Contenzioso

Rassegna della cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Dimissioni rassegnate entro un anno dal matrimonio
Legittimazione ad agire dei sindacati ai sensi dell'art. 28 St. Lav.
Proroga del termine per irrogare la sanzione disciplinare
Licenziamento del dipendente che denuncia il datore di lavoro
Sulla proporzionalità della sanzione disciplinare

Dimissioni rassegnate entro un anno dal matrimonio

Cass. Sez. Lav. 29 settembre 2017, n. 22913

Pres. Nobile; Rel. Leo; P.M. Celentano; Ric. A.I.; Controric. S.N.A. D. L.C. e D. G.D.C.;

Dimissioni rassegnate entro un anno dal matrimonio - Invalidità -  Diritto alle retribuzioni - Decorrenza dalla data di offerta della prestazione di lavoro - Sussiste

In caso di dimissioni rassegnate entro l’anno dal matrimonio, non confermate dinanzi alla Direzione Provinciale del lavoro, la dipendente allontanatasi dal lavoro ha diritto alle retribuzioni soltanto dal momento in cui, facendo valere la nullità del recesso e la perdurante validità del rapporto di lavoro, offra nuovamente la propria prestazione lavorativa.

Nota

Il Tribunale di Roma, pronunciandosi sul ricorso proposto dalla lavoratrice volto ad ottenere l’accertamento della nullità delle dimissioni  rassegnate entro un anno dal matrimonio ed il pagamento delle somme spettanti, accertava e dichiarava la nullità delle predette dimissioni per violazione dell’art. 1 della legge n. 7 del 1963 e condannava la parte resistente a riassumere la lavoratrice ed a corrisponderle le retribuzioni maturate dalla data dalle dimissioni sino alla reintegrazione nel posto di lavoro.

La Corte territoriale, in parziale accoglimento del gravame proposto dalla parte datoriale, riformava la sentenza relativamente al quantum dovuto alla lavoratrice condannando il datore di lavoro a versarle le retribuzioni mensili maturate dalla data di notifica del ricorso sino alla cessazione del rapporto di lavoro, avvenuta, ancora una volta, per dimissioni rassegnate in data 9.11.2006.

Avverso tale pronuncia proponeva ricorso la dipendente sulla base di due motivi. Resisteva con controricorso incidentale la parte datoriale sulla base di un unico motivo.

In particolare, la lavoratrice denunciava la violazione e falsa applicazione della norma di cui all’art. 1 della legge n. 7 del 1963, lamentando la omessa interpretazione sistematica della norma in esame, in raccordo con l’espressa disciplina posta dall’art. 55 del D.Lgs. n. 151/200 per le dimissioni rassegnate dalla lavoratrice entro l’anno dalla nascita del figlio. 

La Suprema Corte rigettava il ricorso. Dopo aver escluso l’applicabilità, nella specie, della disciplina di cui all’art. 55 del D.Lgs. n. 151/2001, prevista per la diversa fattispecie delle dimissioni rassegnate dalla lavoratrice entro l’anno della nascita dal figlio, la Corte ha rilevato che, come correttamente statuito dalla Corte territoriale, in caso di dimissioni rassegnate entro l’anno dal matrimonio, non confermate dinanzi alla Direzione Provinciale del lavoro, la dipendente allontanatasi dal lavoro ha diritto alle retribuzioni soltanto dal momento in cui, facendo valere la nullità del recesso e la perdurante validità del rapporto di lavoro, offra nuovamente al datore di lavoro la propria prestazione lavorativa (in tal senso, cfr. Cass. 4 gennaio 2007, n. 25; Cass. 17 magio 2011, n. 10817). 

Con l’unico motivo del ricorso incidentale la parte datoriale denunciava omessa o insufficiente motivazione circa un fatto decisivo della controversia, in relazione all’applicazione dell’art. 1 della legge n. 7 del 1963. Nello specifico, il datore di lavoro lamentava la mancata valutazione, da parte della Corte territoriale, del contenuto della lettera del 18.4.2003 di richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione,  con la quale la lavoratrice aveva dedotto la sussistenza della giusta causa di dimissioni, ai fini del riconoscimento della indennità sostitutiva del preavviso. Ad avviso della parte datoriale, considerato il tenore della missiva in oggetto, la stessa non poteva che essere interpretata alla stregua di una espressa conferma della spontanea volontà della dipendente di recedere dal rapporto di lavoro. 

