Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Sul principio di “immutabilità della contestazione disciplinare”
Codice disciplinare e pubblicità ai fini della legittimità della sanzione
Licenziamento per giusta causa
Trasferimento del lavoratore e limiti al sindacato del giudice
Controllo del lavoratore, tempestività e legittimità della contestazione


Sul principio di “immutabilità della contestazione disciplinare”

Cass. Sez. Lav. 30 novembre 2017, n. 28797

Pres. Macioce; Rel. Di Paolantonio; P.M. Ghersi; Ric. T.D.; Res. E.S.A.C.R.I.

Licenziamento disciplinare - Principio di immutabilità della contestazione - Interpretazione - Non modificabilità del fatto contestato - Necessità - Riconducibilità dell’addebito ad una diversa ipotesi disciplinare - Ammissibilità

Il principio di “immutabilità della contestazione disciplinare”, così come accade nel processo penale (art. 521 c.p.p.), attiene al fatto e non alla qualificazione giuridica dello stesso, sicché è consentito al datore di lavoro di ricondurre l’addebito ad una diversa ipotesi disciplinare, atteso che, in tal caso, non si verifica una modificazione del fatto, ma solo un diverso apprezzamento dello stesso. 

Nota  

La Suprema Corte ha ribadito, anche recentemente, il principio di “immutabilità della contestazione disciplinare” e lo ha fatto chiarendone ulteriormente la portata. 

Nel caso in esame, la Corte d’Appello di Torino respingeva il reclamo proposto dal lavoratore avverso la sentenza che, all’esito del giudizio di opposizione, aveva confermato l’ordinanza con la quale era stato rigettato il ricorso dallo stesso promosso per ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento e la condanna dell’ente alla reintegrazione nel posto di lavoro in precedenza occupato oltre che al risarcimento del danno. 

La Corte territoriale osservava, preliminarmente, che non rilevava, ai fini della legittimità del licenziamento il riferimento, contenuto nella lettera di recesso, ad una norma del contratto collettivo diversa da quella richiamata nella missiva di addebito, non integrando tale ipotesi alcuna violazione del principio di non contestazione ed ha, comunque, ritenuto provati i fatti contestati.

Avverso la predetta sentenza, il lavoratore proponeva ricorso per cassazione, contestando, sotto plurimi profili, la sentenza di merito. Il ricorrente si doleva, in particolare, per quel che qui rileva, della violazione e falsa applicazione del principio di immutabilità della contestazione disciplinare, per aver l’ente giustificato il recesso in relazione ad un addebito diverso da quello contestato. Osservava, infatti, il ricorrente che l’ente, nella contestazione di addebito, aveva richiamato la disposizione contrattuale di cui all’art. 26, cc. 1 e 3, lett. g) del CCNL 5/07/1995 per il personale non dirigenziale del comparto enti pubblici non economici, che fa divieto al dipendente di attendere “durante l’orario di lavoro” a occupazioni estranee al servizio e che, invece, il licenziamento è stato irrogato ai sensi di altra norma contrattuale (l’art. 16, c. 8, CCNL 9/10/2003), non menzionata nella contestazione. 

La Corte di legittimità ha rigettato il ricorso, sulla scorta dei seguenti, ormai consolidati, principi: a) il principio della immutabilità della contestazione, ossia della necessaria corrispondenza tra contestazione degli addebiti e fatti sanzionati nel provvedimento punitivo finale, tutela il diritto di difesa dell’incolpato, che sarebbe irrimediabilmente compromesso qualora il provvedimento disciplinare venisse adottato in relazione a condotte, omissive o commissive, sulle quali non si sia svolto il contraddittorio; b) la immutabilità, così come accade nel processo penale (art. 521 c.p.p.), attiene al fatto e non alla qualificazione giuridica dello stesso, sicchè è consentito al datore di lavoro di ricondurre l’addebito ad una diversa ipotesi disciplinare, atteso che, in tal caso, non si verifica una modificazione del fatto, ma solo un diverso apprezzamento dello stesso (Cass. 22/03/2011, n. 6499 e Cass. Sez. Un. 20/05/2014, n. 11024). 

