Contenzioso

Danno esistenziale e demansionamento, risarcibile anche in base a presunzioni semplici e massime di comune esperienza

di Alberto De Luca e Antonella Iacobellis

La suprema corte di Cassazione, con sentenza 82 del 4 gennaio 2018, è tornata a occuparsi della tematica del risarcimento danni in caso di demansionamento.

La vicenda prende le mosse dalla richiesta risarcitoria presentata contro il proprio datore di lavoro da una lavoratrice part-time, formalmente assunta con mansioni di addetta alla gestione ordini presso l'ufficio acquisti, e perciò inquadrata al 6° livello del Ccnl per gli esercenti dei servizi di telecomunicazione, ma impiegata per oltre sette anni in mansioni di inserimento di dati su fogli elettronici, ascrivibili nell'inferiore 4° livello.

Nel caso specifico, i giudici hanno ribadito che - in tema di demansionamento e dequalificazione - il riconoscimento del danno esistenziale, biologico e professionale che ne deriva, non può prescindere da una specifica allegazione da parte del lavoratore, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio stesso.

Con specifico riferimento al pregiudizio esistenziale, anche definito come danno dinamico e/o relazionale, che rappresenta un criterio di liquidazione del più generale danno non patrimoniale, la Corte ha precisato che esso non è conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo del datore di lavoro, sicché non può ritenersi sufficiente la dimostrazione della mera potenzialità lesiva della condotta datoriale.
Incombe, pertanto, sul lavoratore, che non può limitarsi genericamente a dolersi di essere vittima di un illecito, l'onere di fornire la prova del danno e del nesso di causalità con l'inadempimento datoriale.

Nella controversia in esame, la Suprema corte ha ritenuto bastevoli a integrare il diritto, in capo alla lavoratrice demansionata, al riconoscimento del risarcimento per il danno esistenziale patito, le seguenti allegazioni probatorie:
1) la documentazione prodotta dalla ricorrente evidenziava la consistente quota di professionalità raggiunta («dal momento che dapprima le era stata assegnata la responsabilità del coordinamento di un gruppo di segretarie e successivamente era divenuta segretaria senior del direttore generale»);
2) la durata del demansionamento protrattasi per oltre 7 anni;
3) il fatto che «la parabola lavorativa dell'appellante ed il disagio derivatone fossero ben evidenti nell'ambiente lavorativo» (sul punto si era ritenuta rilevante la deposizione testimoniale di una sua collega operante presso la direzione delle risorse umane che così aveva dichiarato: «la ricorrente quando mi incontrava mi rappresentava sempre il suo malcontento sulle funzioni che svolgeva nel call center; non ho visto particolari situazioni, era lei che raccontava di non star bene»);
4) la documentazione prodotta dalla lavoratrice aveva messo in luce le sue continue manifestazioni di insoddisfazione per la sua collocazione lavorativa, avanzate nei confronti dei vertici aziendali, con cui la stessa aveva insistito per la ricerca di mansioni alternativa in linea con la professionalità acquisita.

La pronuncia in esame, così statuendo, aderisce a un consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui il danno esistenziale da intendersi come ogni pregiudizio, non meramente emotivo e interiore ma oggettivamente accertabile, provocato sul fare areddituale del soggetto, concretizzandosi nello sconvolgimento delle sue abitudini e dei suoi assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno - va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, tra i quali assume precipuo rilievo la prova per presunzioni (si veda Cassazione a sezioni unite 6572/2006).

Ne discende che, dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti – le caratteristiche e la gravità del disagio subito, la durata, la conoscibilità all'interno e all'esterno del luogo di lavoro dell'operata dequalificazione, le (frustrate) ragionevoli aspettative di progressione professionale, le eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti il persistente malessere - il giudice possa, attraverso un prudente apprezzamento, risalire dal fatto noto (il demansionamento e/o la dequalificazione) al fatto ignoto (il danno) facendo ricorso, secondo l'articolo 115 del codice di procedura civile, a quelle nozioni generali derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove.

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