Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Il valore probatorio dei messaggi di posta elettronica
Licenziamento, tutela reale e onere della prova
Infortunio sul lavoro e diritto di regresso dell'Inail
Licenziamento collettivo, procedura
Trasferimento d'azienda e cessione del contratto di lavoro

Il valore probatorio dei messaggi di posta elettronica

Cass. Sez. Lav. 8 marzo 2018, n. 5523

Pres. Bronzini; Rel. Marchese; P.M. Ceroni; Ric.T.I.S.p.A.; Controric.D.S.;

Licenziamento per giusta causa - Manca prova degli addebiti oggetto della contestazione disciplinare - Valore probatorio dei messaggi di posta elettronica privi di firma digitale - Libero apprezzamento del giudice ai fini dell’idoneità a soddisfare il requisito della forma scritta -Illegittimità del licenziamento

Il messaggio di posta elettronica è riconducibile alla categoria dei documenti informatici a norma dell'art.1, comma 1, lett. p), D.Lgs. 82/2005. L'art. 21 D.Lgs. 82/2005 attribuisce l'efficacia probatoria della scrittura privata di cui all'art. 2702 cod. civ. solo ai documenti informatici sottoscritti con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale,mentre, ai sensi dell’art. 20 D.Lgs. 82/2005, è liberalmente apprezzabile dal giudice l'idoneità di ogni diverso documento informatico (compresal’e-mailtradizionale) a soddisfare il requisito della forma scritta, in relazione alle sue caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza, integrità ed immodificabilità.

Nota

Un dirigente veniva licenziato per giusta causa per irregolare applicazione della c.d. procedura «rivalutazioni di magazzino» che aveva portato all’accredito di somme non dovute in favore di alcuni partner commerciali del datore di lavoro, in quanto relative a giacenze di prodotti, in realtà inesistenti.

Il Tribunale di Roma rigettava l’impugnazione del licenziamento ed accoglieva la domanda riconvenzionale promossa dall’azienda.

La Corte d’Appello capitolina, in parziale accoglimento dell’impugnazione del dirigente, dichiarava l’illegittimità del licenziamento con conseguente condanna del datore di lavoro al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso nonché dell’indennità supplementare. A sostegno di tale decisione, veniva rilevato che l’impresa aveva offerto la prova degli addebiti oggetto della contestazione disciplinare solamente tramite messaggi di posta elettronica di «dubbia valenza probatoria» nonché su dichiarazioni testimoniali provenienti da soggetti direttamente coinvolti nei fatti posti a fondamento del recesso e quindi inattendibili perché interessati ad un certo esito della controversia. La Corte distrettuale concludeva quindi per l’illegittimità del recesso in difetto di riscontri certi che dimostrassero il diretto coinvolgimento del dirigente nell’irregolare applicazione della c.d. procedura «rivalutazioni di magazzino».

Avverso tale decisione il datore di lavoro ricorreva in Cassazione; il dirigente resisteva con controricorso.

Per quel che rileva ai fini della presente nota, l’impresa lamentava violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. nonché degli artt. 2702 e 2712 c.c. nella parte in cui la Corte capitolina aveva escluso la valenza probatoria dei messaggi di posta elettronica sul presupposto dell’astratta possibilità di alterazione, non trattandosi di corrispondenza elettronica certificata o sottoscritta con firma digitale che garantisce l’identificabilità dell’autore nonché l’integrità e immodificabilità del relativo contenuto. In particolare, l’impresa lamentava che il dirigente non aveva mai messo in dubbio l’autenticità dei contenuti delle e-mail. 

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso principale, ritenendo inammissibili e comunque infondato tale motivo.

Sotto il profilo della pretesa violazione dell’art. 112 c.p.c., è stato affermato che il vizio di ultra o extra petizione non è configurabile in relazione al giudizio di valutazione del materiale probatorio, da parte del giudice di merito. Anche la  violazione degli artt. 2702 e 2712 c.c. è stata considerata inammissibile, in quanto la parte che denunci, con il ricorso per cassazione, ilpregresso e implicito riconoscimento o disconoscimento di documenti - e didetta circostanza lamenti la mancata od inadeguata valutazione ad operadel giudice di merito - ha l'onere di riprodurre nel ricorso stesso il tenoreesatto dell'atto e di indicare da quali altri elementi sia possibile trarre laconclusione che tali documenti non siano stati disconosciuti. Onere che, nel caso di specie, il datore di lavoro non ha assolto, essendosi limitato a riportare alcuni passaggi del ricorso introduttivo, senza nemmeno riportare il contenuto delle e-mail in discussione.

