Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Legittimità del ricorso ad agenzie investigative esterne
Sulla proporzionalità della sanzione disciplinare
Licenziamento disciplinare e condotta dolosadel lavoratore
Disciplina dei licenziamenti e contratto di apprendistato
Licenziamento del dirigente per riorganizzazione aziendale

Legittimità del ricorso ad agenzie investigative este rne

Cass. Sez. Lav. 26 giugno 2017, n. 15867

Pres. Bronzini; Rel. Esposito; Ric. C.F.; Controric. M.R. S.p.A.;

Lavoro - Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Libertà e dignità del lavoratore - Personale di vigilanza - Controlli del datore di lavoro a mezzo di agenzia investigativa - Legittimità - Condizioni - Fondamento.

Le disposizioni dell'art. 2 dello Statuto dei Lavoratori, nel limitare la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a tutela del patrimonio aziendale, non precludono a quest'ultimo di ricorrere ad agenzie investigative - purché queste non sconfinino nella vigilanza dell'attività lavorativa vera e propria, riservata dall'art. 3 dello Statuto direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori -, restando giustificato l'intervento in questione non solo per l'avvenuta perpetrazione di illeciti e l'esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione.

Nota

Nella sentenza in commento, la Suprema Corte chiarisce i requisiti di utilizzabilità in giudizio, ai fini dell'accertamento della responsabilità disciplinare di un dipendente, delle informazioni reperite dal datore di lavoro per il tramite di investigatori privati.

Nella fattispecie, un lavoratore agiva in giudizio rivendicando la natura subordinata del rapporto nonché il diritto alla qualifica dirigenziale, denunziando, altresì, l'illegittimità del recesso comunicatogli per asserita giusta causa, consistente - secondo la prospettazione datoriale, così come asseverata dalle indagini svolte da investigatori privati - nel «non aver provveduto adeguatamente a visitare la clientela e di aver trascurato di tenere un costante monitoraggio dell'attività degli agenti, oltre alla non veridicità di numerose comunicazioni relative a visite a clienti, in realtà mai effettuate».

Il Tribunale, dopo aver accertato la natura subordinata del rapporto e la qualifica dirigenziale rivestita dal dipendente, reputava sussistente la giusta causa di licenziamento. La Corte d'Appello, in parziale riforma della sentenza di prime cure, reputava il recesso datoriale disciplinarmente giustificato, ma non sorretto da giusta causa.

Il lavoratore propone ricorso per Cassazione, lamentando, tra il resto, l'illegittimità e l'inutilizzabilità delle indagini investigative e delle relative risultanze; la società datrice spiega controricorso con ricorso incidentale, censurando la statuizione della Corte territoriale che aveva negato la sussistenza di una giusta causa di licenziamento.

Segnatamente, il dipendente contesta la sussistenza del presupposto di fatto per l'uso legittimo del controllo mediante agenzie investigative sulla prestazione del lavoratore: i Giudici del merito - afferma il ricorrente - avrebbero dato credito a sospetti, in assenza di oggettivo riscontro documentale delle presunte anomalie nel comportamento del dipendente, in violazione delle norme di legge che legittimano l'utilizzo delle agenzie investigative nel solo caso di dubbio oggettivamente verificato di comportamenti illeciti. Sotto un secondo profilo, il lavoratore sottolinea la differenza tra controlli legittimi, volti ad accertare illeciti contro il patrimonio, e controlli illegittimi, volti a verificare l'esatto adempimento della prestazione.

La Suprema Corte respinge il ricorso principale, ritenendo condivisibili le motivazioni articolate dai Giudici d'Appello.

Anzitutto - osserva la Cassazione - la Corte di merito ha, correttamente, ritenuto attendibile la ricostruzione prospettata dal datore riguardo alle incongruenze emerse - quale fonte di dubbio oggettivamente verificato - dal raffronto tra i dati risultanti dalle registrazioni dei passaggi autostradali e quelli presenti in azienda, dando così fondamento all'ipotesi di perpetrazione di condotte illecite da parte del lavoratore. Quanto al secondo profilo di censura, i Giudici di legittimità rilevano come il divieto per il datore di controllare e far controllare l'esecuzione della prestazione lavorativa non trovi applicazione nelle ipotesi di anche solo eventuale realizzazione da parte dei dipendenti di comportamenti non consentiti, esulanti dalla normale attività lavorativa. Il controllo - conclude il Collegio - è giustificato non solo per l'avvenuta perpetrazione di illeciti e l'esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso d'esecuzione.  

