Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento collettivo e criteri di scelta
Procedura per licenziamenti collettivi
Nozione di trasferimento di azienda
Licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica
Infortunio sul lavoro e occasione di lavoro

Licenziamento collettivo e criteri di scelta

Cass. Sez. Lav. 5 febbraio 2018, n. 2694

Pres. Di Cerbo; Rel. Balestrieri; Ric. M. M.; Contoric. I.S.P. S.P.A.;

Lavoro subordinato - Licenziamento collettivo - Comunicazione ex art. 4 l. n. 223/91 - Requisiti

La comunicazione prevista dalla L. n. 223 del 1991, art. 4, può dirsi in contrasto con il normativo obbligo di trasparenza, in quanto (e contestualmente): a) i dati comunicati dal datore siano incompleti o inesatti; b) la funzione sindacale di controllo e valutazione sia stata limitata; c) sussista un rapporto causale fra l'indicata carenza e la limitazione della funzione sindacale.

Lavoro subordinato - Licenziamento collettivo - Destinatario della comunicazione di avvio della procedura per unità produttive su tutto il territorio nazionale - Limitazione al Ministero del Lavoro - Legittimità

L’invio al solo Ministero del Lavoro della comunicazione prevista dalla L. n. 223 del 1991, art. 4, nel caso di riduzione del personale riguardante più unità produttive su tutto il territorio nazionale, è conforme al dettato normativo risultando razionale l'attivazione di una sola procedura di mobilità riguardante la stessa impresa a livello nazionale, piuttosto che la frammentazione delle procedure a livello regionale.

Lavoro subordinato - Licenziamento collettivo - Criterio di scelta della maturazione dei requisiti pensionistici - Legittimità

Nelle ipotesi in cui, come nella specie, il criterio adottato per individuare i lavoratori licenziandi nell'ambito dell'intero complesso aziendale sia unico e riguardi il possesso dei requisiti per il pensionamento, non sussistono dubbi circa la sua legittimità, non consentendo la sua applicazione alcun margine di discrezionalità all'azienda.

Nota

La pronuncia in esame ha a oggetto diversi profili relativi alla procedura ex art. 223 L. 1991. Le statuizioni più importanti della Suprema Corte sono quelle relative al contenuto ed ai destinatari della comunicazione di avvio della procedura, nonché al criterio di scelta del raggiungimento dei requisiti per il pensionamento. Nel caso in esame il lavoratore impugnava il licenziamento intimatogli all’esito di procedura di mobilità per sentirne dichiarare l’illegittimità sotto vari profili. Le domande del lavoratore venivano respinte in primo grado dal Tribunale di Frosinone la cui sentenza veniva sostanzialmente confermata in appello.

Contro tale ultima decisione proponeva ricorso per Cassazione il lavoratore rilevando diversi motivi di illegittimità della sentenza. In particolare e per quanto qui interessa il lavoratore sosteneva che la sentenza della Corte d’Appello fosse illegittima in quanto aveva omesso di rilevare che la comunicazione di avvio della procedura di mobilità non conteneva i motivi della riduzione di personale. Con altro e distinto motivo d’impugnazione il lavoratore sosteneva che la comunicazione in esame avrebbe dovuto essere inviata a tutte le Direzioni Provinciali del Lavoro competenti sul suolo nazionale e non al solo Ministero del Lavoro. Infine, il lavoratore sosteneva l’illegittimità della sentenza per non avere la stessa rilevato la natura discriminatoria del criterio adottato per l’individuazione dei lavoratori da licenziare relativo all’età degli stessi.

La Suprema Corte ha ritenuto infondati tutti i motivi sopra esposti e rigettato l’intero ricorso.

In primo luogo la Cassazione ha ribadito un suo costante orientamento secondo il quale «la comunicazione prevista dalla L. n. 223 del 1991, art. 4, può dirsi in contrasto con il normativo obbligo di trasparenza, in quanto (e contestualmente): a) i dati comunicati dal datore siano incompleti o inesatti; b) la funzione sindacale di controllo e valutazione sia stata limitata; c) sussista un rapporto causale fra l'indicata carenza e la limitazione della funzione sindacale».