La Suprema Corte ha comunque affermato l’infondatezza di tale motivo del ricorso, poiché, da un lato, i messaggi di posta elettronica vanno ricondotti alla categoria dei documenti informatici (che, a norma dell'art. 1, comma 1, lett. p, D.Lgs. 82/2005, è «il documento elettronico che contiene la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti», definizione sostanzialmente identica a quella già fornita dall’art. 1, co. 1, lett. b, DPR 445/2000) e, dall’altro, l'art. 21 D.Lgs. 82/2005 attribuisce l'efficacia probatoria della scrittura privata di cui all'art. 2702 cod. civ. solo ai documenti informatici sottoscritti con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale. Infatti, ai sensi dell’art. 20 D.Lgs. 82/2005, è liberalmente apprezzabile dal giudice l'idoneità di ogni diverso documento informatico (compresa l’e-mail tradizionale) a soddisfare il requisito della forma scritta, in relazione alle sue caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza, integrità ed immodificabilità. 

 

Licenziamento, tutela reale e onere della prova

Cass. Sez. Lav. 6 marzo 2018, n. 5290

Pres. Balestrieri; Rel. Boghetich; P.M. Matera; Ric. A.K.; Controric. S.E.I.;

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Tutela reale - Requisito occupazionale - Onere probatorio - Prova del datore di lavoro- Configurabilità - Sussistenza 

In tema di riparto dell'onere probatorio in ordine ai presupposti di applicazione della tutela reale al licenziamento di cui sia stata accertata l'invalidità, grava sul datore di lavoro l'onere di eccepire e provare l'inesistenza del requisito occupazionale e perciò l'impedimento all'applicazione dell'art. 18, legge n. 300/1970.

Nota

La Corte di appello di Campobasso confermava l'illegittimità del licenziamento intimato dalla società e in parziale riforma della sentenza del Tribunale, condannava l’azienda al pagamento della somma risarcitoria ai sensi della L. 604/1966, art. 8.

La Corte territoriale aveva, infatti, accertato che la società aveva dimostrato di avere un organico pari a tre lavoratori.

Avverso la sentenza della Corte ha proposto ricorso in Cassazione la lavoratrice ma la Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

Secondo la Cassazione in tema di riparto dell'onere probatorio in ordine ai presupposti di applicazione della tutela reale o obbligatoria al licenziamento di cui sia accertata l'invalidità, fatti costitutivi del diritto soggettivo del lavoratore a riprendere l'attività e, sul piano processuale, dell'azione di impugnazione del licenziamento sono esclusivamente l'esistenza del rapporto di lavoro subordinato e l'illegittimità dell'atto espulsivo, mentre le dimensioni dell'impresa, inferiori ai limiti stabiliti dall'art. 18 della legge n. 300 del 1970, costituiscono, insieme al giustificato motivo del licenziamento, fatti impeditivi del suddetto diritto soggettivo del lavoratore e devono, perciò, essere provati dal datore di lavoro. 

L'individuazione di siffatto onere probatorio a carico del datore di lavoro persegue, inoltre, la finalità di non rendere troppo difficile l'esercizio del diritto del lavoratore, il quale, a differenza del datore di lavoro, è privo della "disponibilità" dei fatti idonei a provare il numero dei lavoratori occupati nell'impresa.

Nella fattispecie in esame, a fronte di una richiesta di reintegrazione nel posto di lavoro, era onere del datore di lavoro provare il requisito dimensionale dell'impresa, elemento accertato dalla Corte territoriale mediante testimoni e produzione di libro matricola. L'esigua consistenza dell'organico aziendale (pari a tre dipendenti) ha correttamente condotto la Corte distrettuale ad applicare, al licenziamento illegittimo, il sistema sanzionatorio previsto dall’articolo 8 della Legge 604/1966.