La Cassazione accoglie, invece, il ricorso incidentale della Società, rammentando che «ai fini della giustificatezza del licenziamento del dirigente, è rilevante qualsiasi motivo che lo sorregga, con motivazione coerente e fondata su ragioni apprezzabili sul piano del diritto, atteso che non è necessaria una analitica verifica di specifiche condizioni, ma è sufficiente una valutazione globale, che escluda l'arbitrarietà del recesso, in quanto intimato con riferimento a circostanze idonee a turbare il rapporto fiduciario con il datore di lavoro, nel cui ambito rientra l'ampiezza di poteri attribuiti al dirigente».

 

Sulla proporzionalità della sanzione disciplinare

Cass. Sez. Lav. 20 giugno 2017, n. 15209

Pres. Macioce; Rel. Torrice; P.M. Ghersi; Ric. V.A.; Controric. O.A.R.E.

Lavoro subordinato - Procedimento disciplinare - Licenziamento per giusta causa - Proporzionalità della sanzione - Condotte previste dal CCNL applicato - Elementi di valutazione della proporzionalità - Aspetti concreti afferenti la natura ed utilità del singolo rapporto di lavoro - Fattispecie

Nell’ambito di un procedimento disciplinare la valutazione della proporzionalità della sanzione deve essere operata con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla utilità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, al nocumento eventualmente arrecato, alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del loro verificarsi, ai motivi e all'intensità dell'elemento intenzionale o di quello colposo.

Nota

La Corte di Appello di Bologna riformava la sentenza di primo grado dichiarando legittimo il licenziamento disciplinare della lavoratrice essendo stato provato che la lavoratrice aveva commesso le condotte oggetto della contestazione disciplinare.

Avverso detta sentenza della Corte di appello proponeva ricorso per Cassazione la lavoratrice contestando alla Corte territoriale di non aver applicato i principi di gradualità e di proporzionalità nella determinazione della sanzione all’esito del procedimento disciplinare. Per la lavoratrice la condotta contestata e la sanzione espulsiva, erano conseguenza di un giudizio astratto della Corte che avrebbe omesso di fare concreto riferimento ai criteri valutativi contenuti nel CCNL applicato.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

Per la Cassazione quando si tratta di illeciti disciplinari tipizzati dalla contrattazione collettiva deve escludersi la configurabilità in astratto di qualsivoglia automatismo nell'irrogazione di sanzioni disciplinari, permanendo il sindacato giurisdizionale sulla proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato. La proporzionalità della sanzione disciplinare rispetto ai fatti commessi è, infatti, regola valida per tutto il diritto punitivo e risulta trasfusa per l'illecito disciplinare nell’articolo 2106 c.c..

Con particolare riferimento al caso in esame, ribadisce la Corte, la valutazione della proporzionalità non è stata astratta, ma in considerazione degli aspetti concreti del rapporto dedotto in giudizio, del ripetuto rifiuto di svolgere le mansioni affidate (servizio allo sportello, protocollazione degli atti), della rilevanza penale dei comportamenti (espressioni ingiuriose e diffamatorie contrarie al decoro ed all'onore del datore di lavoro e delle colleghe di lavoro), del clamore dei comportamenti, della protrazione nel tempo della condotta e dell'elemento intenzionale, tratto dalla manifestata incapacità di gestire in maniera controllata le relazioni (ed i contrasti con le colleghe) nell'ambito di un contesto lavorativo di normalità.