Ebbene, non solo è stato affermato che nessuna di tali circostanze è stata allegata e provata in giudizio dal ricorrente ma la Corte ha dichiarato che è legittimo il richiamo per relationem alle ragioni della riduzione di personale esposte nell’ambito del confronto con le organizzazioni sindacali precedente all’apertura della mobilità e prescritto dal CCNL credito applicato alla società datrice.

Con riferimento ai destinatari della comunicazione in discussione, poi, la Suprema Corte ha osservato come sia la stessa L. 223/1991 a indicare che, in caso di procedura che riguardi unità produttive su tutto il territorio nazionale (come nel caso di specie), la decisine di inviare la comunicazione al solo Ministero del Lavoro sia legittima, oltre che rispondente a criteri di razionalità.

Quanto poi all’utilizzo del criterio di scelta del raggiungimento dell’età pensionabile la Corte ha osservato che tale criterio è certamente legittimo «non consentendo la sua applicazione alcun margine di discrezionalità all’azienda» e che lo stesso rientra «nell'ambito delle misure idonee a ridurre l'impatto sociale dei licenziamenti». 

 

Procedura per licenziamenti collettivi

Cass. Sez. Lav. 2 febbraio 2018, n. 2587

Pres. Amoroso; Rel. Amendola; P.M. Renato Finocchi Ghersi; Ric. M.F.; Controric. A. S.r.l..

Licenziamento collettivo - Comunicazione finale della procedura - Incompletezza - Conseguenze - Reintegrazione nel posto di lavoro - Esclusione - Tutela indennitaria - Sussistenza

L'incompletezza della comunicazione di cui al comma 9, L. n. 223/1991 costituisce "violazione delle procedure" previste dalla L. n. 223 del 1991, art. 4, dando luogo al "regime di cui al terzo periodo del settimo comma del predetto art. 18" e, quindi, alla tutela indennitaria tra 12 e 24 mensilità.

Letteralmente essa non ha a che fare con il "caso di violazione dei criteri di scelta", legittimante la reintegrazione nel posto di lavoro ed il pagamento di una indennità risarcitoria, in quanto tale caso si ha non nell'ipotesi di incompletezza formale della comunicazione di cui all'art. 4, comma 9, bensì allorquando i criteri di scelta siano, ad esempio, illegittimi, perchè in violazione di legge, o illegittimamente applicati, perchè attuati in difformità dalle previsioni legali o collettive.

Nota

La Corte d’Appello di Roma, pur confermando la sentenza di primo grado nella parte in cui ha ritenuto inadeguata la comunicazione di chiusura della procedura in violazione dell’art. 4, c. 9, l. n. 223/1991, l’ha però riformata, disconoscendo la tutela reintegratoria e dichiarando risolto il rapporto di lavoro, con condanna della società al pagamento di 18 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, a titolo di indennizzo ex art. 18, c. 7, L. n. 300/1970 (così come novellato dalla l. n. 92/2012).

Avverso la predetta sentenza, il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione.

La Suprema Corte (in adesione a quanto già sancito in Cass. 13/06/2016, n. 12095) ha rigettato il ricorso, affermando che alla fattispecie in esame è applicabile ratione temporis l’art. 1, c. 46, L. n. 92/2012, norma che distingue espressamente tra: a) la “violazione dei criteri di scelta”, cui si applica l’art. 18, c. 4, Stat. Lav. (e, quindi, la tutela reintegratoria con condanna al pagamento di un’indennità risarcitoria in misura non superiore alle 12 mensilità); b) la “violazione delle procedure richiamate dall’art. 4, c. 12, L. n. 223/1991”, cui si applica il terzo periodo del settimo comma del predetto art. 18, ovvero esclusivamente l’indennità risarcitoria oscillante tra un minimo di dodici ed un massimo di 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

La Corte di legittimità ha chiarito che: la fattispecie sub a) sussiste allorquando i criteri di scelta siano illegittimi (perché adottati in violazione della legge) o illegittimamente applicati (in quanto attuati in difformità delle previsioni legali o collettive); la fattispecie sub b), invece, sussiste nell’ipotesi di mera incompletezza formale della comunicazione di cui all’art. 4, c. 9, L. n. 223/1991.

