Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Lettera di licenziamento e decadenza dal potere disciplinare
Sullo svolgimento di altra attività lavorativa durante la malattia
Licenziamento per giusta causa
Differenza tra una quietanza a saldo e una rinuncia efficace
Nozione di trasferimento d'azienda

Lettera di licenziamento e decadenza dal potere disciplinare

Cass. Sez. Lav. 25 settembre 2017, n. 22295

Pres. Macioce; Rel. Boghetich; P.M. Celeste; Ric. F. I. S.p.A.; Controric. P.G.;

Licenziamento - Decadenza - Art. 23 CCNL settore Metalmeccanici - Termine di sei giorni per l’irrogazione della sanzione - Spedizione del provvedimento espulsivo entro il termine - Non sussiste

L’art. 23 del CCNL Industria Metalmeccanica - che prevede un termine massimo di sei giorni dal ricevimento delle giustificazioni del lavoratore, entro il quale deve essere adottata la sanzione - va inteso nel senso che il termine di perfezionamento dell’atto deve essere necessariamente fatto coincidere con la spedizione della lettera contenente l’irrogazione della sanzione.

Nota

La Corte di Appello di Napoli confermava la sentenza di primo grado che aveva dichiarato inefficace il licenziamento intimato alla lavoratrice, in quanto comunicato oltre il termine decadenziale di 6 giorni dal ricevimento delle giustificazioni, previsto dall’art. 23 del CCNL settore Metalmeccanici. 

La Corte di appello ha osservato che la prima comunicazione di licenziamento, spedita dalla società il 15.1.2008, doveva ritenersi inidonea ad evitare la decadenza dal potere disciplinare, in quanto non pervenuta al domicilio della lavoratrice. Ed infatti, secondo quanto sostenuto dalla Corte territoriale, la variazione del domicilio della lavoratrice doveva considerarsi acquisita dalla società mediante la comunicazione che la stessa lavoratrice aveva effettuato per manifestare la propria volontà di mantenere il trattamento di fine rapporto in azienda (comunicazione sulla quale risultava riportato il nuovo indirizzo della dipendente). 

Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione la società, fondato su due motivi. 

In particolare, la società deduceva che la Corte territoriale aveva erroneamente interpretato la lettera di comunicazione dell’opzione per il mantenimento in azienda del trattamento di fine rapporto, dovendosi ritenere gravante sulla lavoratrice l’obbligo di effettuare una comunicazione specifica di cambio di residenza, come previsto dalla contrattazione collettiva. 

Inoltre, la società censurava la sentenza di appello per violazione e falsa applicazione dell’art. 23 del CCNL Metalmeccanici, nella parte in cui la Corte territoriale non aveva considerato che per potersi ritenere rispettato il termine decadenziale di sei giorni dal ricevimento delle giustificazioni - entro cui deve essere comminato il provvedimento disciplinare - è sufficiente che entro detto termine il provvedimento espulsivo venga spedito, e non anche che sia ricevuto dal destinatario. 

La Suprema Corte ha accolto il ricorso. 

I giudici di legittimità hanno innanzitutto affermato che l’art. 23 del CCNL per gli addetti all’Industria Metalmeccanica richiede una specifica ed espressa comunicazione scritta del lavoratore tesa ad informare il datore di lavoro del cambiamento di domicilio. Per tale ragione la Suprema Corte ha ritenuto la lettera con la quale la lavoratrice aveva espresso la propria volontà di mantenere in azienda il trattamento di fine rapporto fosse inidonea ad assolvere al suddetto obbligo di comunicazione.

La Suprema Corte, inoltre, muovendo dal principio generale dell’ordinamento, in materia di decadenza processuale, di scissione fra i due momenti di perfezionamento della notificazione degli atti, ha affermato che l’art. 23 del CCNL Industria Metalmeccanica – che prevede un termine massimo di sei giorni dal ricevimento delle giustificazioni del lavoratore, entro il quale deve essere adottata la sanzione – va inteso nel senso che il termine di perfezionamento dell’atto deve essere necessariamente fatto coincidere con la spedizione della lettera contenente l’irrogazione della sanzione, in conformità con la giurisprudenza di legittimità (Cass. 20 marzo 2015, n. 5714; Cass. 10 settembre 2012, n. 15102; Cass. 8 giugno 2011, n. 12457; Cass. 2 marzo 2011, n. 5093; Cass. 4 ottobre 2010, n. 20566; Cass. 5 agosto 2003, n. 11833). 