 

Licenziamento disciplinare e condotta dolosa del lavoratore

Cass. Sez. Lav. 14 giugno 2017, n. 14759

Pres. Nobile; Rel. Manna; P.M. Fresa; Ric. B.M.; Controric. L.S.;

Licenziamento disciplinare - Giusta causa - Condotta dolosa - Riconducibilità alle infrazioni punite dal CCNL con sanzioni conservative - Non sussiste

Licenziamento disciplinare - Giusta causa - Condotta dolosa - Danno - Insussistenza - Tutela indennitaria ex art. 18, comma 5, legge n. 300 del 1970 - Applicabilità

È applicabile la tutela indennitaria di cui all’art. 18, comma 5, legge n. 300 del 1970, nel caso in cui la condotta realizzata dal lavoratore, e posta a fondamento del licenziamento irrogato, pur non essendo riconducibile alle infrazioni punite dal CCNL con le sanzioni conservative - attesa la natura dolosa della stessa - non sia di gravità tale da integrare una giusta causa di recesso, non avendo provocato alcun danno alla società datrice di lavoro.

Nota

Il Tribunale di Reggio Calabria annullava il licenziamento disciplinare irrogato dalla società datrice nei confronti della gerente di un proprio punto vendita, disponendone la reintegra nel proprio posto di lavoro, con l’applicazione delle tutele di cui all’art. 18, comma 4 della legge n. 300 del 1970.

I giudici di merito avevano accertato, in punto di fatto, che la lavoratrice - gerente, come si è detto, di un punto vendita societario - in 13 operazioni di vendita, nel periodo delle vendite natalizie, aveva consegnato alle clienti, abbinato al capo di abbigliamento per il quale queste ultime avevano pagato l’intero prezzo, uno scontrino “per vendita in acconto” di pari importo, contenente una sigla corrispondente ad una diversa causale. Ciò al fine di ottenere celermente uno o più capi assenti nell’assortimento del proprio punto vendita che, altrimenti, seguendo le vie ordinarie, sarebbero stati consegnati molto tempo dopo o non sarebbero stati consegnati affatto, con ampia probabilità di perdere le clienti che a quei capi erano interessate.

La Corte di appello di Reggio Calabria, in parziale riforma della pronuncia di prime cure, dopo aver accertato l’insussistenza della giusta causa di recesso, dichiarava risolto il rapporto di lavoro ed applicava alla lavoratrice la sola tutela indennitaria, condannando la società al pagamento di 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Avverso tale pronuncia proponeva ricorso la lavoratrice affidandosi a due motivi.

Sosteneva la ricorrente che erroneamente la Corte territoriale aveva ritenuto che la condotta addebitata alla medesima fosse stata dolosa anziché meramente negligente, trascurando di considerare che l’infrazione contestata  poteva al più qualificarsi quale lieve violazione delle regole che presiedevano allo svolgimento del rapporto di lavoro, ipotesi per la quale il CCNL di settore prevedeva l’intimazione di sanzioni meramente conservative (quali ad esempio il biasimo verbale o, tutt’al più, la multa), con conseguente applicabilità del regime di tutela reale c.d. attenuata, di cui all’art. 18, comma 4 della legge n. 300 del 1970.

Resisteva con controricorso la società datrice la quale spiegava ricorso incidentale, basato su due motivi.

La società rilevava che erroneamente la Corte territoriale aveva escluso la sussistenza di una giusta causa di recesso ritenendo che la condotta addebitata alla lavoratrice non avesse provocato alcun danno. In particolare, la società obiettava che, contrariamente a quanto sostenuto dai giudici di secondo grado, la condotta de qua doveva qualificarsi quale grave violazione degli obblighi di cui all’art. 220, 1° e 2° comma del CCNL di settore, rispetto alla quale il medesimo CCNL prevedeva il licenziamento senza preavviso, a prescindere dall’esistenza o meno di un concreto danno per il datore di lavoro, trattandosi di un inadempimento tale da ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario tra le parti.

La Suprema Corte rigettava sia il ricorso principale che quello incidentale.

In particolare, la Suprema Corte rilevava che la Corte terittoriale aveva correttamente escluso la riconducibilità della condotta contestata nel novero delle infrazioni punite dal CCNL di settore con la sanzione conservativa, attesa la natura dolosa della condotta medesima, con conseguente applicabilità della sola tutela indennitaria c.d. forte prevista dall’art. 18, comma 5 della legge n. 300 del 1970.