La Suprema Corte rigettava anche il ricorso incidentale affermando che la sentenza di appello doveva ritenersi incensurabile nella parte in cui, con accertamento di fatto congruamente motivato e conforme a diritto, aveva ritenuto che il comportamento posto in essere dalla lavoratrice - la quale, dopo aver dedotto la sussistenza della giusta causa di recesso ai fini del riconoscimento dell’indennità sostitutiva del preavviso, aveva impugnato le dimissioni, allo scopo di ottenere il ripristino del rapporto di lavoro, soltanto con la notifica del ricorso ex art. 414 c.p.c. avvenuta a distanza di circa tre anni dal matrimonio - se per un verso non determinava la ratifica delle dimissioni rassegnate, assumeva rilevanza ai fini del diritto alle retribuzioni, che dovevano ritenersi spettanti dalla data di messa in mora tramite la notifica del ricorso, sino alla cessazione del rapporto di lavoro avvenuta per le dimissioni nuovamente rassegnate in data 9.11.2006. 

 

Legittimazione ad agire dei sindacati ai sensi dell’art. 28 St. Lav.

Cass. Sez. Lav. 2 agosto 2017, n. 19272

Pres. Bronzini; Rel. Balestrieri; P.M. Servello; Ric. S. S.p.A.; Controric. S.L.A.I.;

Lavoro subordinato - Associazioni sindacali - Libertà sindacale - Repressione della condotta antisindacale - Art. 28 Statuto Lavoratori - Legittimazione attiva - Attribuzione alle associazioni sindacali a diffusione nazionale - Requisiti - Sottoscrizione dei contratti collettivi nazionali - Esclusione

L'azione per la repressione della condotta antisindacale ex art. 28 dello statuto dei lavoratori, L. n. 300/1970, può essere promossa dall'associazione sindacale nazionale, intendendosi per tale quella dotata di struttura organizzativa a livello nazionale e svolgente attività sindacale su tutto o su ampia parte del territorio nazionale, mentre non è necessaria la sottoscrizione dei contratti collettivi nazionali.

Nota

Il caso di specie riguarda la legittimazione ad agire dei sindacati per promuovere l’azione per la repressione della condotta antisindacale ex art. 28 dello Statuto dei Lavoratori. Nello specifico, il caso riguarda un’azione avanzata da una sigla sindacale contro una società per non avergli accreditato le quote associative sindacali relative ad alcuni dipendenti. 

La condotta della società era stata ritenuta antisindacale sia in primo che secondo grado.

Ricorre per Cassazione la società, deducendo la violazione e falsa applicazione dell’art. 28 dello Statuto dei Lavoratori, nonché difetto di motivazione in ordine al necessario requisito della “nazionalità” dell'organizzazione sindacale, riconosciuto dai giudici del merito.

La Corte di Cassazione ha ritenuto il ricorso infondato, affermando innanzitutto che, ai fini della legittimazione a promuovere l'azione prevista dall’art. 28 St. Lav., per "associazioni sindacali nazionali" devono intendersi le associazioni che abbiano una struttura organizzativa articolata a livello nazionale e che svolgano attività sindacale su tutto o su ampia parte del territorio nazionale, non potendo il requisito della “nazionalità” desumersi da dati meramente formali e da una dimensione statica,  puramente organizzativa e strutturale, dell'associazione, mentre non è necessaria la sottoscrizione dei contratti collettivi nazionali, che rimane, comunque, un indice tipico - ma non l'unico - rilevante ai fini della individuazione del requisito della nazionalità (cfr. in tal senso anche Cass. n. 17915/2017, Cass. n. 12855/2014 e Cass. n. 21941/2012).

In breve, ciò che rileva è la diffusione a livello nazionale del sindacato, essendo necessario e sufficiente a tal fine lo svolgimento di un'effettiva azione su gran parte del territorio nazionale, senza che in proposito sia indispensabile cha l'associazione faccia parte di una confederazione né che sia maggiormente rappresentativa (così Cass. S.U. n. 28269/2005).