Pertanto, la Suprema Corte ha ritenuto che i giudici di appello non si fossero conformati al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, in materia di interpretazione dell’art. 23 del CCNL settore Metalmeccanici, in base al quale il termine  stabilito dal succitato art. 23 del CCNL di sei giorni dal ricevimento delle giustificazioni del lavoratore, entro cui comminare i provvedimenti disciplinari diversi dal richiamo verbale, deve ritenersi rispettato con la spedizione della lettera contenente l’irrogazione della sanzione. 

 

Sullo svolgimento di altra attività lavorativa durante la malattia

Cass. Sez. Lav. 19 settembre 2017, n. 21667

 Pres. Macioce; Rel. Tricomi; P.M. Celeste; Ric. C.M.S. S.p.A.; Controric. F.A.;

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Dipendente assente per malattia - Svolgimento contestuale di altra attività lavorativa - Giusta causa di recesso - Configurabilità - Condizioni - Fattispecie

Lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia è idonea a giustificare il recesso del datore di lavoro per violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà ove tale attività, prestata o meno a titolo oneroso, sia per sé sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una sua fraudolente simulazione, ovvero quando, valutata in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, l'attività stessa possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore.

Nota

Il caso di specie riguarda il licenziamento di un lavoratore che, durante un periodo di assenza per malattia in seguito ad un infortunio sul lavoro, aveva svolto attività che, a detta della società, erano indicative di una simulazione della malattia stessa.

Il licenziamento veniva dichiarato legittimo in primo grado, mentre la Corte d’Appello accoglieva l’impugnazione del lavoratore, rilevando che, sulla base della documentazione e delle prove testimoniali assunte in primo grado, non si poteva giungere alla conclusione che l’attività “lavorativa” svolta dal dipendente - durante la malattia - presso l’esercizio commerciale del figlio (consistente in apertura e chiusura delle serrande del negozio con dispositivo elettronico, spostamento di piccoli vasi, etc.) fosse indicativa di una simulazione della malattia stessa. 

La Corte di Cassazione, adita dalla società, ha innanzitutto ribadito il principio consolidato secondo cui lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia è idoneo a giustificare il recesso del datore di lavoro per violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà ove tale attività esterna, prestata o meno a titolo oneroso, sia per sé sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una sua fraudolenta simulazione, ovvero quando, valutata in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, l’attività stessa possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore (v. ex plurimis Cass. n. 17625/2014 e Cass. n. 24812/2016).

Inoltre, l’espletamento di attività extra-lavorativa durante il periodo di assenza per malattia costituisce illecito disciplinare non solo se da tale comportamento derivi un’effettiva impossibilità temporanea della ripresa del lavoro, ma anche quando la ripresa sia anche solo messa in pericolo dalla condotta imprudente del lavoratore (v. Cass. n. 16465/2015), con una valutazione di idoneità che deve essere svolta necessariamente ex ante. 

Ciò premesso, la Corte ha affermato che la soluzione concreta delle singole controversie è ovviamente condizionata dall’accertamento compiuto dai giudici di merito che, laddove adeguato e congruamente motivato, è incensurabile in sede di legittimità. 

Ebbene, nel caso di specie la Corte d’Appello, con adeguata valutazione delle risultanze fattuali, ha ritenuto che le attività svolte dal dipendente, durante il periodo di assenza, non fossero indicative di simulazione della malattia diagnosticata e non integrassero violazione di buona fede e correttezza né degli obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, atteso che non ne ritardavano la guarigione o impedivano il recupero delle energie lavorative. 

Per tali motivi, la Corte di Cassazione ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Licenziamento per giusta causa 

Cass. Sez. Lav. 15 settembre 2017, n. 21506

Pres. Nobile; Rel. Negli della Torre; P.M. Ceroni; Ric. C.G.; Controric. P.S.;

Lavoro subordinato - Licenziamento disciplinare - Giusta causa - Giudizio di proporzionalità - Fattispecie concreta - Accertamento in fatto

Il giudizio di proporzionalità tra fatto addebitato al lavoratore e licenziamento disciplinare non va effettuato in astratto, bensì con specifico riferimento a tutte le circostanze del caso concreto, all'entità della mancanza, ai moventi, all'intensità dell'elemento intenzionale e al grado di quello colposo; tale giudizio, risolvendosi in un accertamento di fatto, è incensurabile in sede di legittimità se sorretto da adeguata e logica motivazione. 

Nota

Il Tribunale di Catania rigettava la domanda d’illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato dalla società per avere il dipendente rivolto ad uno dei titolari minacce ed ingiurie alla presenza di clienti e colleghi. La Corte di appello di Catania respingeva il ricorso del dipendente e confermava la sentenza di primo grado.