Allo stesso tempo, la Suprema Corte ha rilevato che altrettanto correttamente la sentenza impugnata aveva escluso che la condotta addebitata fosse così grave da integrare una giusta causa di recesso. Ed infatti, come è stato osservato dai giudici di legittimità, la condotta della lavoratrice, pur avendo esposto la società  datrice al rischio di sanzioni fiscali in caso di verifiche da parte della Guardia di Finanza - vista la non corrispondenza degli scontrini emessi ai documenti di contabilità interna - non solo non aveva arrecato alcun danno alla società medesima, ma le aveva addirittura provocato un vantaggio consistito nell’incremento delle vendite nel periodo dell’anno più propizio, ossia quello immediatamente precedente le festività natalizie. 

 

Disciplina dei licenziamenti e contratto di apprendistato

Cass. Sez. Lav. 13 luglio 2017, n. 17373

Pres. Nobile; Rel. Spena; P.M. Celentano; Ric. F. s.r.l.; Controric. A.V.;

Apprendistato ante L. 167/11 - Natura - Contratto a tempo indeterminato - Conseguenze - Illegittima risoluzione - Applicazione disciplina limitativa dei licenziamenti

Pur in mancanza di una statuizione espressa, deve affermarsi che anche il contratto di apprendistato disciplinato dalla L. 19 gennaio 1955, n. 25 dà origine ad un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, pertanto, in caso di licenziamento intervenuto in pendenza del periodo di formazione, è inapplicabile la disciplina relativa alla risoluzione ante tempus nel rapporto di lavoro a termine.

Nota

La Corte d’Appello di Napoli ha confermato la sentenza di primo grado dichiarativa dell’illegittimità del licenziamento disciplinare intimato ad un apprendista anteriormente alla scadenza del termine previsto per l’esercizio della disdetta. I giudici del gravame hanno altresì condiviso la decisione del primo giudice in merito alle conseguenze sanzionatorie, confermando la condanna al risarcimento del danno parificato alle retribuzioni che sarebbero maturate dal recesso alla scadenza del termine del contratto di apprendistato.

Avverso tale decisione la società ha proposto ricorso per Cassazione, censurandola sotto svariati profili tra cui l’applicazione delle conseguenze sanzionatorie proprie del contratto a termine in luogo di quelle previste per il licenziamento.

La Suprema Corte accoglie la doglianza, affermando il principio di cui alla massima già sancito in uno specifico precedente (Cass. 15 marzo 2016, n. 5051) anche se, in quel caso, la risoluzione era intervenuta nella seconda fase del contratto di apprendistato, ovvero dopo la scadenza del termine previsto per la disdetta. La Cassazione perviene a tale conclusione nonostante l’inapplicabilità ratione temporis della disciplina introdotta dal D. Lgs. 167/2011 - che aveva espressamente definito l’apprendistato come rapporto a tempo determinato (qualificazione poi confermata anche D. Lgs. 81/2015 abrogativo del D. Lgs. 167/2011) - valorizzando l’articolo 19 della L. 25/1955 secondo cui, in caso di mancata disdetta a norma dell’art. 2118 c.c. al termine del periodo di apprendistato l’apprendista è «mantenuto in servizio». La Corte sottolinea che la previsione della disdetta con periodo di preavviso corrisponde all’esigenza di evitare che la parte che subisce il recesso si trovi improvvisamente di fronte allo scioglimento del rapporto, ovvero la tipica esigenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Né - osserva la Suprema Corte - tale qualificazione è contraddetta dall’articolo 7 della L. 25/1955 - a tenore del quale l’apprendistato non può avere una durata superiore a quella stabilita dai contratti collettivi di lavoro e, comunque, a cinque anni - in quanto il termine finale della formazione professionale non identifica un termine di scadenza del contratto ma un termine di fase all’esito del quale, in assenza di disdetta, il rapporto (unico) continua con la causa tipica del lavoro subordinato. Pertanto, pur nel regime normativo di cui alla L. 25/1955, il contratto di apprendistato da vita ad un rapporto di lavoro a tempo indeterminato bi-fasico, nel quale la prima fase è contraddistinta da una causa mista (al normale scambio tra prestazione di lavoro e retribuzione si aggiunge, con funzione specializzante, lo scambio tra attività lavorativa e formazione professionale) mentre la seconda fase - soltanto eventuale, perché condizionata al mancato recesso ex art. 2128 c.c. - rientra nell’ordinario assetto del rapporto di lavoro subordinato. Del resto, precisa la Cassazione, tale conclusione è imposta dalle sentenze additive di accoglimento della Corte Costituzionale del 28 novembre 1973 n. 169 e del 4 febbraio 1970 n. 14 per effetto delle quali, proprio sul presupposto della sua assimilabilità all’ordinario rapporto di lavoro a tempo indeterminato, è stata estesa al contratto di apprendistato la disciplina di cui alla L. 604/66.

