichiari illegittimo il licenziamento intimato al dipendente, allorché si accerti la possibilità per il datore di lavoro di adottare soluzioni ragionevoli atte a consentire al lavoratore disabile di svolgere il lavoro.

Nota

Nel caso sottoposto all'esame della Suprema Corte, il Tribunale del lavoro di Cagliari aveva dichiarato la illegittimità del licenziamento intimato ad un lavoratore nel marzo del 2007 per inidoneità fisica sopravvenuta, determinata dall'insorgenza di malattie (tra cui broncopneumopatia) che non gli consentivano la esposizione alle polveri presenti sul luogo di lavoro. La Corte di appello di Cagliari confermava l'illegittimità del recesso, rilevando che i consulenti tecnici avevano accertato la idoneità del dipendente ad eseguire le mansioni affidategli, se l'officina, presso cui lavorava, fosse stata bonificata dalle polveri. Inoltre, l'ulteriore misura, suggerita dai consulenti tecnici, di spolverare le parti meccaniche destinate all'officina, e provenienti dallo stabilimento di produzione, non poteva considerarsi - diversamente da quanto riteneva la società - eccessivamente onerosa per il datore di lavoro. La Corte di merito concludeva affermando che il dipendente avrebbe potuto essere destinato all'officina a tali diverse condizioni.

Avverso la predetta pronuncia la società propone ricorso per cassazione denunciando, in particolare, la violazione degli artt. 1453, 1455 e 1464 c.c., nonché dell'art. 3, l. n. 604/1966, in combinato disposto con l'art. 41 Cost., nella parte in cui la sentenza chiedeva al datore di lavoro di stravolgere la propria struttura organizzativa, ciò comportando una indebita ingerenza del giudice di merito sulla libertà dell'imprenditore di organizzare la propria impresa.

La Cassazione nell'esaminare il ricorso, affronta compiutamente la nozione di «handicap» come sviluppatasi, in ambito internazionale, nel corso degli anni.

La Suprema Corte preliminarmente rileva che, nel caso di specie, il lavoratore è stato giudicato inidoneo a seguito di una situazione di infermità di lunga durata (broncopneumopatia cronica) tale da ostacolare la partecipazione del lavoratore alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori.

Dunque, a parere della Cassazione, sussiste il presupposto soggettivo dell'"handicap" protetto dall'art. 1 della Dir. n. 78/2000/CE, sulla parità di trattamento in materia di occupazione. La nozione di "handicap" non è ricavabile dal diritto interno ma unicamente dal diritto dell'Unione Europea (tanto da parlarsi di nozione europea di disabilità).

Il concetto di "handicap" è stato poi sviluppato nelle pronunzie rese dalla Corte di Giustizia e dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 2006. La Corte di Giustizia è ormai consolidata nell'intendere la nozione di "handicap" come: «una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione dell'interessato alla vita professionale su base di uguaglianza con altri lavoratori» (sent. 11 aprile 2013, HK Danmark, C-335/11 e C-337/11). Inoltre, l'art. 5 della citata direttiva impone al datore di lavoro di adottare «i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato». La Cassazione evidenzia, poi, come lo Stato italiano per lungo tempo abbia omesso di dare attuazione alle disposizioni del citato articolo 5, dandovi esecuzione solo nel 2013, con la l. n. 99/2013. E pur se i fatti che hanno dato origine al giudizio sottoposto al suo esame risalgono al 2007 - dunque a prima dell'adozione della norma di recepimento - ciò che rileva è l'obbligo per il giudice nazionale di offrire una interpretazione del diritto interno conforme agli obiettivi della direttiva anche prima della sua attuazione. Ed invero, la Cassazione, anche prima del recepimento da parte del legislatore nazionale, aveva rilevato che, non viola l'art. 41 Cost. il giudice che dichiari illegittimo il licenziamento intimato per sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore alle mansioni assegnate allorché il datore di lavoro non abbia previamente accertato la possibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse e di pari livello attraverso i necessari adattamenti organizzativi, senza pregiudizio per gli altri lavoratori ed evitando alterazioni dell'organigramma aziendale (Cass. 13 ottobre 2009, n. 21710).

