Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per giusta causa
Gruppo societario e datore di lavoro
Procedura di licenziamento collettivo
Repressione della condotta antisindacale e legittimazione attiva

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 12 giugno 2017, n. 14564

Pres. Macioce; Rel. Torrice; Ric. M.M.; Controric. B.P. Soc. Coop.;

Lavoro subordinato – Licenziamento per giusta causa – Valutazione circa la gravità dei fatti addebitati al lavoratore – Necessità per il giudice di valutare esclusivamente i fatti contestati nel loro complesso – Analisi limitata ad uno o ad alcuni dei fatti contestati – Legittimità

In tema di licenziamento per giusta causa, quando vengano contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, pur dovendosi escludere che il giudice di merito possa esaminarli atomisticamente, attesa la necessaria considerazione della loro concatenazione ai fini della valutazione della gravità dei fatti, non occorre che l'esistenza della "causa" idonea a non consentire la prosecuzione del rapporto sia ravvisabile esclusivamente nel complesso dei fatti ascritti, ben potendo il giudice - nell'ambito degli addebiti posti a fondamento del licenziamento dal datore di lavoro - individuare anche solo in alcuni o in uno di essi il comportamento che giustifica la sanzione espulsiva, se lo stesso presenti il carattere di gravità richiesto dall'art. 2119 c.c.

Nota

Nel caso in esame il lavoratore, dipendente di una banca, veniva licenziato per giusta causa a seguito di un procedimento disciplinare nell’ambito del quale gli venivano mossi vari addebiti. Tra questi vi era l’apertura o il trasferimento di vari rapporti al di fuori dell’area di sua competenza ed in mancanza dell’autorizzazione prescritta dalle normative regolamentari aziendali.

A seguito dell’impugnazione del licenziamento, tanto il Tribunale quanto la Corte d’Appello confermavano la legittimità dello stesso.

Quest’ultima, in particolare, evidenziava come - da una parte - l’istruttoria non avesse rilevato che il lavoratore fosse stato autorizzato alle operazioni e - dall’altra -come la qualifica di quadro responsabile di filiale rivestita consentisse di presumere che lo stesso conosceva o potesse conoscere la disciplina aziendale in tema di concessione di fidi. La Corte d’Appello riteneva infine, in considerazione della natura direttiva delle funzioni attribuite al lavoratore e dell’elevato grado di affidamento da esse richiesto, proporzionato il licenziamento per giusta causa sulla base delle sole condotte accertate relative all’apertura o al trasferimento abusivo dei rapporti considerando, pertanto, irrilevante l’esame degli ulteriori fatti addebitati in sede di contestazione disciplinare.

Contro la decisione della Corte d’Appello ricorreva in Cassazione il lavoratore articolando vari motivi tra i quali, per quanto qui interessa, l’avere la Corte esaminato soltanto alcuni degli addebiti oggetto della contestazione disciplinare e l’aver formulato il giudizio di proporzionalità sulla sanzione non secondo la volontà dell'autore, il quale avrebbe inteso operare il recesso sulla base della considerazione di tutti i fatti contestati, ma secondo la propria valutazione.

La Corte di Cassazione ha ritenuto infondate tali censure e rigettato l’intero ricorso.

In particolare la Suprema Corte ha ribadito un suo costante orientamento secondo il quale «In tema di licenziamento per giusta causa, quando vengano contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, pur dovendosi escludere che il giudice di merito possa esaminarli atomisticamente, attesa la necessaria considerazione della loro concatenazione ai fini della valutazione della gravità dei fatti, non occorre che l'esistenza della "causa" idonea a non consentire la prosecuzione del rapporto sia ravvisabile esclusivamente nel complesso dei fatti ascritti, ben potendo il giudice - nell'ambito degli addebiti posti a fondamento del licenziamento dal datore di lavoro - individuare anche solo in alcuni o in uno di essi il comportamento che giustifica la sanzione espulsiva, se lo stesso presenti il carattere di gravità richiesto dall'art. 2119 c.c.».

Nel caso di specie la Corte ha ritenuto, in considerazione di quanto sopra, legittimo il modus operandi della Corte territoriale che ha fondato il proprio giudizio in merito alla proporzione tra fatti contestati e sanzione espulsiva su alcuni soltanto dei fatti contestati, ritenendo irrilevante l’esame degli ulteriori addebiti, poiché i primi erano da soli sufficienti ad integrare un’ipotesi di giusta causa di licenziamento.