 

Infortunio sul lavoro e diritto di regresso dell’Inail

Cass. Sez. Lav. 7 marzo 2018, n. 5385

Pres. D’Antonio; Rel. Calafiore; P.M. Fuzio; Ric. D. s.p.a.; Controric. INAIL;

Infortunio sul lavoro - Disciplina anteriore al D. Lgs. 38/2000 - Diritto di rivalsa dell’INAIL - Limiti - Danno patrimoniale - Concorso di colpa del lavoratore - Rilevanza

Nel sistema regolato dal Testo Unico 1124 del 1965 l’oggetto dell’azione di rivalsa ex art. 11 va identificato nel cd. danno patrimoniale in senso stretto, restando esclusa la possibilità di tener conto del cosiddetto danno biologico o di quello estetico, stante la configurabilità dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro come assicurazione finalizzata al risarcimento della perdita o della riduzione della capacità lavorativa degli assicurati e non al risarcimento del danno secondo la nozione più ampia (e perciò comprensiva del danno biologico ed estetico) di cui agli artt. 2043 e segg. cod. civ..

Nota

La Corte d’Appello di Salerno ha confermato la sentenza del Tribunale della stessa sede di accoglimentodella domanda di regresso dell’INAIL proposta dopo la declaratoria di prescrizione dei reati in sede penale, condannando la società datrice di lavoro alla restituzione dell’importo versato dall’Istituto al dipendente in conseguenza di infortunio occorso sul lavoro.

In particolare, la Corte territoriale ha ritenuto provata la responsabilità della datrice di lavoro per le lesioni occorse al lavoratore che, durante un’operazione di lavaggio degli impianti, aveva versato nel contenitore un notevole quantitativo di soda caustica in polvere mentre l’acqua del serbatoio si trovava ad una temperatura di oltre trenta gradi superiore a quella corretta di sessanta gradi. Inoltre, ad avviso della Corte territoriale, l’importo richiesto dall’INAIL corrispondeva al danno patrimoniale oggetto del ristoro erogato all’infortunato e, quindi, legittimamente poteva formare oggetto di regresso.

Avverso tale decisione la società ha proposto ricorso per Cassazione affidato a tre motivi, cui ha resistito l’INAIL con controricorso.

Con il primo motivo la società censura la sentenza laddove non avrebbe tenuto conto del fatto che, trattandosi di un infortunio verificatosi nel dicembre 1996, si applica alla fattispecie la disciplina anteriore all’entrata in vigore del D. Lgs. 38/2000 introduttiva del ristoro del danno biologico, con tutte le conseguenze in tema di ampiezza del diritto di rivalsa.

La Suprema Corte accoglie in parte il motivo, affermando il principio di cui alla massima e richiamando specifici precedenti (Cass. 27 luglio 2001, n.10289; Cass. 23 gennaio 2006, n. 1230) in cui aveva già precisato che, solo se la capacità lavorativa specifica si traduce in una riduzione della capacità di guadagno, questa diminuzione della produzione di reddito integra un danno patrimoniale e come tale va liquidato a norma dell’art. 2043 cc. L’invalidità permanente (sia totale che parziale), mentre di per sé concorre a costituire il danno biologico, non comporta, infatti, necessariamente, anche un danno patrimoniale. A questo fine il giudice, oltre ad accertare in quale misura la menomazione fisica abbia inciso sulla capacità di svolgimento dell’attività lavorativa specifica e questa, a sua volta, sulla capacità di guadagno, deve anche accertare se ed in quale misura in tale soggetto persista o residui, dopo l’infortunio subito, una capacità ad attendere ad altri lavori, confacente alle sue attitudini e condizioni personali ed ambientali, ed idonei alla produzione di altre fonti di reddito, in luogo di quelle perse o ridotte (Cass. 30 dicembre 1993, n. 13013). Solo se dall’esame di questi elementi risulterà una riduzione della capacità di guadagno e del reddito effettivamente percepito, questo sarà risarcibilesotto il profilo del lucro cessante.Corollario di tali principi è che, nel giudizio di rivalsa, l’INAIL può ottenere dal datore di lavoro esclusivamente quanto erogato all’infortunato a titolo di danno patrimoniale, pertanto il giudice deve attentamente valutare le singole poste oggetto di calcolo delle prestazioni assicurative.