Non deve inoltre confondersi, prosegue la Corte, la legittimazione ai fini dell’art. 28 cit. con i requisiti richiesti dall'art. 19 St. Lav. per la costituzione di rappresentanze sindacali; l'art. 19, a questo specifico fine, richiede infatti la sottoscrizione di contratti collettivi nazionali (o anche provinciali o aziendali, purché applicati in azienda), oppure, in seguito all’intervento additivo della Corte Costituzionale con sentenza n. 231/13, la partecipazione del sindacato alla negoziazione relativa agli stessi contratti, mentre l'art. 28 non prevede analogo requisito, ma richiede esclusivamente che l'associazione sia “nazionale”. 

Del resto, l'art. 28 cit. riconosce la legittimazione ad agire per la repressione della condotta antisindacale non già a tutte le associazioni sindacali, ma solo agli "organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse", poiché con tale disposizione il legislatore ha dettato una disciplina differenziata, operando una distinzione tra associazioni sindacali che hanno accesso anche a questo strumento processuale di tutela rafforzata dell'attività sindacale e altre associazioni sindacali che hanno accesso solo alla tutela ordinaria attivabile ex art. 414 c.p.c. ss. Anche la Corte Costituzionale (v. sentenza n. 89/95) ha riconosciuto la legittimità di questa scelta, rimarcando che il procedimento di repressione della condotta antisindacale si aggiunge alle tutele già assicurate alle associazioni sindacali e rappresenta un mezzo ulteriore per garantire in modo particolarmente rapido ed efficace i diritti del sindacato.

Ciò premesso, l’accertamento di fatto relativo al requisito di rappresentatività necessario per l'accesso alla tutela prevista dall'art. 28 dello Statuto costituisce indagine demandata al giudice di merito e, pertanto, è incensurabile, in sede di legittimità, ove assistita da sufficiente motivazione. 

Ebbene, la Corte di merito ha fatto corretta applicazione dei principi sopra richiamati in quanto ha ritenuto sussistente il requisito della nazionalità del sindacato ricorrente sulla scorta di una serie di elementi, tra cui anche l’aver sottoscritto numerosi accordi a tutti i livelli con società di rilievo e diffusione nazionale. 

Il ricorso per cassazione, in sostanza, propone una diversa valutazione del quadro probatorio che non è consentita in sede di legittimità, quando, come nel caso in esame, la motivazione sia adeguata. Per tali motivi, la Corte di Cassazione ha concluso per il rigetto del ricorso.

Proroga del termine per irrogare la sanzione disciplinare  

Cass. Sez. Lav. 22 settembre 2017, n. 22171  

Pres. Macioce; Rel. Di Paolantonio; P.M. Celeste; Ric. M.F.; Controric. A. S.r.l.;

Procedimento disciplinare - Art. 227 CCNL del settore commercio - Proroga del termine per irrogare la sanzione - Necessità di indicazione delle ragioni della proroga - Esclusione - Tempestività della comunicazione di proroga - Rileva la data di spedizione    

L'art. 227 del contratto collettivo del commercio – che impone al datore di lavoro di irrogare la sanzione disciplinare entro 15 giorni dalla scadenza del termine assegnato al lavoratore per rendere le giustificazioni, termine prorogabile di ulteriori 30 giorni, per esigenze dovute a difficoltà nella fase di valutazione delle controdeduzioni e di decisione nel merito, purché l'azienda ne dia preventiva comunicazione scritta al lavoratore – deve essere inteso nel senso che il datore di lavoro, ove intenda prorogare il termine per l’irrogazione della sanzione, è tenuto ad inviare al lavoratore la relativa comunicazione, senza necessità di specificarne le ragioni, entro il termine di 15 giorni, a nulla rilevando che tale dichiarazione recettizia sia portata a conoscenza del lavoratore successivamente alla scadenza di quel termine.

Nota  

Un dipendente veniva licenziato per giusta causa per non aver immediatamente versato al proprio datore di lavoro l’importo di € 503,38 incassato da un cliente. In sede di giustificazioni, il lavoratore aveva ammesso l’addebito invocando a scusante del ritardo «gravi motivi familiari».