In aggiunta, anche la valutazione in merito alla gravità dei fatti è stata ritenuta corretta, avendo la Corte d’Appello valutato elementi concreti quali l’effettiva violazione della disciplina aziendale in tema di concessione di fidi, la necessaria conoscenza della stessa da parte del lavoratore in virtù della qualifica rivestita nonché la particolarmente pregnanza del vincolo fiduciario, con conseguente irrilevanza dell’effettivo verificarsi di danni economicamente valutabili.

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 25 luglio 2017, n. 18282

Pres. Di Cerbo; Rel. De Gregorio; P.M. Fresa; Ric. P.I. S.p.A. Contr. L.C.A.;

Giusta causa – Nozione legale – Tipizzazione del CCNL – Natura esemplificativa – Accertamento in concreto da parte del giudice – Necessità.

La giusta causa di licenziamento è nozione legale e il giudice non è vincolato dalle previsioni del contratto collettivo; conseguentemente, per un verso, il giudice può ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile ove tali condotte abbiano fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore; per altro verso, il giudice può escludere  che il comportamento del lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato.

Nota

La Corte di appello di Roma, nel confermare la sentenza di primo grado, dichiarava l'illegittimità del licenziamento intimato, in data 14 aprile 2012, ad una dipendente di un ufficio postale alla quale era stato contestato sia di aver illecitamente utilizzato alcuni tagliandi "gratta e vinci" sia di aver omesso di custodire alcuni prodotti postali poi sottratti da ignoti.

In particolare, la Corte di merito rilevava che le dichiarazioni rese dalla lavoratrice in sede ispettiva - con le quali affermava di aver utilizzato per uso personale alcuni "gratta e vinci" - avevano effettivamente valore confessorio, costituendo ammissione di fatti a sé sfavorevoli e favorevoli alla controparte, ma che l'ammissione della dipendente si riferisse solo ad una parte dei tagliandi oggetto di contestazione. Inoltre, in merito all'altro addebito, omessa custodia di alcuni prodotti postali, ad avviso della Corte di appello, dall'istruttoria era emerso che tale merce era sprovvista di sistemi antitaccheggio e che veniva conservata in un magazzino accessibile a tutti i dipendenti dell'ufficio. Pertanto, concludeva il giudice di appello, essendo stata provata unicamente l'appropriazione di alcuni tagliandi, nel caso di specie doveva applicarsi la sanzione conservativa di cui all'art. 54, comma 2, lett. f), del CCNL di categoria che prevedeva l'irrogazione della multa non superiore a 4 ore di retribuzione in caso di sottrazione di beni di modico valore e tale previsione impediva al giudice un'autonoma valutazione in termini di giusta causa.

Avverso tale pronuncia la società propone ricorso per Cassazione denunciando, tra l'altro, la violazione dell'art. 2119 c.c. e dell'art. 54, comma 6, lett. a), del CCNL nella parte in cui era prevista l'irrogazione del licenziamento senza preavviso nel caso di "distrazione o sottrazione di somme, beni di spettanza o di pertinenza della società ad essa affidati".

La Corte di Cassazione accoglie il motivo rinviando nuovamente al giudice di merito affinché accerti se nel caso di specie ricorre la giusta causa di licenziamento con riferimento alla sola condotta accertata - sottrazione per uso personale di alcuni tagliandi - in relazione a quanto previsto dal comma 6, lett. a) dell'art. 54 citato. Con l'ulteriore precisazione, da parte dei giudici di legittimità, che la giusta causa di licenziamento è nozione legale e il giudice non è vincolato dalle previsioni del contratto collettivo; ne deriva che il giudice può ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile ove tale grave inadempimento o tale grave comportamento, secondo un apprezzamento di fatto non sindacabile in sede di legittimità se motivato, abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore; per altro verso, il giudice può escludere altresì che il comportamento del lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato (cfr. Cass. 18 febbraio 2011, n. 4060; Cass. 16 marzo 2004, n. 5372). 

 

Gruppo societario e datore di lavoro

Cass. Sez. Lav. 31 luglio 2017, n. 19023

Pres. Bronzini; Rel. Garri; P.M. Fresa; Ric.C.R.C. s.p.a + altri.; Controric. L.C.M.A.;

Gruppo societario - Unico centro di imputazione di interessi - Requisiti

Se è vero che il collegamento economico-funzionale tra imprese gestite da società di un medesimo gruppo non comporta il venir meno dell'autonomia delle singole società, ogni volta che vi sia una simulazione in frode alla legge del frazionamento di un'unica attività fra vari soggetti è, tuttavia, possibile ravvisare un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro attraverso la verifica dell'esistenza dei seguenti requisiti: a) unicità della struttura organizzativa e produttiva; b) integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo ed il correlativo interesse comune; c) coordinamento tecnico e amministrativo-finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune; d) utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese, nel senso che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori.