Ebbene, la Suprema Corte ha ritenuto che la Corte di merito - nell’osservare che una cosa è omettere di spiegare come sono stati individuati i lavoratori da licenziare (violazione della procedura), altra cosa è individuare in maniera non corretta i lavoratori da licenziare (violazione dei criteri di scelta) - ha correttamente sussunto la fattispecie concreta di violazione, così come accertata, nell’ipotesi sub b), e, dunque, nell’ambito della tutela di tipo esclusivamente indennitario, non corrispondendo la comunicazione di chiusura della procedura al modello legale.

 

Nozione di trasferimento di azienda

Cass. Sez. Lav. 24 gennaio 2018, n. 1769

Pres. Nobile; Rel. Patti; P.M. Sanlorenzo; Ric. A. S.p.A. Contr. F.A.;

Art. 2112 c.c. - Trasferimento ramo di azienda - Nozione di ramo - Autonomia organizzativa e funzionale - Preesistenza alla cessione - Necessità

Ai fini del trasferimento di ramo d'azienda, previsto dall'art. 2112 c.c., anche nel testo modificato dall'art. 32, d. lgs. n. 276/2003, è elemento costitutivo della cessione l'autonomia funzionale del ramo ceduto, ovvero la sua capacità, già al momento dello scorporo dal complesso cedente, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi funzionali ed organizzativi e quindi di svolgere - senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario - il servizio o la funzione finalizzati nell'ambito dell'impresa cedente.

Nota

La Corte di appello di Milano, in riforma della pronuncia di primo grado, accertata la illegittimità della cessione di ramo di azienda, dichiarava la sussistenza, senza soluzione di continuità, del rapporto di lavoro di due dipendenti con la società cedente. La Corte di merito escludeva che nel caso di specie potesse configurarsi la cessione di ramo di azienda, in difetto del requisito della preesistenza, presupposto necessario ex art. 2112, comma 5°, c.c.

Avverso tale sentenza la società propone ricorso per cassazione, denunciando, tra l'altro, la violazione dell'art. 2112 c.c., per aver escluso il requisito della "preesistenza", non più necessario, a parere della ricorrente, nel testo modificato dell'art. 2112, comma 5°, ult. parte, c.c.

La Suprema Corte nel respingere il ricorso, ribadisce il proprio consolidato orientamento, secondo cui, ai fini del trasferimento di ramo d'azienda, previsto dall'art. 2112 c.c., anche nel testo modificato dall'art. 32, d. lgs. n. 276/2003, è elemento costitutivo della cessione l'autonomia funzionale del ramo ceduto, ovvero la sua capacità, già al momento dello scorporo dal complesso cedente, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi funzionali ed organizzativi e, quindi, di svolgere - senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario - il servizio o la funzione finalizzati nell'ambito dell'impresa cedente (Cass. 31 maggio 2016, n. 11247). Conseguentemente, prosegue la Cassazione, non si configura una cessione di ramo di azienda, in difetto di preesistenza di una realtà produttiva autonoma ed esistente, qualora la stessa sia stata creata ad hoc in occasione del trasferimento o identificata come tale dalle parti del negozio traslativo. Deve ritenersi, quindi, preclusa l'esternalizzazione come forma incontrollata di espulsione di frazioni non coordinate fra loro, di semplici reparti o uffici, di articolazioni non autonome, unificate solo dalla volontà dell'imprenditore e non dall'inerenza del rapporto ad una entità economica dotata di autonomia ed obiettiva funzionalità (Cass. 26 luglio 2016, n. 15438; Cass. 28 settembre 2015, n. 19141). 

 

Licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica

Cass. Sez. Lav. 14 febbraio 2018, n. 3616

Pres. Manna; Rel. Garri; Ric. R.F.I. S.p.A.; Controric. L.R.

