Contenzioso

Nullità del termine, danno da provare

di Giampiero Falasca

Legittima la scelta dello Stato italiano di richiedere la prova specifica del danno, in caso di nullità del contratto a termine stipulato con la pubblica amministrazione. Danno che si aggiunge all’indennità forfettaria comunque dovuta, e che spetta solo ove questa prova sia fornita.

Con questo principio di diritto, la Corte di giustizia europea, nella sentenza relativa alla causa C-494/16 conferma la legittimità delle norme italiane - come interpretate dalla Corte di cassazione - in tema di regime sanzionatorio applicabile ai contratti a termine stipulati con la pubblica amministrazione.

La controversia nasce dalla causa di una lavoratrice che, dopo aver lavorato per un piccolo Comune sulla base di una serie consecutiva di contratti a termine, ha ottenuto l’accertamento dell’illegittimità dei contratti e il diritto a ottenere un risarcimento economico.

Il tribunale di Trapani, chiamato a decidere l’entità del danno, ha preso atto che, secondo la Corte di cassazione a sezioni unite (sentenza 5072/2016), il risarcimento dovuto al dipendente del settore pubblico è composto da due voci:

una prima voce consiste in una indennità forfettaria attribuita senza che il lavoratore sia chiamato a fornire alcuna prova, da quantificare fra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione (questo trattamento è identico per i lavoratori pubblici e privati);

una seconda voce consiste nell’eventuale risarcimento per la perdita di chances, il cui ottenimento è subordinato all’assolvimento di un pesante onere probatorio a carico del lavoratore. Il dipendente, infatti, deve dimostrare di aver perso delle occasioni di lavoro a causa del rapporto a termine instaurato con l’amministrazione o, comunque, deve provare che se l’amministrazione avesse regolarmente indetto un concorso, egli sarebbe risultato vincitore.

In relazione a questa seconda voce risarcitoria, il tribunale di Trapani osserva che al lavoratore si imporrebbe l’onere di fornire una prova «diabolica», perché sarebbe di fatto impossibile dimostrare l’ipotetica vittoria di un eventuale concorso pubblico mai bandito.

Il risarcimento della perdita di chances sarebbe, quindi, solo apparente, con una forte disparità di trattamento rispetto al settore privato (dove, in aggiunta al risarcimento forfettario, spetta anche la conversione del rapporto).

La Corte esclude la fondatezza del dubbio sollevato dal tribunale di Trapani, rilevando che gli Stati membri hanno un margine di discrezionalità nella scelta degli strumenti utilizzabili per contrastare l’abuso dei contratti a termine.

Inoltre, prosegue la Corte, il diritto dell’Unione non prevede alcun obbligo di far conseguire all’eventuale abuso la stabilizzazione del rapporto di lavoro, sia esso pubblico o privato, così come non impone l’adozione di misure identiche per situazioni diverse; pertanto, gli Stati membri sono liberi di prevedere conseguenze diverse nel settore pubblico e nel settore privato.

La sentenza esclude anche che sussista un problema di effettività della tutela offerta dalla normativa italiana, escludendo che questa renda praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti ai privati.

Peraltro, conclude la Corte, il giudice nazionale può «alleggerire», attraverso l’uso di presunzioni, l’onere della prova a carico del lavoratore, al fine di valutare l’entità del danno subito in relazione alla perdita dell’opportunità di ottenere un vantaggio.

Si tratta di un chiaro invito a ricercare all’interno dell’ordinamento nazionale la soluzione al problema dell’onere prova, invece che invocare inesistenti conflitti con l’ordinamento comunitario.

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