Per la Corte, i fatti oggetto di contestazione erano stati dimostrati e la sanzione espulsiva era proporzionata, considerata la reazione del dipendente a seguito di diverbio originato dalla consegna di un assegno bancario, quale retribuzione del precedente mese di luglio, solo nel pomeriggio di venerdì a banche ormai chiuse.

Avverso la sentenza della Corte di appello ha proposto ricorso in Cassazione il dipendente contestando la violazione del principio di proporzionalità tra fatto contestato e sanzione.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

Per la Cassazione, infatti, il giudizio di proporzionalità tra condotta contestata e licenziamento disciplinare va svolto facendo specifico riferimento al caso concreto, all'entità della mancanza (considerata non solo da un punto di vista oggettivo, ma anche nella sua portata soggettiva e in relazione al contesto in cui essa è stata posta in essere), all'intensità dell'elemento intenzionale e al grado di quello colposo.

Con riferimento al caso in esame, per la Cassazione, la Corte di merito ha correttamente ritenuto la sussistenza della giusta causa di licenziamento e della proporzionalità tra fatto e sanzione espulsiva sulla base di un'ampia e articolata ricostruzione della fattispecie prendendo in esame e valutando gli elementi oggettivi e l’antefatto dell'episodio stesso. Dall’analisi di questi elementi era risultata chiara l’irrimediabile lesione del vincolo fiduciario che deve permanere tra datore di lavoro e lavoratore e il disvalore ambientale della condotta addebitata, idonea ad assurgere per i dipendenti più giovani a modello diseducativo e disincentivante dall'adempimento degli obblighi di lavoro e di reciproco rispetto.

Differenza tra una quietanza a saldo e una rinuncia efficace

Cass. Sez. Lav. 8 settembre 2017, n. 20976

Pres. Bronzini; Rel. De Gregorio; P.M. Servello; Ric. D.S.; Controric. E.D. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Rinunzie e transazioni - Quietanza a saldo - Efficacia di rinuncia - Condizioni - Consapevolezza dell'esistenza di diritti determinati o determinabili  e volontà transattiva - Insussistenza

La quietanza a saldo sottoscritta dal lavoratore ove contenga una dichiarazione di rinuncia riferita, in termini generici, ad una serie di titoli in astratto ipotizzabili in relazione alla prestazione di lavoro subordinato e alla conclusione del relativo rapporto, può assumere il valore di rinuncia o di transazione a condizione che risulti accertato, sulla base dell'interpretazione del documento o per il concorso di altre specifiche circostanze desumibili anche aliunde, che essa sia stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati od obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi, poiché enunciazioni di tal genere sono assimilabili alle clausole di stile e sono, di per sé, insufficienti a comprovare l'effettiva sussistenza di una volontà dispositiva dell'interessato.

Nota

Un dipendente sottoscriveva un accordo di risoluzione consensuale del proprio rapporto di lavoro in forza del quale l’azienda gli aveva corrisposto un importo a titolo transattivo «al solo fine di evitare qualsiasi rischio di eventuali controversie che dovessero coinvolgere il calcolo della indennità di anzianità al 31 maggio 1982 e del trattamento di fine rapporto nel suo complesso». Tre anni dopo la cessazione del rapporto, il lavoratore conveniva in giudizio il proprio datore di lavoro, deducendo di aver prestato lavoro straordinario in via continuativa, per chiedere l’accertamento del diritto alla inclusione della media mensile del compenso per lavoro straordinario nel computo del trattamento di fine rapporto.

La domanda del lavoratore veniva rigettata in primo grado, con sentenza confermata anche in sede di appello. La Corte territoriale riteneva che dall’accordo risultasse evidente la consapevole rinuncia del lavoratore al diritto azionato, con conseguente applicazione dell’art. 2113 c.c. e rigetto della domanda per mancata impugnazione dell’accordo entro il termine decadenziale di sei mesi dalla cessazione del rapporto.

Il lavoratore ricorreva in Cassazione; il datore resisteva con controricorso.

Il ricorrente lamentava violazione e falsa applicazione dell’art. 2113 c.c. sostenendo che la Corte avesse errato nel considerare l’accordo alla stregua di una valida rinuncia, anziché una mera quietanza a saldo, priva di efficacia estintiva del diritto, in quanto carente sia della consapevolezza del diritto, sia della volontà di rinunciarvi.