A parere della Cassazione la Corte d’Appello non ha fornito alcun concreto supporto all’affermazione secondo cui tutti gli importi richiesti dovevano intendersi relativi a danno patrimoniale,nonostante la specifica contestazione delle parti, pertanto il motivo viene parzialmente accolto la sentenza cassata con rinvio ad altro giudice, che dovrà verificare le singole componenti del danno e considerare che solo il danno patrimoniale in senso stretto è aggredibile in sede di regresso.

Con il secondo motivo si assume che la Corte territoriale, non ammettendo la prova testimoniale ritualmente richiesta, non avrebbe considerato che, nel determinare il danno patrimoniale, si sarebbe dovuto tener conto del concorso di colpa del danneggiato ex art. 1227 cod. civ.

Anche tale motivo viene accolto dalla Suprema Corte che, richiamando precedenti invero piuttosto risalenti (Cass. 18 luglio 1987, n. 6341) afferma che, in tema di infortuni sul lavoro, ove il datore di lavoro non abbia rispettato specifiche norme di sicurezza, la sua responsabilità non può essere riconosciuta se sia emersa una coeva o successiva condotta colpevole dell’infortunato o di altri, né esclusa soltanto per tale fatto, dovendosene accertare la reale autonomia causale rispetto alla causa posta in essere dal datore di lavoro ovvero la concorrenza. In tale direzione viene evidenziato che l’art. 2087 c.c. richiede una collaborazione tra le due parti del contratto di lavoro, per cui il lavoratore è obbligato a rispettare sia la normativa antinfortunistica sia le regole di prudenza e il datore di lavoro può, nel fornire la prova liberatoria ex art. 1218 cit., dimostrare la concorrente colpa del prestatore al fine di diminuire il risarcimento del danno ai sensi dell’art. 1227 c.c., comma 1, (Cass. 30 maggio 2001, n. 5367, Cass. 8 aprile 2002, n. 5024). Anche su tale aspetto la sentenza viene, quindi, cassata con rinvio ad altro giudice per la verifica della sussistenza di eventuali ragioni di concorso dell’infortunato nella determinazione dell’infortunio subito dal dipendente.

 

Licenziamento collettivo, procedura

Cass. Sez. Lav. 8 marzo 2018, n. 5556

Pres. Di Cerbo; Rel. Boghetich; P.M. Celeste; Ric. S.R.S.P.A.; Controric. A.I.;

Licenziamento collettivo - Comunicazione ex art. 4, co. 3, L. n. 223/1991 - Completezza dei dati - Idoneità a consentire il pieno esercizio della funzione sindacale di valutazione e controllo - Legittimità 

La comunicazione preventiva con cui il datore di lavoro avvia la procedura di licenziamento collettivo deve compiutamente adempiere l'obbligo di fornire le informazioni specificate dalla L. n. 223 del 1991, art.  4, comma 3, in maniera tale da consentire all'interlocutore sindacale di esercitare in maniera trasparente e consapevole un effettivo controllo sulla programmata riduzione di personale. Ne consegue che non ogni incompletezza o inesattezza dei dati comunicati dal datore di lavoro determina automaticamente l’insufficienza della predetta comunicazione, essendo necessario che la funzione sindacale di valutazione e controllo non sia stata limitata, e che sussista un nesso causale tra l’indicata carenza e la limitazione della funzione sindacale.

Nota

La Corte di Appello di Roma confermava la sentenza del Tribunale di Cassino che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimato dalla società datrice alla dipendente nell’ambito di una procedura di mobilità, con conseguente condanna alla reintegra della lavoratrice nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno. 

La Corte territoriale riteneva che la comunicazione di avvio della procedura di mobilità, ex art. 4 comma 3 della legge 223 del 1991, non specificasse in modo chiaro il nesso tra i motivi di crisi che avevano determinato l’avvio della procedura e l’individuazione dei lavoratori ausiliari socio sanitari in esubero presso la struttura di Cassino, non essendo precisato in che misura il personale ausiliario fosse necessario ad ottemperare agli “obblighi di legge”. 

Avverso tale pronuncia proponeva ricorso la società, fondato su due motivi. 