Ebbene, la Suprema Corte ha osservato come la Corte di merito - nell’escludere la violazione del summenzionato principio sulla base del rilievo che la pretesa violazione del diritto di difesa era stata fatta valere dal lavoratore non in relazione a modifiche riguardanti la condotta nei suoi aspetti oggettivi e soggettivi, ma, esclusivamente, con riferimento al richiamo nella lettera di licenziamento di una disposizione contrattuale non citata nell’atto di avvio del procedimento - abbia fatto corretta applicazione dei suddetti principi. La Corte di legittimità ha, altresì, rilevato che la Corte territoriale ha correttamente evidenziato la stretta correlazione esistente tra le due disposizioni contrattuali, osservando che l’una (quella richiamata nella lettera di contestazione disciplinare) individua i doveri del dipendente che assumono rilevanza disciplinare ove violati, l’altra (quella richiamata nella lettera di irrogazione della sanzione) stabilisce le sanzioni che possono derivare dalla violazione delle norme comportamentali. 


Codice disciplinare e pubblicità ai fini della legittimità della sanzione

Cass. Sez. Lav. 25 ottobre 2017, n. 25378

Pres. Macioce; Rel. De Felice; Ric. B.M.A.; Res. C.d.F.;

Lavoro - Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Sanzioni disciplinari - Predisposizione ed affissione del codice disciplinare - Necessità - Limiti - Sanzioni relative a comportamenti integranti violazioni del minimo etico o illecito penale - Esclusione  

In tutti i casi in cui il comportamento sanzionatorio sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito, perché contrario al cosiddetto minimo etico o a norme di rilevanza penale, non è necessario che sia data adeguata pubblicità al codice disciplinare, in quanto il lavoratore ben può rendersi conto, al di là di una analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare, dell'illiceità della propria condotta. 

Nota  

Nella sentenza in commento, la Suprema Corte definisce l'ambito di applicazione del requisito di adeguata pubblicità del codice disciplinare ai fini della legittimità della sanzione irrogata. 

Nel caso di specie, era stata applicata ad un dipendente la sanzione disciplinare di otto giorni di sospensione per omissioni e ritardi nella gestione dell'istruttoria di numerosi ricorsi amministrativi, che avevano, altresì, provocato ingenti danni economici e reputazionali al datore di lavoro. 

Il lavoratore impugnava tale provvedimento: il Tribunale statuiva l'illegittimità della sanzione, mentre la Corte territoriale la reputava legittima. 

Segnatamente, i Giudici d'appello disattendevano le difese del dipendente, reputando, da un lato, irrilevante nella fattispecie - e comunque soddisfatto attraverso il sito intranet dell'istituzione - il requisito della pubblicità del codice disciplinare; e, dall'altro, ritenendo ininfluente il mancato aggiornamento del codice disciplinare, essendo i fatti imputati al lavoratore ricompresi nelle ipotesi di illecito disciplinare già contemplate dalla contrattazione collettiva applicabile ratione temporis.Il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione, denunziando, tra il resto, violazione e falsa applicazione dell'art. 7 St.Lav.

La Suprema Corte rigetta il ricorso. 

Anzitutto, il Collegio rammenta il granitico principio per cui «in tutti i casi in cui il comportamento sanzionatorio sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito, perché contrario al cosiddetto minimo etico o a norme di rilevanza penale, non è necessario che sia data adeguata pubblicità al codice disciplinare, in quanto il lavoratore ben può rendersi conto, al di là di una analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare, dell'illiceità della propria condotta».

 Ciò posto, la Cassazione ritiene, ad ogni modo, che l'onere di pubblicità possa dirsi assolto mediante la pubblicazione del codice disciplinare sul sito intranet del datore, tenuto anche conto che il dipendente ha omesso di spiegare in quale modo una siffatta forma di diffusione si ponga in contrasto con i canoni di accessibilità e tassatività delle forme di pubblicità. 

Infine, i Giudici di legittimità respingono anche l'ulteriore censura del lavoratore, ritenendo che le condotte contestate fossero comunque contemplate dalla disciplina contrattuale ratione temporis applicabile, e quindi pienamente sanzionabili.

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 10 novembre 2017, n. 26679

Pres. Nobile; Rel. Piergiovanni Patti; P.M. Fresa; Ric. P.I.; Controric. P.G.