Il giudice di prime cure aveva accolto il ricorso del lavoratore per difetto di proporzionalità tra il fatto contestato e la sanzione disciplinare.

La Corte d’Appello di Cagliari, in accoglimento dell’impugnazione promossa dalla società, accertava la sussistenza di una giusta causa di recesso ritenendo la condotta contestata di gravità tale da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario e considerando irrilevanti sia l’esiguità della somma, sia l’assenza di un danno economico per il datore di lavoro.

La Corte aveva poi disatteso l’eccezione, riproposta dal lavoratore con appello incidentale condizionato, di decadenza dall’irrogazione della sanzione ai sensi dell’art. 227 CCNL del settore commercio (applicato al rapporto de quo), in quanto il legale rappresentante della società, in sede di interrogatorio libero, aveva dichiarato che la proroga del termine per irrogare la sanzione era finalizzata a verificare se si trattasse di un caso isolato. 

Il dipendente ricorreva in Cassazione; la società resisteva con controricorso.

Tra i vari motivi di ricorso, il lavoratore lamentava violazione e falsa applicazione dell’art. 227 CCNL sostenendo l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui era stata considerata legittima la proroga del termine per irrogare la sanzione disciplinare, nonostante il datore di lavoro non avesse precisato le ragioni della stessa. Il ricorrente lamentava altresì l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio poiché la Corte territoriale non aveva considerato che la lettera di proroga gli era stata consegnata a mani solo al momento dell’intimazione del licenziamento.

L’art 227 CCNL del settore commercio dispone che «L’eventuale adozione del provvedimento disciplinare dovrà essere comunicata al lavoratore entro 15 giorni dalla scadenza del termine assegnato al lavoratore stesso per presentare le sue controdeduzioni. Per esigenze dovute a difficoltà nella fase di valutazione delle controdeduzioni e di decisione nel merito, il termine di cui sopra può essere prorogato di 30 giorni, purché l'azienda ne dia preventiva comunicazione scritta al lavoratore interessato».

La Corte di Cassazione ha ritenuto infondata la doglianza relativa all’omessa specificazione delle ragioni legittimanti la proroga, posto che la clausola contrattuale è chiara nell’imporre al datore di lavoro solo un obbligo di preventiva comunicazione,  senza richiede che nella stessa vengano anche precisati i motivi che rendono necessaria o opportuna la proroga per meglio valutare le giustificazioni ed eventualmente per acquisire ulteriori elementi utili ai fini della decisione.

La Suprema Corte, dopo aver affermato che il richiamato art. 227 esclude che il datore di lavoro possa manifestare la volontà di differire il termine di irrogazione della sanzione dopo la scadenza dello stesso, ha accolto il motivo di ricorso relativo all’omesso esame della data di invio/consegna della lettera di proroga, cassando con rinvio la sentenza impugnata.

A tal fine, la Corte ha ribadito il principio di diritto (recentemente affermato con riferimento alla comunicazione di recesso da Cass. 22295/2017) secondo cui affinché la proroga possa essere validamente disposta è necessario che, prima dello spirare del termine per l’irrogazione della sanzione, il datore di lavoro manifesti per iscritto la volontà di avvalersi del prolungamento ed entro il medesimo termine, ove non provveda alla consegna dell'atto, avvii la procedura di comunicazione mediante consegna al soggetto incaricato di curarne il recapito.

Principio che deve trovare applicazione ogniqualvolta nell'ambito del procedimento disciplinare il momento della esternazione della volontà non coincide con quello della conoscenza da parte del destinatario, perché diversamente risulterebbe intaccato il parametro di ragionevolezza ed uguaglianza formale e sostanziale tra i soggetti coinvolti.