Nota

La Corte d’Appello di Torino, in parziale riforma della decisione di primo grado, ha esteso alle altre società del gruppo di cui era parte la formale datrice di lavoro le condanne risarcitorie stabilite in via convenzionale per l’ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro “per volontà della società” emesse in primo grado. La Corte territoriale ha, infatti, ritenuto pienamente dimostrata l’esistenza di un centro unitario di imputazione del rapporto di lavoro.

Avverso tale decisione la società ha proposto ricorso per Cassazione, censurandola sotto vari profili tra cui quello inerente il predetto accertamento.

Nel rigettare il motivo perchè consistente esclusivamente nella richiesta di una diversa valutazione del materiale probatorio, la Suprema Corte afferma il principio di cui alla massima, già sancito in numerosi precedenti (Cass. 20 dicembre 2016, n. 26346; Cass. 15 maggio 2006, n. 11107; Cass.  6 aprile 2006, n. 6707; Cass. 6 giugno 2008, n. 17535; Cass.  7 settembre 2007 n. 18843; Cass. 12 febbraio  2013, n. 3482). Secondo la Cassazione i giudici territoriali si sono pienamente adeguati alla massima enunciata, compiendo una scrupolosa indagine istruttoria da cui sono emersi tutti requisiti sopradetti, tra cui: la commistione dei ruoli di soci ed amministratori delle varie società del gruppo, l’unicità della sede per molte attività, un frazionamento delle attività solo teorico, ma di fatto un effettiva insussistenza di autonomia giuridica e gestionale delle varie società, commistione nell’operatività e nella gestione della contabilità con fatturazione e protocollazione unitaria di gruppo ed, infine, il ruolo di coordinamento e supervisione svolto dal ricorrente in favore di tutte le società del gruppo.

Alla luce dell’accertamento compiuto in sede di merito la Cassazione ha, quindi, ritenuto del tutto corretta la conclusione raggiunta dalla Corte territoriale, essendosi in concreto verificata quella artificiosa frammentazione di un’unica attività tra le varie società tutte invero indirizzate verso un unico scopo produttivo e commerciale.

 

Procedura di licenziamento collettivo

Cass. Sez. Lav. 25 luglio 2017, n. 18286

Pres. Nobile; Rel. Della Torre; P.M. Ceroni; Ric. P.L.; Controric. S. S.p.A..

Licenziamento collettivo – Cessazione di attività – Comunicazione finale – Necessità – Ratio – Controllo sindacale – Effettività

In ipotesi di licenziamento collettivo per cessazione di attività d’impresa, seppure il datore di lavoro non è tenuto a specificare i motivi del mancato ricorso ad altre forme occupazionali, le comunicazioni di cui all’art. 4, c. 9, L. n. 223/1991 devono comunque contenere, oltre la puntuale indicazione delle modalità di applicazione dei criteri di scelta, l’elenco dei lavoratori licenziati, al fine di consentire il controllo sindacale sulla corrispondenza all’intenzione emergente dalla comunicazione iniziale circa il coinvolgimento dell’intero organico nella chiusura dell’insediamento produttivo.

Nota

La Corte d’Appello di Brescia respingeva il gravame, proposto da un gruppo di lavoratori coinvolto in una procedura di licenziamento collettivo, avverso la sentenza di primo grado, che aveva accertato la legittimità dei licenziamenti pur in assenza della comunicazione finale ex art. 4, c. 9, L. n. 223/1991.

La Corte territoriale, infatti, come già il primo giudice, riteneva superflua la suddetta comunicazione, posto che, essendo stata la società ammessa alla procedura di concordato preventivo mediante cessione dei beni, era definitivamente venuta meno l’attività aziendale e non era necessario alcuno scrutinio dei lavoratori, atteso che tutti i dipendenti erano stati collocati in mobilità.  

Avverso la predetta sentenza la società proponeva ricorso per Cassazione per aver la Corte di merito, nel ritenere superflua la comunicazione finale ex art. 4, c. 9, L. n. 223/1991 in ipotesi di cessazione dell’attività aziendale, omesso di applicare alla fattispecie la norma di cui all’art. 24, c. 2, L. n. 223/1991 che estende la procedura disciplinata dalla L. n. 223/1991 anche ai licenziamenti conseguenti alla chiusura dell’insediamento produttivo.