Applicando tutti i princìpi su esposti al caso di specie, a parere della Cassazione, correttamente la Corte di appello ha confermato l'illegittimità del licenziamento intimato al dipendente per sopravvenuta inidoneità fisica in ragione della possibilità per il datore di lavoro di adottare soluzioni ragionevoli atte a consentire al lavoratore, persona disabile secondo la direttiva, di svolgere il lavoro. 

 

Licenziamento per rifiuto della trasferta

Cass. Sez. Lav. 20 marzo 2018, n. 6896

Pres. Manna; Rel. Marotta; Ric. N.D.; Controric. I. S.r.l.;

Lavoro - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento - Licenziamento disciplinare - Giusta causa - Rifiuto di effettuazione di trasferte - Sussistenza

Il rifiuto della trasferta opposto dal dipendente costituisce generale violazione delle disposizioni impartite dall'imprenditore ex artt. 2086 e 2104 cod. civ.,specie allorché l'attività dell'azienda venga espletata su scala internazionale,rientrando il comportamento addebitato nell'alveo delle ipotesi di insubordinazione ai superiori ovvero di gravi infrazioni alla disciplina ed alla diligenza del lavoro. In vero, l'insubordinazione non è ricollegata alla violazione di un obbligo specificamente previsto di effettuazione di trasferte ma al ripetuto ed ingiustificato contravvenire del lavoratore alle direttive organizzative aziendali a fronte di una disponibilità alle trasferte da parte del dipendente, che, in ragione delle caratteristiche dell'attività svolta dalla società, costituiva un elemento essenziale della prestazione lavorativa. 

Nota

Nella sentenza in commento, il Supremo Collegio analizza la fattispecie del licenziamento disciplinare motivato dal rifiuto del lavoratore di recarsi in trasferta.

Nel caso di specie, il datore comunicava il recesso per giusta causa ad un dipendente il quale - dopo aver manifestato la propria disponibilità, nel contratto di assunzione, ad effettuare trasferte periodiche - ne aveva rifiutato, in maniera sistematica e pervicace, lo svolgimento.

Il lavoratore impugnava il recesso ed il Tribunale accoglieva il ricorso, reputando sproporzionata la sanzione, non potendo assumere rilievo «due episodi precedenti dello stesso tipo non formalmente contestati», ma valutati dall'impresa nell'irrogazione della sanzione.

La Corte d'appello riteneva, al contrario, giustificato il licenziamento, argomentando, da un lato, che le condizioni fisiche del lavoratore, addotte a sostegno del rifiuto di recarsi in trasferta, non fossero risultate tali da impedirgli l'allontanamento dal nucleo familiare per la durata della trasferta; dall'altro, che, sia pure in modo generico, la recidiva fosse stata contestata dalla società al dipendente così da provocarne il contradditorio in sede disciplinare e, comunque, che il pregresso comportamento rilevasse ai fini della valutazione complessiva della gravità dell'inadempienza.

Il dipendente propone ricorso per Cassazione, che la Suprema Corte rigetta, affermando, anzitutto, che il rifiuto della trasferta opposto dal dipendente costituisce generale violazione delle disposizioni impartite dall'imprenditore ex artt. 2086 e 2104 cod. civ., tenuto anche conto che l'attività dell'azienda veniva espletata su scala internazionale e che il comportamento addebitato rientrava nell'alveo delle ipotesi di insubordinazione ai superiori ovvero di gravi infrazioni alla disciplina ed alla diligenza del lavoro di cui al contratto collettivo nazionale di lavoro applicato. In particolare - soggiunge il Collegio - l'insubordinazione non è ricollegata alla violazione di un obbligo specificamente previsto ma al ripetuto ed ingiustificato contravvenire del lavoratore alle direttive organizzative aziendali a fronte di una disponibilità alle trasferte che, in ragione delle caratteristiche dell'attività svolta dalla società, costituiva un elemento essenziale della prestazione lavorativa. E tale disponibilità manifestata dal dipendente già all'atto dell'assunzione, in uno con l'esigenza di espletamento dell’attività su scala internazionale e con cantieri esterni, legittimava la richiesta datoriale.