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale per giusta causa - Condotta illecita extra-lavorativa - Rilievo disciplinare - Rapporto di fiducia - Valutazione della gravità della condotta - Rilevanza - Fattispecie  

In materia di lavoro, le condotte che possono costituire giusta causa di recesso non sono necessariamente legate a inadempimenti di obblighi contrattuali, ma possono anche originare da comportamenti o fatti esterni alla sfera contrattuale, purché questi abbiano rilievo nel rapporto di lavoro, considerando anche le caratteristiche della posizione del dipendente. Per giustificare la giusta causa di licenziamento, la condotta del lavoratore deve quindi risultare idonea a incidere sulla fiducia del datore di lavoro e a far ritenere la prosecuzione del rapporto pregiudizievole per gli interessi aziendali 

Nota  

La Corte d'appello di Trento, riformando la pronuncia del Tribunale, dichiarava illegittimo il licenziamento intimato per giusta causa al dipendente e condannava la società alla reintegrazione. 

La Corte territoriale riteneva che la richiesta di applicazione della pena ai sensi dell’articolo 444 c.p.p. per detenzione di gr. 92,80 di hashish, non integrasse giusta causa di licenziamento, considerata la natura extra-lavorativa del comportamento non interferente sulle mansioni di natura meramente esecutiva svolte dal lavoratore, senza connotazioni di responsabilità e non in contatto con il pubblico. 

Avverso la sentenza della Corte di Appello proponeva ricorso per Cassazione la società deducendo l’erroneità dell’esclusione della giusta causa di licenziamento. Per la società il comportamento (ancorché extra-lavorativo) del dipendente era idoneo a rompere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti anche tenuto conto del contesto lavorativo in cui il medesimo era inserito (a contatto con decine di colleghi e con maneggio e anche apertura, qualora non fosse individuabile il destinatario, di buste e pacchi anche contenenti valori o effetti personali). 

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso. 

La Suprema Corte ha preliminarmente chiarito che il concetto di giusta causa non è limitabile all'inadempimento tanto grave da giustificare la risoluzione immediata del rapporto di lavoro, ma è estensibile anche a condotte extra-lavorative, che, tenute al di fuori dell'azienda e dell'orario di lavoro e non direttamente riguardanti l'esecuzione della prestazione lavorativa, possano essere tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti. In questo senso, vanno ricomprese anche condotte concernenti la vita privata del lavoratore. 

D’altra parte, per la Corte, è pur sempre necessario che si tratti di comportamenti che, per la loro gravità, siano suscettibili di scuotere irrimediabilmente la fiducia del datore di lavoro perché idonei, per le concrete modalità con cui si manifestino, ad arrecare un pregiudizio, anche non necessariamente di ordine economico, agli scopi aziendali anche tenuto conto della posizione ricoperta dal lavoratore. 

Nel caso di specie, conclude la Cassazione, la Corte territoriale avrebbe fatto esatta applicazione dei principi di diritto ed esatta valutazione delle mansioni svolte dal lavoratore, del relativo livello di responsabilità e del contesto lavorativo pervenendo correttamente ad un'argomentata negazione della lesione del rapporto fiduciario tra le parti. 

 

Trasferimento del lavoratore e limiti al sindacato del giudice
Cass. Sez. Lav. 30 novembre 2017, n. 28791

Pres. Bronzini; Rel. Cinque; P.M. Celeste; Ric. V.O. Contr. D.A.C.;

Art. 2103 c.c. - Trasferimento del lavoratore - Sussistenza comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive - Necessità - Limiti: insindacabilità nel merito delle scelte del datore di lavoro  

In tema di trasferimento del lavoratore ex art. 2103 c.c., il controllo giurisdizionale delle comprovate ragioni tecniche, organizzative deve essere diretto ad accertare che vi sia corrispondenza tra il provvedimento adottato dal datore di lavoro e le finalità tipiche dell'impresa e non può essere dilatato fino a comprendere il merito della scelta operata dall'imprenditore; quest'ultima, inoltre, non deve presentare i caratteri della inevitabilità, essendo sufficiente che il trasferimento concreti una delle possibili scelte, tutte ragionevoli, che il datore di lavoro può adottare sul piano tecnico, organizzativo e produttivo. 