In particolare, la ricorrente denunciava violazione e falsa applicazione degli artt. 4 commi 3, 9 e 5 della legge 223 del 1991, nonché della legge regionale n. 4 del 2003, rilevando che la Corte territoriale aveva erroneamente omesso di considerare che la legge regionale n. 4 del 2003 - da ritenersi richiamata nella comunicazione di avvio della procedura, ove si rinviava agli “obblighi di legge” -,  prescrivendo l’obbligo per le case di cura autorizzate allo svolgimento dell’attività di riabilitazione, di dotarsi di personale in possesso della qualifica di O.S.S.(Operatori Socio Sanitari), aveva escluso il mero personale ausiliario dall’ambito delle dotazioni organiche delle predette strutture. Osservava la società che,pertanto, doveva ritenersi coerente l’attribuzione, in sede di graduatoria del personale in esubero, di un maggior punteggio agli ausiliari dotati del titolo di O.S.S.(Operatori Socio Sanitari). 

La Suprema Corte accoglieva il secondo motivo di ricorso e cassava la sentenza impugnata, rinviando alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, affinchè valutasse gli ulteriori profili di illegittimità della procedura di licenziamento, così come prospettati dalla lavoratrice nel ricorso introduttivo del giudizio. 

La Suprema Corte ha rilevato che, diversamente da quanto ritenuto dai giudici di merito, dal contesto complessivo della comunicazione di avvio della procedura - che faceva espresso riferimento, quanto all’individuazione del personale ausiliario da mantenere in servizio, a quello “necessario ad ottemperare agli obblighi di legge” - era agevolmente comprensibile a quali fonti normative dovesse farsi riferimento per individuare la dotazione organica necessaria per lo svolgimento dell’attività sanitaria e, conseguentemente, quali titoli fossero richiesti al personale da detta normativa per l’esercizio di tale attività (nella specie, come si è detto, il titolo di O.S.S. - Operatore Socio Sanitario). 

Invero, la Suprema Corte, ribadendo il proprio costante orientamento in materia, ha altresì chiarito che la comunicazione  prevista dall'art. 4 della legge n. 223 del 1991 è in contrastocon l'obbligo normativo di  trasparenza quando: a) i dati comunicati dal datore dilavoro siano incompleti o  inesatti; b) la funzione sindacale di controllo e valutazionesia stata limitata; c) sussista un  rapporto causale fra l’indicata carenza e la limitazionedella funzione sindacale (cfr. Cass. 14 aprile 2015, n. 7490; Cass. 16 gennaio 2013, n. 880; Cass. 16 marzo 2007, n. 6225).

Con specifico riferimento al caso in oggetto, secondo quanto ritenuto dai giudici di legittimità, la comunicazione de qua avevapienamente consentito all'interlocutore sindacale diesercitare, in maniera  trasparente e consapevole, un effettivo controllo sulla programmata riduzione di personale; dovendosi ribadire che non  ogni incompletezza o inesattezza dei  dati - così come la stessa divergenza nel numero degli esuberi tracomunicazione preventiva e comunicazione finale -, automaticamente determina l'insufficienza della  comunicazione, essendo necessario che la funzione sindacale dicontrollo e valutazione sia stata limitata, e che sussista un  rapporto causale fra l'indicata carenza e la limitazione della funzione  sindacale (circostanze queste nonemerse nel caso di specie). 

La Suprema Corte riteneva, pertanto, che la Corte territoriale, non avendo preso in considerazione la legge regionale vigente in ambito di dotazioni organiche delle cliniche autorizzate per le cure di riabilitazione (cui la comunicazione di avvio della procedura faceva espresso rinvio, mediante il richiamo agli obblighi di legge), era incorsa in errore nella valutazione della completezza dei dati comunicati dal datore di lavoro alle OO.SS.. La Suprema Corte ha, inoltre, chiarito che l’imprenditore può limitarsi, come era accaduto nel caso che ci occupa, all’indicazione del numero complessivo dei lavoratori eccedenti, avuto riguardo al profilo professionale di “ausiliario” coinvolto dall’esigenza di riduzione del personale, senza che occorra l’indicazione specifica degli uffici o reparti nei quali i medesimi operavano. 