Licenziamento del dipendente che denuncia il datore di lavoro 

Cass. Sez. Lav. 26 settembre 2017, n. 22375

Pres. Macioce; Rel. Torrice; P.M. Celeste; Ric. D.A.M.; Controric. C.E. s.r.l..;

Denuncia penale contro il datore di lavoro - Giusta causa di licenziamento - Carattere calunnioso della denuncia - Consapevolezza del dipendente della non veridicità dell’illecito denunziato -  Necessità - Limiti al diritto di critica - Esclusione

Non integra giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento la condotta del lavoratore che denunci all'autorità giudiziaria competente fatti di reato commessi dal datore di lavoro, a meno che non risulti il carattere calunnioso della denuncia o la consapevolezza della insussistenza dell'illecito, e sempre che il lavoratore si sia astenuto da iniziative volte a dare pubblicità a quanto portato a conoscenza delle autorità competenti

Nota

La Corte d’Appello di Bologna, nel confermare la sentenza di primo grado, ha rigettato l’impugnativa di una lavoratrice licenziata per giusta causa a cagione della presentazione di una denuncia querela nei confronti del legale rappresentante per accuse risultate non veritiere.  I giudici del gravame, premesso che il diritto di critica deve essere esercitato nel rispetto dei limiti fissati dal principio di continenza formale e sostanziale e della "verità quanto meno opinata", hanno ritenuto che siffatti limiti fossero stati nel caso di specie travalicati, con conseguente legittimità del recesso per giusta causa per tale ragione intimato.

Avverso tale decisione la lavoratrice ha proposto ricorso per Cassazione affidato a cinque motivi. 

Per quanto qui rileva, la Suprema Corte, nell’accogliere il terzo e quarto motivo di ricorso, ha cassato la decisione di appello rinviando ad altro giudice per un nuovo esame sulla base del principio di diritto di cui alla massima, già enunciato in recenti precedenti (Cass. 16 febbraio 2017, n. 4125; Cass. 8 luglio 2015, n. 14249; Cass. 14 marzo 2013, n. 6501). La Cassazione ribadisce che l’obbligo di fedeltà di cui all'art. 2105 c.c. non può essere esteso sino a imporre al lavoratore di astenersi dalla denuncia di fatti illeciti che ritenga essere stati consumati all'interno dell'azienda, giacché in tal caso "si correrebbe il rischio di scivolare verso - non voluti, ma impliciti - riconoscimenti di una sorta di "dovere di omertà". Lo Stato attribuisce, infatti, valore civico e sociale all'iniziativa del privato che solleciti l'intervento dell'autorità giudiziaria di fronte alla violazione della legge penale e guarda con favore la collaborazione prestata dal cittadino, in quanto finalizzata alla realizzazione dell'interesse pubblico alla repressione dei fatti illeciti. Conseguentemente - prosegue la Corte - l'esercizio del potere di denuncia, riconosciuto dall'art. 333 c.p.p., non può essere fonte di responsabilità, se non qualora il privato vi faccia ricorso in maniera strumentale e distorta, ovvero agendo con la consapevolezza della insussistenza dell'illecito o della estraneità allo stesso dell'incolpato (Cass. pen. 11 giugno 2010, n. 29237; Cass. 10 giugno 2016, n. 11898). Qualora il cittadino potesse essere chiamato a rispondere delle conseguenze pregiudizievoli prodottesi a seguito di denunce che, sebbene inesatte o infondate, siano state presentate senza alcun intento calunnioso, verrebbe scoraggiata la sua collaborazione. Partendo, invece dalla prevalenza e superiorità degli evidenziati interessi pubblici, la Cassazione esclude che, nell'ambito del rapporto di lavoro, la sola denuncia all'autorità giudiziaria di fatti astrattamente integranti ipotesi di reato, possa essere fonte di responsabilità disciplinare e giustificare il licenziamento per giusta causa del dipendente denunciante, a meno che non si provi che l'iniziativa sia stata strumentalmente presa nella consapevolezza della insussistenza del fatto o della assenza di responsabilità del datore. Perché possa sorgere la responsabilità disciplinare non basta, quindi, che la denuncia si riveli infondata e che il procedimento penale venga definito con la archiviazione o assoluzione, trattandosi di circostanze non sufficienti a dimostrare il carattere calunnioso della denuncia stessa.