Nota  

La Corte di appello di Potenza, riformando la decisione di primo grado, aveva dichiarato l'illegittimità del trasferimento di un dipendente nonché del successivo licenziamento intimatogli, con ordine per il datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro e nelle mansioni precedentemente svolte o in altre equivalenti. A fondamento della propria decisione, la Corte di merito rilevava che il trasferimento del dipendente a Pozzuoli, per soppressione della sede di Potenza, era illegittimo in quanto il datore di lavoro aveva violato i criteri di buona fede e correttezza e, dunque, era legittimo il rifiuto del lavoratore di recarsi presso la nuova sede e ingiustificato il successivo licenziamento. 

Avverso tale pronuncia la società datrice di lavoro propone ricorso per cassazione denunciando, in particolare, la violazione degli artt. 2103 e 2697 c.c. nella parte in cui la Corte di appello, pur avendo ritenuto sussistenti le ragioni sottese al trasferimento, aveva poi arbitrariamente ampliato il contenuto dell'obbligo di cui all'art. 2103 c.c. La società denuncia, altresì, l'errata applicazione dei richiamati princìpi di buona fede e correttezza, laddove i giudici di merito non avevano adeguatamente considerato che per una serie di circostanze - quali la molteplicità delle offerte sottoposte al dipendente; la distanza tra le due città che non determinava uno sradicamento dal contesto di vita personale e familiare; l'importanza del ruolo professionale che il dipendente sarebbe andato a ricoprire a Pozzuoli - il provvedimento di trasferimento si era profilato come extrema ratio. 

La Corte di Cassazione accoglie il ricorso rilevando che è un proprio principio consolidato quello secondo cui il controllo giurisdizionale delle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive che legittimano il trasferimento del lavoratore subordinato deve essere diretto ad accertare che vi sia corrispondenza tra il provvedimento adottato dal datore di lavoro e le finalità tipiche dell'impresa e non può essere dilatato fino a comprendere il merito della scelta operata dall'imprenditore; quest'ultima, poi, non deve presentare i caratteri della inevitabilità, essendo sufficiente che il trasferimento concreti una delle possibili scelte, tutte ragionevoli, che il datore di lavoro può adottare sul piano tecnico, organizzativo e produttivo (Cass. 30 maggio 2016, n. 11126). Nel caso in esame, ad avviso della Cassazione, la Corte di merito aveva disatteso tali princìpi in quanto, nonostante il datore di lavoro avesse dimostrato la soppressione della sede di Potenza, i giudici di appello erano ricorsi ad argomenti, quali il mancato riscontro alla richiesta di delucidazioni del lavoratore sulle funzioni che avrebbe ricoperto, che travalicavano i limiti del sindacato giudiziale. Né era ravvisabile alcuna violazione dei princìpi di correttezza e buona fede atteso che il trasferimento era stato preceduto da una fase di confronto, costituita da numerosi colloqui con il dipendente. Infine, sottolinea la Cassazione, il trasferimento del lavoratore ex art. 2103 c.c. consente al medesimo di chiederne giudizialmente, anche d'urgenza, l'accertamento di legittimità, ma non lo autorizza, senza l'intervento del giudice, a rifiutarsi di eseguire la prestazione lavorativa, potendo invocare l'eccezione di inadempimento, ex art. 1460 c.c., solo in caso di totale inadempimento dell'altra parte (cfr. Cass. 26 settembre 2016, n. 18866). 

Controllo del lavoratore, tempestività e legittimità della contestazione
Cass. Sez. Lav. 10 novembre 2017, n. 26680

Pres. Nobile; Rel. Garri; Ric. I.M.A.; Controric. M.R. S.r.l.;

Lavoro subordinato - Potere disciplinare del datore di lavoro - Obbligo di contestazione immediata delle infrazioni - Esclusione - Valutazione della tempestività della sanzione - Piena conoscenza della condotta - Rilevanza

Il datore di lavoro ha il potere, ma non l'obbligo, di controllare in modo continuo i propri dipendenti, contestando loro immediatamente qualsiasi infrazione al fine di evitarne un possibile aggravamento, atteso che un simile obbligo, non previsto dalla legge né desumibile dai principi di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., negherebbe in radice il carattere fiduciario del lavoro subordinato, sicché la tempestività della contestazione disciplinare va valutata non in relazione al momento in cui il datore avrebbe potuto accorgersi dell'infrazione ove avesse controllato assiduamente l'operato del dipendente, ma con riguardo all'epoca in cui ne abbia acquisito piena conoscenza.