La Corte di Cassazione, in accoglimento del ricorso, ha cassato con rinvio la sentenza impugnata, ribadendo il principio (già affermato in Cass. 11536/2006) secondo cui la quietanza a saldo sottoscritta dal lavoratore ove contenga una dichiarazione di rinuncia riferita, in termini generici, ad una serie di titoli in astratto ipotizzabili in relazione alla prestazione di lavoro subordinato, può assumere il valore di rinuncia o di transazione solamente a condizione che risulti accertato che essa sia stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati (o comunque determinabili) e con il cosciente intento di rinunciarvi.

La Suprema Corte ha ritenuto che, a fronte della formulazione dell’accordo e, in particolare, del generico richiamo a qualsiasi controversia relativa all’indennità di anzianità e al trattamento di fine rapporto, non poteva dirsi esistente la consapevolezza del diritto da parte del lavoratore. Consapevolezza che non risulta desumibile nemmeno dal pagamento del corrispettivo, la cui previsione non aggiungerebbe nulla sul piano della ricostruzione della volontà del lavoratore.

 

Nozione di trasferimento d’azienda

Cass. Sez. Lav. 17 agosto 20176, n. 20133

Pres. Bronzini; Rel. Cinque; P.M. Matera; Ric. V.M.; Controric. C.C.E s.p.a.;

Trasferimento d’azienda - Ramo aziendale - Nozione - Autonomia preesistente al trasferimento - Necessità 

Anche a seguito del d.lgs. n. 276 del 2003, art. 32, per “ramo d’azienda”, ai sensi dell’art. 2112 c.c., deve intendersi ogni entità economica organizzata la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità presupponendo ciò comunque una preesistente entità produttiva funzionalmente autonoma e non anche una struttura produttiva creata ad hoc in occasione del trasferimento o come tale unicamente identificata dalle parti del negozio traslativo. 

Nota

La fattispecie esaminata dalla Cassazione è piuttosto articolata, presentando una serie di aspetti peculiari, sia sostanziali che processuali, connessi all’intervento di una conciliazione sottoscritta nel corso del giudizio di appello. Per quanto qui di interesse, un lavoratore ha impugnato la cessione di ramo aziendale intervenuta tra due società con passaggio del suo rapporto di lavoro alla cessionaria, sostenendo la nullità del trasferimento. Il Tribunale di Napoli ha rigettato il ricorso e la Corte d’Appello ha confermato la decisione. Dopo un primo giudizio di Cassazione e la successiva fase di rinvio - strettamente attinenti l’intervenuta conciliazione - il lavoratore ha proposto un secondo ricorso per Cassazione, censurando gli aspetti sostanziali della sentenza di appello, laddove ha ritenuto che, nella specie, fosse identificabile un ramo aziendale. In particolare, il ricorrente, ha lamentato un’erronea interpretazione della normativa nazionale e comunitaria laddove si è ritenuto che oggetto della cessione fosse stata un’articolazione funzionalmente autonoma senza considerare che il ramo deve preesistere al momento del trasferimento.

La Suprema Corte rigetta il ricorso e, per quanto di interesse nell’attuale sede, afferma il principio di cui alla massima, già ribadito in precedenti anche recenti (Cass. 15 aprile 2014, n. 8757; Cass. 3 ottobre 2013, n. 22627; Cass. 4 dicembre 2012, n. 21711). Come precisato nelle decisioni richiamate in motivazione, a parere della Cassazione è, infatti, preclusa l’esternalizzazione come forma incontrollata di espulsione di frazioni non coordinate fra loro e di reparti o uffici non autonomi, unificati soltanto dalla  volontà dell’imprenditore e non dall’inerenza del rapporto ad una entità economica dotata di autonoma ed obiettiva funzionalità. 

Ne´, precisa la Suprema Corte, a diverse conclusioni può indurre la sentenza 6 marzo 2014 C-458/12, resa dalla Corte di Giustizia nella causa Lorenzo Amatori e altri, perché tale pronunzia va letta non nel senso che non occorre, ai fini di cui trattasi, il requisito della preesistenza del ramo, bensì che è consentito agli stati membri prevedere una norma che estenda l'obbligo di mantenimento dei diritti dei lavoratori trasferiti anche in caso di non preesistenza del ramo d'azienda. Del resto, osserva la Cassazione, nella medesima sentenza si ribadisce che, ai fini dell'applicazione della direttiva 2001/23, l'entità economica  in  questione  deve  godere,  anteriormente  al trasferimento, di un'autonomia funzionale sufficiente (Cass. 12 giugno 20114, n. 17901).

Secondo la Cassazione, nell’analisi della fattispecie, la Corte di merito si è scrupolosamente attenuta a tali principi, verificando che oggetto del trasferimento era un’attività organizzata funzionalmente autonoma.

Il ricorso viene, quindi rigettato.

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