Tanto premesso, la Cassazione ritiene che la valutazione della condotta del dipendente sia stata correttamente compiuta dalla Corte del merito, tenendo conto dell'incidenza della stessa sul vincolo fiduciario, delle esigenze poste dall'organizzazione produttiva e delle finalità delle regole di disciplina postulate da detta organizzazione. Del resto - conclude il Supremo Collegio - ai fini della proprozionalità tra il fatto contestato e la sanzione inflitta rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante in tal senso la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento, denotando la scarsa inclinazione del lavoratore all'attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, bona fede e correttezza.  

 

La procedura di licenziamento collettivo

Cass. Sez. Lav. 21 marzo 2018, n. 6993

Pres. Di Cerbo; Rel. Boghetich; P.M. Celeste; Ric. N.S.; Controric. S. R. S.p.A.;

Licenziamento collettivo - Comunicazione iniziale della procedura - Contenuto - Completezza - Requisiti - Fattispecie

In tema di licenziamenti collettivi, la completezza della comunicazione preventiva di cui all' art. 4, comma 3, della l. n. 223 del 1991, deve essere valutata in relazione ai motivi della riduzione del personale, che restano sottratti al controllo giurisdizionale, sicché, in relazione ad essi, l’imprenditore può limitarsi all’indicazione del numero complessivo dei lavoratori eccedenti, suddiviso tra i diversi profili professionali previsti dalla classificazione del personale occupato nell’azienda, senza che occorra l’indicazione degli uffici o reparti in eccedenza. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la legittimità di un licenziamento collettivo dalla cui comunicazione di apertura risultava la sola indicazione del numero di lavoratori in esubero per rispetto al numero degli occupati, senza la specificazione delle posizioni lavorative interessate).

Nota

La Corte d’Appello di Roma, in riforma della pronuncia di primo grado, respingeva la domanda proposta da una lavoratrice per la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatole all’esito di una procedura di mobilità, ritenendo, in particolare, sufficientemente chiara e esaustiva, secondo i dettami dell’art. 4, c. 3, L. n. 223/1991, la comunicazione iniziale alle organizzazioni sindacali, consentendo la stessa di individuare specificamente il personale effettivamente coinvolto (id est: figura professionale di “ausiliario”), pure in assenza di una puntuale indicazione dei reparti di appartenenza e dei livelli di inquadramento del personale in esubero. 

Avverso la predetta sentenza, la lavoratrice proponeva ricorso per Cassazione con plurimi motivi. In particolare, denunciava violazione e falsa applicazione dell’art. 4, c. 3, L. n. 223/1991, atteso che la griglia dei dipendenti allegata alla comunicazione recava solamente un elenco di profili con relativa collocazione aziendale, qualifica professionale e livello, accorpando nell’unico profilo professionale dell’ausiliario diverse qualifiche non appartenenti al medesimo livello contrattuale e alla stessa contrattazione collettiva e provenienti da diverso reparto.

