Contenzioso

Licenziamento nullo se chiude il reparto

di Giampiero Falasca

Non si può licenziare per cessazione dell’attività la lavoratrice madre durante la gravidanza e fino alla fine del primo anno di vita del bambino, se la chiusura addotta come motivo del recesso interessa solo il reparto cui la dipendente è adibita e non si concretizza nella chiusura dell’intera azienda.

E il divieto – che comporta la nullità assoluta dell’atto - si applica anche se il licenziamento viene intimato durante la gravidanza ma la sua efficacia viene differita alla fine del periodo in cui vige la tutela.

Con queste conclusioni la Corte di cassazione ( sentenza 22720/2017, depositata ieri) rafforza l’indirizzo giurisprudenziale, non univoco ma comunque maggioritario, dei giudici di legittimità che interpreta in senso rigoroso le norme sul licenziamento delle lavoratrici madri.

La controversia riguarda, in particolare, il licenziamento intimato nei confronti di una lavoratrice durante il periodo di gravidanza, all’esito di una procedura di licenziamento collettivo, avviata per chiusura dell’intero reparto - dotato di autonomia funzionale - cui era adibita la stessa dipendente.

La Cassazione evidenzia l’illegittimità della scelta aziendale, ricordando che il testo unico per la tutela della maternità sancisce, all’articolo 54, il divieto assoluto di licenziamento delle lavoratrici dal periodo di inizio della gravidanza fino al compimento di un anno di età del figlio. Fanno eccezione al divieto solo alcuni casi tassativamente elencati, tra i quali la cessazione dell’attività dell’intera azienda.

Secondo un orientamento giurisprudenziale minoritario (Cassazione, sentenza 23684/2004), l’eccezione al divieto di licenziamento si applica anche al caso in cui la chiusura non interessi l’intera azienda, ma riguardi solo il reparto, dotato di autonomia funzionale, cui è adibita la dipendente.

La sentenza della Corte rifiuta tale interpretazione e, dando continuità all’orientamento tuttora prevalente in sede di legittimità (affermato, in passato, dalla sentenza 10391/ 2005) ricorda che la norma introduce una deroga a un principio di carattere generale, che persegue lo scopo di tutelare un bene di rilevanza costituzionale; per tale motivo, tale deroga non è suscettibile di interpretazione estensiva o analogica. La lavoratrice madre, quindi, può essere licenziata solo se concorrono entrambe le situazioni previste dal testo unico sulla maternità (il datore di lavoro deve essere un’azienda e vi deve essere una cessazione completa dell’attività).

Come accennato, la Corte chiarisce che la violazione del divieto di licenziamento si verifica anche quando il datore di lavoro adotta l’espediente di comunicare, già durante la gravidanza, la decisione di recedere dal rapporto, con previsione dell’efficacia differita dell’atto al giorno successivo al compimento del primo anno di vita del figlio. Tale licenziamento è, al pari delle altre fattispecie che ricadono nel divieto, affetto da nullità assoluta, in quanto l’espediente utilizzato finisce per frustrare lo scopo di tutelare la serenità della gestazione, oggetto di una specifica copertura costituzionale.

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