Alla luce di tali considerazioni la Suprema Corte ritiene errata la valutazione della fattispecie compiuta nella sentenza di appello, avendo i giudici del gravame preso come riferimento per la valutazione del recesso in esame l’esercizio del diritto di critica, ritenendone travalicati i limiti. Secondo la Cassazione, infatti, qui, a differenza del diritto di critica, non rilevano i limiti della continenza sostanziale e formale, superati i quali la condotta assume carattere diffamatorio, e, quindi, può avere rilevanza disciplinare, giacché ogni denuncia penale implica l’accusa di aver tenuto una condotta obiettivamente disonorevole e offensiva della reputazione dell'incolpato (Cass. 16 febbraio 2017, n. 4125; Cass. 20 ottobre 2003, n. 15646). La sentenza viene, pertanto cassata nella parte in cui la Corte territoriale ha ritenuto violati gli obblighi di fedeltà e diligenza per il fatto che le accuse avevano violato il principio di continenza, senza, invece, accertare l’eventuale sussistenza di elementi rivelatori del carattere calunnioso della denuncia o della consapevolezza da parte dell’autore della insussistenza dell'illecito.


Sulla proporzionalità della sanzione disciplinare

Cass. Sez. Lav. 15 settembre 2017, n. 21506

Pres. Nobile; Rel. Negli della Torre; P.M. Ceroni; Ric. C.G.; Controric. P.S.

Lavoro subordinato - Licenziamento disciplinare - Giusta causa - Giudizio di proporzionalità - Fattispecie concreta - Accertamento in fatto

La proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità dei fatti contestati deve sussistere in sede di irrogazione della sanzione da parte del datore nell'esercizio del suo potere disciplinare, avuto riguardo alle ragioni che lo hanno indotto a ritenere grave il comportamento del dipendente.

Nota

La Corte d'Appello di Lecce ha respinto l'appello promosso dal dipendente confermando la sentenza di primo grado che aveva accertato la legittimità del licenziamento per giusta causa. Nel caso di specie il dipendente era stato trovato dal Nucleo Operativo Ecologico del Carabinieri con l’autocarro aziendale presso una ditta di rottamazioni industriali con la vettura colma di materiale di scarto.

La corte d'Appello e il tribunale hanno ritenuto la condotta addebitata al dipendente di particolare gravità, avendo questi prelevato in orario di lavoro e con automezzo aziendale, rifiuti speciali provenienti da azienda privata, appaltatrice della datrice di lavoro. 

Avverso la sentenza della corte di Appello ha proposto ricorso in Cassazione il dipendente contestando che la corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto sussistente la giusta causa di recesso e quindi la proporzionalità della sanzione espulsiva. Secondo il ricorrente dalle testimonianze raccolte sarebbe emerso che tutti gli operai raccoglievano qualsiasi rifiuto rinvenuto nei cassonetti e anche fuori dagli stessi e lasciati abbandonati per strada. Ciò secondo il ricorrente faceva venir meno la estrema gravità ritenuta dalla corte. Inoltre per il ricorrente la propria condotta non rientrava tra quelle per cui il CCNL adottato dalla società prevede una sanzione espulsiva. 

La Cassazione ha rigettato il ricorso. 

Per la Suprema Corte il giudizio di proporzionalità tra l'addebito contestato e la sanzione adottata che si sostanzia nella valutazione della gravità dell'inadempimento del lavoratore e dell'adeguatezza della sanzione, è devoluto al giudice del merito, con valutazione incensurabile, a meno che si tratti di motivazione illogica.

Nel caso in esame, rileva la Cassazione, la corte ha motivato ampiamente e adeguatamente la gravità del comportamento con riferimento alle modalità della condotta tenuta dal dipendente, recatosi a prelevare rifiuti speciali presso una ditta privata, non compresa nella zona assegnatagli, in orario di lavoro con l'automezzo di proprietà del datore di lavoro.

Infine, aggiunge la Suprema Corte, le previsioni del CCNL che prevedono ipotesi di giusta causa non sono vincolanti. Tale principio trova conferma nel caso in esame, in cui la norma del CCNL applicato adotta una nozione elastica di giusta causa, precisando che il licenziamento senza preavviso si applica in caso di «mancanze relative a doveri, anche non particolarmente richiamati nel presente contratto, le quali siano di tale entità da non consentire la prosecuzione anche provvisoria del rapporto di lavoro».

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