 

Trasferimento d’azienda e cessione del contratto di lavoro

Cass. Sez. Lav. 19 gennaio 2018, n. 1382

Pres. Bronzini; Rel. Pagetta; P.M. Mastroberardino; Ric. P.P.; Controric. I. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Trasferimento d’azienda- Cessione del contratto di lavoro -Consenso del lavoratore ceduto - Necessità-Esclusione - Fattispecie 

La cessione d'azienda determina, con riferimento al lavoratore, la successione legale nel contratto di lavoro, con conseguente esclusione, ai fini del perfezionamento del contratto di cessione, del consenso del lavoratore ceduto, che potrà successivamente esercitare il proprio diritto di recesso nei termini sanciti dal comma 4 dell'art. 2112 c.c.

Nota

Il caso di specie riguarda il trasferimento di una lavoratrice, ai sensi dell’art. 2112 c.c., alle dipendenze dell’impresa cessionaria dei servizi precedentemente svolti dalla propria datrice di lavoro. 

La Corte d’Appello di Napoli, confermando la sentenza di primo grado, riteneva che non si fosse instaurato alcun rapporto di lavoro alle dipendenze della società cessionaria, in quanto, dalla complessiva condotta tenuta dalla lavoratrice, emergeva che la stessa non aveva mai inteso concludere un rapporto di lavoro con la cessionaria, mai riconosciuta come propria datrice di lavoro, rivendicando al contrario la continuazione del rapporto con la società cedente. 

In particolare, secondo la Corte di merito, la possibilità di rifiuto degli effetti della cessione diazienda, in quanto espressione di un diritto del lavoratore a non prestare lapropria attività per un datore di lavoro che non ha scelto, apparivacompatibile con l’automatismo del trasferimento di azienda ed era coerentecon i principi comunitari; nel caso di specie, non aveva, quindi, rilevanza la mancanza di un atto di dimissioni, nonnecessario in quanto il rapporto di lavoro con la società cessionaria doveva ritenersi maicostituito.

La Corte di Cassazione, adita dalla lavoratrice, ha cassato la sentenza impugnata, rilevando innanzitutto che nell’ipotesi regolata dall'art. 2112 c.c. iltrasferimento del lavoratore alle dipendenze dell'impresa cessionariacostituisce un effetto automatico ex lege, rispetto al quale non è configurabilealcuna possibilità giuridica di opposizione da parte del lavoratore (cfr. da ultimo Cass. n. 12919/2017); ed infatti il legislatore, nell’intento di approntare un sistema di garanzia di continuitàdell'occupazione per i lavoratori, hastabilito, da un lato, che il trasferimento d’azienda non può costituire motivo di licenziamento né per il cedente né per il cessionario, dall'altro, che non è richiesto il consenso deilavoratori coinvolti, dato l'effetto di trasferimento automatico ex lege. In tale contesto normativo, la cessione d’azienda deve essere configurata, con riferimento alla posizione dellavoratore, quale successione legale nel contratto che, non richiedendo ilconsenso del contraente ceduto, non è assimilabile alla cessione negoziale perla quale tale consenso opera da elemento costitutivo della fattispecie (cfr. art. 1406 c.c.).

Inoltre, prosegue la Corte, per il lavoratore che non voglia passare alle dipendenze della società cessionaria, il legislatore ha anche previsto al quarto comma dell’art. 2112 c.c. la facoltà di esercitare il recesso ai sensi della normativa in materia di licenziamenti (cfr. art. 2112 c.c., VI c.: «ferma restando la facoltà di esercitare il recesso ai sensi della normativa in materia di licenziamenti, il trasferimento d'azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento»).

Tali principi, per di più, sono conformi a quanto stabilito dalle direttive comunitarie e ribadito dalla Corte di Giustizia in tema di trasferimento d’azienda.

In conclusione, la Corte ha rilevato che né il diritto comunitario né l'attuale normativa italiana riconoscono in capoal lavoratore un diritto di opposizione al trasferimento nel senso inteso dallasentenzaimpugnata, rimanendo irrilevante il suo consenso rispetto al prodursi dell'effetto traslativo. Pertanto, la sentenza impugnata non risulta coerente con i principi sopra richiamati, posto che ha ritenuto che il comportamento della lavoratrice,ricostruito in termini di sostanziale rifiuto al passaggio alle dipendenze della società cessionaria, non consentisse di ritenere instaurato il rapporto di lavoro con quest’ultima società.

Per tali motivi, la Corte di Cassazione, come anticipato, ha concluso per l’accoglimento del ricorso e cassato con rinvio la decisione impugnata.

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