Resisteva con controricorso la società.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, sulla scorta dei seguenti principi: a) la comunicazione preventiva con cui il datore di lavoro avvia la procedura di licenziamento collettivo, che deve avere i contenuti prescritti dall’art. 4, c. 3, L. n. 223/1991 ma non predeterminare i criteri di scelta, ha essenzialmente la finalità di consentire all’interlocutore sindacale di esercitare in maniera trasparente e consapevole un effettivo controllo sulla programmata riduzione di personale (Cass. 02/03/2009, n. 5034); b) la comunicazione iniziale è in contrasto con l’obbligo normativo di trasparenza quando i dati comunicati dal datore di lavoro siano incompleti o inesatti o la funzione sindacale di controllo e valutazione sia stata limitata e sussista un rapporto causale tra l’indicata carenza e la limitazione della funzione sindacale (Cass. 14/4/2015, n. 7490); c) la sufficienza dei contenuti della comunicazione preventiva, ex art. 4, c. 3, l. n. 223/1991, deve essere valutata in relazione ai motivi della riduzione di personale, che restano sottratti al controllo giurisdizionale (Cass. 05/05/2016, n. 9061), per cui, in relazione ad essi, l’imprenditore può limitarsi all’indicazione del numero complessivo dei lavoratori eccedenti, suddiviso tra i diversi profili professionali previsti dalla classificazione del personale occupato nell’azienda, senza che occorra l’indicazione degli uffici o reparti in eccedenza (Cass. 18/11/2016, n. 23526); d) la L. 223/1991, introducendo un controllo dell’iniziativa imprenditoriale concernente il ridimensionamento dell’impresa, devoluto ex ante alle organizzazioni sindacali, ha escluso qualsivoglia controllo giudiziale sui motivi della riduzione del personale, con la conseguenza che non possono trovare ingresso in sede giudiziaria tutte quelle censure con le quali, senza contestare specifiche violazioni di legge e senza fornire la prova di maliziose elusioni dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali, si finisce per investire l’autorità giudiziaria di un’indagine sulla presenza di “effettive” esigenze di riduzione o trasformazione dell’attività produttiva (Cass. 07/02/2017, n. 3176); e) la regola del concorso dei criteri di scelta, operante,secondo quanto previsto dall’art. 5, l. n. 223/1991, ove gli stessi non siano predeterminati da accordi collettivi, se impone al datore di lavoro una valutazione globale dei medesimi, non esclude tuttavia che il risultato comparativo possa essere quello di accordare prevalenza ad uno di detti criteri e, in particolare, alle esigenze tecnico - produttive, essendo quest’ultimo il criterio più coerente con le finalità perseguite attraverso la riduzione del personale, sempre che naturalmente una scelta siffatta trovi giustificazione in fattori obiettivi, la cui esistenza sia provata in concreto dal datore di lavoro e non sottenda intenti elusivi o ragioni discriminatorie (Cass. 28/10/2009, n. 22824); f) l’annullamento del licenziamento per violazione dei criteri di scelta ai sensi dell’art. 5, L. n. 223/1991, non può essere domandato indistintamente da ciascuno dei lavoratori licenziati ma soltanto da coloro che, tra essi, abbiano in concreto subito un pregiudizio per effetto della violazione, perché avente rilievo determinante rispetto al licenziamento (Cass. 01/12/2016, n. 24558).

Ebbene, la Suprema Corte ha ritenuto che la Corte di merito ha fatto corretta applicazione dei suesposti principi, avendo la stessa in primis verificato che la comunicazione di avvio della procedura indicava: le ragioni della crisi (aumento dei costi e riduzione del fatturato), il servizio che doveva essere riorganizzato (gli ausiliari addetti alle pulizie), con allegato elenco di detto personale distinto per livello di inquadramento e reparto, e la quantificazione dei posti in esubero. In particolare - ha sottolineato la Suprema Corte - trattandosi di struttura autorizzata all’esercizio di attività sanitarie ed avendo, la società, specificamente circoscritto il servizio su cui incideva l’esubero, era agevolmente comprensibile il rinvio alle fonti normative alle quali riferirsi per individuare la dotazione organica necessaria per lo svolgimento dell’attività e i titoli richiesti al personale per esercitare l’attività sanitaria. In definitiva, la valutazione complessiva espressa dalla Corte di merito circa l’adeguatezza della comunicazione di avvio rispetto ai contenuti prescritti dalla legge è stata ritenuta dalla Suprema Corte coerente con i residui spazi di controllo devoluti al giudice che, come si è detto, non riguardano più gli specifici motivi della riduzione del personale, ma esclusivamente la correttezza procedurale dell’operazione. 

La Corte di legittimità ha, infine, respinto tutte le plurime censure con cui parte ricorrente lamentava errori od omissioni nell’attribuzione dei punteggi per la formazione della graduatoria nella griglia comparativa, atteso che non sussiste un indifferenziato interesse del singolo alla legalità dell’azione del datore di lavoro nell’espletamento della procedura di licenziamento collettivo, ma il licenziato deve innanzi tutto specificamente dedurre che l’errore o l’omissione denunciata, quale violazione nell’applicazione del criterio di scelta, abbia influito in modo determinante nella sua selezione, nel senso che senza quell’errore o quell’omissione la scelta non avrebbe dovuto coinvolgerlo. Il che non risulta neppure prospettato nel corso del giudizio di merito.