Lavoro - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Giustificato motivo oggettivo - Infermità permanente - Conseguente impossibilità sopravvenuta della prestazione - Condizioni - Ineseguibilità della attuale attività lavorativa - Sufficienza - Esclusione - Assegnazione del dipendente ad altre attività di livello equivalente ed eventualmente a mansioni inferiori - Necessità - Onere della prova - Limiti (rispetto dell'assetto organizzativo aziendale)

In caso di sopravvenuta infermità permanente del lavoratore, l'impossibilità della prestazione lavorativa quale giustificato motivo di recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro subordinato non è ravvisabile per effetto della sola ineseguibilità dell'attività attualmente svolta dal prestatore di lavoro, perché può essere esclusa dalla possibilità di adibire il lavoratore ad una diversa attività, che sia riconducibile - alla stregua di un'interpretazione del contratto secondo buona fede - alle mansioni attualmente assegnate o a quelle equivalenti o, se ciò è impossibile, a mansioni inferiori, purché tale diversa attività sia utilizzabile nell'impresa, secondo l'assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall'imprenditore, incombendo sul datore di lavoro l'onere di provare l'inutilizzabilità del lavoratore in mansioni diverse.

Nota

Nella sentenza in oggetto il Supremo Collegio definisce i presupposti di legittimità del licenziamento per sopravvenuta infermità permanente.

Nel caso di specie, il datore di lavoro comunicava il recesso dal rapporto di lavoro in relazione all'«inidoneità del lavoratore al servizio ferroviario».

Il dipendente impugnava il licenziamento ed entrambi i Giudici del merito ne dichiaravano l'illegittimità, «poichè non era risultata provata una incompatibilità delle condizioni di salute del prestatore con le mansioni elementari di supporto amministrativo svolte». In dettaglio, la Corte d'Appello, condividendo gli esiti delle consulenze tecniche disposte, ha escluso che fosse ravvisabile una inidoneità assoluta al lavoro, concludendo che «il comportamento difficilmente adattabile del lavoratore non era tale da integrare una inidoneità a svolgere qualsiasi mansione, tenuto conto del carattere elementare delle stesse che ne avrebbero consentito l'utilizzazione in mansioni di mero supporto nell'ambito degli uffici amministrativi ai quali era pure destinato».

L'azienda proponeva ricorso per Cassazione, denunziando violazione degli articoli 1463 e 1464 cod. civ., nonché 5, Legge n. 300/1970, 41 e 42, D.Lgs. n. 81/2008.

La Suprema Corte respinge il ricorso, ricordando, anzitutto, che, «in caso di sopravvenuta infermità permanente del lavoratore, l'impossibilità della prestazione lavorativa quale giustificato motivo di recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro subordinato (artt. 1 e 3 legge n. 604 del 1966 e artt. 1463 e 1464 cod. civ.) non è ravvisabile per effetto della sola ineseguibilità dell'attività attualmente svolta dal prestatore di lavoro, perché può essere esclusa dalla possibilità di adibire il lavoratore ad una diversa attività, che sia riconducibile - alla stregua di un'interpretazione del contratto secondo buona fede - alle mansioni attualmente assegnate o a quelle equivalenti (art. 2103 cod. civ.) o, se ciò è impossibile, a mansioni inferiori, purché tale diversa attività sia utilizzabile nell'impresa, secondo l'assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall'imprenditore». Infatti - argomenta il Collegio - se è ben vero che l'esercizio dell'attività economica privata, garantito dall'art. 41 Cost., non è sindacabile nei suoi aspetti tecnici dall'autorità giurisdizionale, tuttavia deve sempre svolgersi nel rispetto dei diritti al lavoro e alla salute.

Non incorre, pertanto, in violazione di legge il Giudice che dichiari illegittimo il licenziamento intimato per sopravvenuta inidoneità fisica alle mansioni assegnate, allorché il datore di lavoro non provi che il lavoratore non potesse essere addetto - evitando trasferimenti di altri lavoratori o alterazioni dell'organigramma aziendale - a mansioni diverse, incombendo sul datore l'onere di provare l'inutilizzabilità del prestatore.