Lavoro subordinato - Provvedimenti disciplinari - Legittimità della contestazione - Sussistenza di elementi tali da far comprendere l’accusa ed esercitare il diritto di difesa - Sufficienza

Il tenore complessivo della contestazione, ove riferita a molteplici fatti, deve essere tale da consentire al lavoratore di individuare nella loro materialità quelli nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari (o comunque comportamenti contrari ai doveri di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c. ), di comprendere l'accusa rivoltagli e di esercitare il diritto di difesa

Nota

Nel caso in esame la Corte d’Appello di Bologna confermava la decisione del Tribunale di Reggio Emilia con la quale era stato dichiarato legittimo il licenziamento intimato dalla società datrice di lavoro ed erano state respinte le domande della lavoratrice.

La lavoratrice era stata licenziata, all’esito di procedimento disciplinare avviato nel gennaio 2008, a causa dell’abnorme traffico telefonico rilevato nei tabulati telefonici per il periodo febbraio/luglio 2007 proveniente dal punto vendita cui la lavoratrice era addetta.

La Corte di Bologna aveva respinto, per quanto qui interessa, le censure relative alla mancata tempestività della contestazione, sostenendo che l’esame analitico dei tabulati telefonici non veniva effettuato in via ordinaria ed era stato svolto soltanto una volta che era emersa l’abnormità del traffico. Aveva altresì ritenuto l’addebito sufficientemente specifico.

Contro la decisione della Corte d’Appello ricorreva in Cassazione la lavoratrice articolando vari motivi e sostenendo, per quanto qui interessa, che la contestazione in esame non era tempestiva né specifica.

In particolare la lavoratrice sosteneva che la contestazione fosse arrivata a quasi un anno dall’inizio della condotta e che tale ritardo non fosse giustificato, non essendo necessarie laboriose attività di accertamento. Rilevava altresì che la contestazione non era sufficientemente specifica poiché prendeva in esame circa 2500 telefonate, con riferimento ai tabulati telefonici rilevanti, omettendo la specificazione delle chiamate disciplinarmente rilevanti e particolari importanti quali ad es. il fatto che alcune di queste fossero state fatte durante assenze della dipendente o comunque verso clienti, fornitori o altri punti vendita.

La Corte di Cassazione ha ritenuto infondate le censure della lavoratrice e rigettato l’intero ricorso.

Quanto alla tempestività della contestazione la Suprema Corte ha affermato che « il datore di lavoro ha il potere ma non l'obbligo, di controllare in modo continuo i propri dipendenti, contestando loro immediatamente qualsiasi infrazione al fine di evitarne un possibile aggravamento, atteso che un simile obbligo, non previsto dalla legge né desumibile dai principi di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., negherebbe in radice il carattere fiduciario del lavoro subordinato, sicché la tempestività della contestazione disciplinare va valutata non in relazione al momento in cui il datore avrebbe potuto accorgersi dell'infrazione ove avesse controllato assiduamente l'operato del dipendente, ma con riguardo all'epoca in cui ne abbia acquisito piena conoscenza».

Nel caso di specie la conoscenza delle infrazioni è avvenuta con i controlli a campione eseguiti alla fine dell’anno 2007. Gli stessi erano stati effettuati anche sul punto vendita cui era addetta la lavoratrice proprio a causa delle anomalie riscontrate in corso d’anno in relazione al traffico telefonico proveniente dallo stesso. Conseguentemente, secondo la Suprema Corte, la Corte di Bologna ha correttamente ritenuto la contestazione tempestiva.

Quanto invece alla genericità della contestazione, la Cassazione ha ribadito un orientamento già espresso in pronunce precedenti secondo il quale la contestazione disciplinare non deve seguire schemi prefissati e «il tenore complessivo della contestazione, ove riferita a molteplici fatti, deve essere tale da consentire al lavoratore di individuare nella loro materialità quelli nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari (o comunque comportamenti contrari ai doveri di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c. ), di comprendere l'accusa rivoltagli e di esercitare il diritto di difesa».

La Suprema Corte ha quindi ritenuto non soltanto che nel caso in esame fosse ammissibile la contestazione con riferimento ai tabulati telefonici (per relationem) ma che la stessa fosse sufficientemente specifica da permettere alla lavoratrice di comprendere l’infrazione contestata ed esercitare il proprio diritto di difesa.

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