Contenzioso

Tutele crescenti a effetto ridotto

di Giampiero Falasca

Il primo bilancio della giurisprudenza di merito sul contratto a tutele crescenti fa emergere una lettura restrittiva delle principali regole contenute nel decreto legislativo 23/2015.

Una delle novità più rilevanti della riforma riguarda la reintegrazione sul posto di lavoro nel caso di invalidità del licenziamento disciplinare, che spetta solo quando risulti inesistente il “fatto materiale” che ha dato origine al recesso. La norma mira a restringere i casi cui si applica la tutela forte, limitandola ai licenziamenti disciplinari fondati su circostanze false ed escludendola quanto il recesso sia invalido per altri motivi.

La giurisprudenza di merito ha letto, finora, in maniera restrittiva la norma, applicando la stessa interpretazione del “fatto” formatasi in relazione alla riforma dell’articolo 18. I motivi di questa scelta sono ben spiegati dalla sentenza della Corte d’appello dell’Aquila del 14 dicembre 2017.

Secondo la pronuncia, il «fatto materiale contestato» non può̀ essere interpretato quale mero accadimento di un fatto storico, ma fa «riferimento ad una condotta inadempiente del lavoratore»; pertanto, l’insussistenza del fatto materiale contestato «deve essere intesa non solo nel senso di non esistenza del comportamento contestato, nella sua materialità, ma anche in quello di irrilevanza disciplinare dello stesso, sotto il profilo giuridico».

La sentenza rafforza questa lettura precisando che, per escludere la reintegra, è necessario un rilievo disciplinare «congruo con la massima sanzione espulsiva»: in questo modo, rientra in gioco quel giudizio di proporzionalità che il Jobs act (con le tutele crescenti) voleva rendere irrilevante ai fini della scelta del regime sanzionatorio applicabile.

Altri giudici di merito hanno identificato i casi nei quali il fatto materiale va considerato inesistente (con diritto, quindi, alla reintegra): quando manca la contestazione disciplinare (tribunale di Chieti, 30 marzo 2017); in caso di licenziamento per mancato superamento della prova fondato su un patto di prova invalido (tribunale di Torino, 16 settembre 2017); nel caso in cui il patto sia inesistente (tribunale di Milano, 3 novembre 2016).

La giurisprudenza sta dando una lettura restrittiva anche all’onere della prova. È stato sostenuto, infatti, che il Dlgs 23/2015 «non determina il superamento del principio generale che pone in capo al datore di lavoro l’onere di provare la giustificatezza del licenziamento» (tribunale di Lodi, 16 febbraio 2017).

Meno restrittiva, invece, la lettura circa l’ambito di applicazione delle nuove norme: queste si applicano a tutti i casi di “conversione” del rapporto a termine in uno a tempo indeterminato, nozione che – non essendo tipizzata – può essere letta come sinonimo di trasformazione e, quindi, comprende «ogni ipotesi di prosecuzione del rapporto, tanto che sia effetto di una volontà comune delle parti, tanto che avvenga in forza di una pronuncia del giudice» (tribunale di Napoli, 27 giugno 2017).

In tema di licenziamenti collettivi, interessante la sentenza del tribunale di Roma del 2 ottobre 2017. La pronuncia osserva, molto correttamente, che se la procedura di licenziamento collettivo viene censurata per dedotta inosservanza della forma scritta si applica il regime sanzionatorio previsto per i recessi discriminatori; invece, se la procedura viene censurata per violazione dei criteri di scelta, si applica la tutela esclusivamente risarcitoria.

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