 

Infortunio sul lavoro e occasione di lavoro

Cass. Sez. Lav. 6 febbraio 2018, n. 2838

Pres. Mammone; Rel. D’Antonio; P.M. Sanlorenzo; Ric. A.D.; Controric. I.N.A.I.L;

Lavoro - Assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali - Occasione di lavoro - Infortunio verificatosi nell’espletamento di attività lavorativa connessa alle mansioni lavorative tipiche oggetto dell’obbligo assicurativo - Indennizzabilità - Condizioni

L’occasione di lavoro di cui all’art. 2 del d.P.R. n. 1124 del 1965 non implica necessariamente che l’infortunio avvenga durante l’espletamento delle mansioni lavorative tipiche in ragione delle quali è stabilito l’obbligo assicurativo, essendo indennizzabile anche l'infortunio determinatosi nell'espletamento di attività lavorativa ad essa connessa in relazione a rischio non proveniente dall’apparato produttivo ed insito in un’attività prodromica e comunque strumentale allo svolgimento delle medesime mansioni, anche se riconducibile a situazioni e attività proprie del lavoratore (purché connesse con le mansioni lavorative) con il solo limite, in quest’ultima ipotesi, del c.d. “rischio elettivo”.

Nota

La sentenza in commento riguarda il caso di un infortunio “in itinere” occorso ad un lavoratore artigiano rimasto coinvolto in un incidente stradale mentre si recava con la propria autovettura presso un opificio che aveva affittato ad una società di cui lo stesso era socio accomandatario, al fine di verificare i lavori di allacciamento della linea elettrica destinata a servire tale opificio e necessaria al funzionamento dei macchinari ivi presenti.

La Corte d’Appello di Venezia aveva confermato la sentenza di primo grado resa dal Tribunale di Treviso e, dopo aver distinto tra attività lavorativa manuale o professionale direttamente produttiva del bene o servizio, da quella inerente alla direzione e amministrazione dell’impresa, aveva escluso che l’infortunio dell’artigiano fosse accaduto durante lo svolgimento di un’attività complementare o sussidiaria a quella lavorativa manuale, ritenendo che l’attività consistente nel recarsi, alla guida della propria autovettura, presso il summenzionato opificio per effettuare le summenzionate verifiche, non rientrasse nell’ambito di tutela offerta dall’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro.

Avverso tale decisione il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione, lamentando il fatto che la Corte d’Appello non aveva accertato che egli stesse svolgendo attività non manuale di sovrintendenza e controllo del lavoro altrui, attività espressamente ricompresa nell’art. 4, comma 1, DPR n. 1124/1965. Ha inoltre eccepito che, in ogni caso, anche le operazioni complementari e sussidiarie svolte dall’artigiano fuori dai locali dell’impresa, rientrano nella tutela offerta dall’art. 4, comma 1, n. 3) del DPR 1124/1965.

La Suprema Corte, nell’accogliere il ricorso, richiamando taluni precedenti giurisprudenziali (Cass. n. 5419 del 1999, Cass. n. 10298 del 2000, Cass. n. 9556 del 2001, Cass. n. 1944 del 2002, Cass. n. 16417 del 2005, Cass. n. 2136 del 2015, Cass. Ord. n. 24765 del 2017), ha rilevato che è indennizzabile non solo l’infortunio occorso nello svolgimento delle proprie mansioni, ma anche quello verificatosi nell’espletamento di attività lavorativa connessa allo svolgimento delle stesse, anche qualora il rischio non provenga dall’apparato produttivo, ma sia insito in un’attività prodromica e strumentale allo svolgimento delle mansioni tipiche. Ciò in quanto il termine “occasione di lavoro” di cui all’art. 2 del DPR 1124/1965, non prevede necessariamente che l’infortunio si verifichi durante lo svolgimento delle mansioni tipiche oggetto di copertura assicurativa.

La Corte ha quindi concluso ricordando il principio secondo il quale «l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, in attuazione dell’art. 38 della Costituzione, dà rilievo non già al cosiddetto rischio professionale, come tradizionalmente inteso, ma a tutti gli infortuni in stretto rapporto di connessione con l’attività protetta».

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