La Corte di legittimità ha accolto tale motivo di ricorso, e, pertanto cassato con rinvio la sentenza della Corte d’Appello, rilevando come la sentenza gravata si sia discostata dal principio (già espresso da Cass. n. 25737/2016) secondo cui anche nell’ipotesi di licenziamento collettivo per cessazione di attività d’impresa, la comunicazione ex art. 4, c. 9, L. n. 223/1991 – contenente non solo l’indicazione delle modalità di applicazione dei criteri di scelta, ma anche l’elenco dei lavoratori licenziati – è pur sempre necessaria; e ciò al fine di consentire il controllo sindacale sulla effettività di quanto dichiarato nella comunicazione iniziale ex art. 4, c. 3, L. n. 223/1991, ossia il coinvolgimento dell’intero organico nella chiusura dell’insediamento produttivo. 

 

Repressione della condotta antisindacale e legittimazione attiva

Cass. Sez. Lav. 20 luglio 2017, n. 17915

Pres. Balestrieri; Rel. Amendola; P.M. Celeste; Ric. S. S.p.A.; Controric. S.D.L.I.;

Lavoro subordinato - Associazioni sindacali - Libertà sindacale - Repressione della condotta antisindacale - Art. 28 Statuto Lavoratori - Legittimazione attiva - Attribuzione alle associazioni sindacali a diffusione nazionale - Requisiti - Sottoscrizione dei contratti collettivi nazionali - Esclusione

L'azione per la repressione della condotta antisindacale ex art. 28 dello statuto dei lavoratori, L. n. 300/1970, può essere promossa dall'associazione sindacale nazionale, intendendosi per tale quella dotata di struttura organizzativa a livello nazionale e svolgente attività sindacale su tutto o su ampia parte del territorio nazionale, mentre non è necessaria la sottoscrizione dei contratti collettivi nazionali.

Nota

Il caso di specie riguarda la legittimazione ad agire dei sindacati per promuovere l’azione per la repressione della condotta antisindacale ex art. 28 dello Statuto dei Lavoratori. Nello specifico, il caso riguarda un’azione avanzata da una sigla sindacale contro una società per non avergli accreditato le quote associative sindacali e per non aver riconosciuto ad un proprio iscritto la qualità di delegato della rappresentanza sindacale unitaria.

La condotta della società era stata ritenuta antisindacale sia in primo che secondo grado.

Ricorre per Cassazione la società, deducendo la violazione e falsa applicazione dell’art. 28 dello Statuto dei Lavoratori, nonché difetto di motivazione in ordine al necessario requisito della “nazionalità” dell'organizzazione sindacale - e della conseguente legittimazione ad agire della stessa - riconosciuta dai giudici del merito.

La Corte di Cassazione ha ritenuto il ricorso infondato, affermando innanzitutto che, ai fini della legittimazione a promuovere l'azione prevista dall’art. 28 St. Lav., per "associazioni sindacali nazionali" devono intendersi le associazioni che abbiano una struttura organizzativa articolata a livello nazionale e che svolgano attività sindacale su tutto o su ampia parte del territorio nazionale, mentre non è necessaria la sottoscrizione dei contratti collettivi nazionali (cfr. Cass. n. 12855/2014) che rimane, comunque, un indice tipico - ma non l'unico - rilevante ai fini della individuazione del requisito della nazionalità.

Non deve quindi confondersi, prosegue la Corte, la legittimazione ai fini dell’art. 28 cit. con i requisiti richiesti dall'art. 19 St. Lav. per la costituzione di rappresentanze sindacali; l'art. 19, a questo specifico fine, richiede infatti la sottoscrizione di contratti collettivi nazionali (o anche provinciali o aziendali, purché applicati in azienda), mentre l'art. 28 non prevede analogo requisito, ma richiede esclusivamente che l'associazione sia “nazionale”.

Ciò premesso, l’accertamento di fatto relativo al requisito di rappresentatività necessario per l'accesso alla tutela prevista dall'art. 28 dello Statuto costituisce indagine demandata al giudice di merito e, pertanto, è incensurabile, in sede di legittimità, ove assistita da sufficiente motivazione.

Ebbene, la Corte di merito ha fatto corretta applicazione dei principi sopra richiamati in quanto ha ritenuto sussistente il requisito della nazionalità del sindacato ricorrente sulla scorta di una serie di elementi, tra cui anche l’aver sottoscritto numerosi accordi a tutti i livelli con società di rilievo e diffusione nazionale.

Il ricorso per cassazione, in sostanza, propone una diversa valutazione del quadro probatorio che non è consentita in sede di legittimità, quando, come nel caso in esame, la motivazione sia adeguata. Per tali motivi, la Corte di Cassazione ha concluso per il rigetto del ricorso.

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