 

Svolgimento di mansioni vicarie di livello superiore e inquadramento

Cass. Sez. Lav. 19 marzo 2018, n. 6793

Pres. Napoletano; Rel. Manna; Ric. B.A.S.S.I.I.; Contoric. L.P.;

Lavoro subordinato-Superiore inquadramento - Svolgimento di mansioni vicarie di livello superiore - Ragioni della sostituzione - Sostituzione dovuta a scelta organizzativa del datore - Rilevanza ai fini del riconoscimento dell’inquadramento superiore - Sussistenza

Per lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, la cui sostituzione da parte di altro lavoratore avente una qualifica inferiore non attribuisce a quest'ultimo il diritto alla promozione ai sensi dell'art. 2103 c.c., deve intendersi soltanto quello che non sia presente in azienda a causa di una delle ipotesi di sospensione legale (sciopero, adempimento di funzioni pubbliche elettive, infortunio, malattia, gravidanza, puerperio, chiamata alle armi) o convenzionale del rapporto di lavoro, e non anche quello destinato, per scelta organizzativa del datore di lavoro, a lavorare fuori dell'azienda o in altra unità o altro reparto.

Nota

Nel caso in esame il giudice di prime cure accertava il diritto della lavoratrice al superiore inquadramento corrispondente al terzo livello del CCNL commercio ma rigettava la sua domanda di risarcimento dei danni derivanti dalla patologia depressiva da lei sofferta a causa del demansionamento patito e di un illegittimo trasferimento di cui era stata oggetto.

In grado di appello la Corte adita riformava parzialmente la sentenza di primo grado inquadrando la lavoratrice al secondo livello del CCNL commercio e condannando la società datrice al pagamento delle relative differenze retributive oltre che al risarcimento del danno per l’aggravamento della patologia denunciata.

Contro la sentenza della Corte d’Appello ha proposto ricorso in Cassazione la società datrice di lavoro sostenendo, in sintesi, che la Corte avesse attribuito alla lavoratrice il diritto al superiore inquadramento pure ammettendo che la stessa non aveva svolto mansioni superiori né in via esclusiva né in misura prevalente rispetto a quelle complessivamente assegnate alla stessa. A ciò la società aggiungeva un’ulteriore doglianza consistente nel fatto che le mansioni superiori erano state svolte dalla lavoratrice in forma vicaria, ossia in sostituzione del direttore del punto vendita quando lo stesso era assente, e - peraltro - collegialmente con due suoi colleghi.

La Suprema Corte ha dichiarato infondate le doglianze di cui sopra e respinto l’intero ricorso. 

Nella sua decisione la Corte di Cassazione, infatti, ha dapprima affermato che la sentenza impugnata, lungi dall’accertare lo svolgimento di mansioni promiscue di cui soltanto alcune riconducibili al secondo livello del CCNL applicato, ha invece accertato che la lavoratrice aveva svolto per circa due anni mansioni riconducibili nel complesso al superiore livello contrattuale. 

Successivamente, con riferimento alle mansioni vicarie, la Suprema Corte ha confermato la correttezza del modus operandi della Corte d’Appello la quale, pur non ritenendo tali mansioni equiparabili quantitativamente a quelle svolte dal direttore, le ha valorizzate ai fini dell’individuazione della complessiva qualità della prestazione, utilizzando come parametro anche il fatto che ai colleghi che condividevano con la lavoratrice tali mansioni fosse assegnato proprio il secondo livello del CCNL. Concludendo sul punto la Corte di Cassazione ha affermato che non ostava al riconoscimento del superiore inquadramento il fatto che si trattasse di mansioni vicarie in quanto «per lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, la cui sostituzione da parte di altro lavoratore avente una qualifica inferiore non attribuisce a quest'ultimo il diritto alla promozione ai sensi dell'art. 2103 c.c., deve intendersi soltanto quello che non sia presente in azienda a causa di una delle ipotesi di sospensione legale (sciopero, adempimento di funzioni pubbliche elettive, infortunio, malattia, gravidanza, puerperio, chiamata alle armi) o convenzionale del rapporto di lavoro, e non anche quello destinato, per scelta organizzativa del datore di lavoro, a lavorare fuori dell'azienda o in altra unità o altro reparto».Poiché nel caso di specie le mansioni sostitutive del direttore espletate dalla lavoratrice derivavano da una scelta organizzativa della società datrice (assegnazione di incarichi fuori sede), la Suprema Corte ha ritenuto legittimo il riconoscimento del superiore livello d’inquadramento operato dalla Corte d’Appello.

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