Da tali principi scaturisce l’inapplicabilità al recesso delle conseguenze proprie del contratto a tempo determinato sancita dai giudici del merito e la conseguente cassazione della sentenza sul punto.

 

Licenziamento del dirigente per riorganizzazione aziendale

Cass. Sez. Lav. 24 luglio 2017, n. 18177

Pres. Bronzini; Rel. Spena; P.M. Fresa; Ric. L.P.; Contoric. e Ric. Inc. B.P.A. S.p.A.;

Rapporto di lavoro dirigenziale - Riorganizzazione aziendale - Soppressione della posizione - Esigenza di riduzione dei costi - Licenziamento - Legittimità -  Inevitabilità dell’estromissione - Irrilevanza. 

L’esigenza, economicamente apprezzabile in termini di risparmio dei costi, della soppressione di una figura dirigenziale in attuazione di un riassetto societario integra la nozione di giustificazione del licenziamento del dirigente, ove non emerga, alla stregua di dati obiettivi, la natura discriminatoria o contraria a buona fede della riorganizzazione.

Nota

Un dirigente di un istituto bancario veniva licenziato nell’ambito di una riorganizzazione aziendale per soppressione della relativa postazione lavorativa, anche al fine di ridurre il costo di lavoro.

Il giudice di primo grado rigettava il ricorso del lavoratore volto ad accertare l’illegittimità, sotto diversi profili, del recesso datoriale.

La Corte d’Appello di Ancona, in accoglimento dell’impugnazione del dirigente, riteneva ingiustificato licenziamento, condannando la società al pagamento dell’indennità supplementare in misura pari a dieci mensilità. La Corte territoriale, riteneva che, non essendo stata prospettata una riduzione dell’attività, la decisione di sopprimere il ruolo del dirigente rispondeva a scelte di politica aziendale, in quanto tali insindacabili, salvo in caso di superamento dei limiti della discrezionalità per palese irragionevolezza o pretestuosità. Al fine di consentire tale valutazione, il datore di lavoro avrebbe dovuto prospettare: le ragioni della soppressione del posto di lavoro, la situazione organizzativa di provenienza e quella all'esito della riorganizzazione nonché dimostrare l’inevitabilità del licenziamento, sotto il profilo dell’insuscettibilità di un impiego alternativo del dirigente ovvero delle ragioni della sua scelta rispetto ad altri dirigenti con analoga professionalità. Veniva altresì affermato che la prospettata esigenza di riduzione dei costi non poteva giustificare il recesso, in quanto la diminuzione di spesa era insita ad ogni licenziamento, concludendo che il recesso non era stato l’effetto di una scelta organizzativa, bensì la causa della stessa.

Avverso tale sentenza il dirigente ricorreva in Cassazione; la società resisteva con controricorso e proponeva appello incidentale.

Il datore di lavoro censurava la sentenza impugnata per aver ritenuto necessaria la prova dell’inevitabilità del licenziamento del dirigente e per aver negato che l’esigenza di ridurre il costo del lavoro potesse costituire una ipotesi di giustificazione del licenziamento del dirigente. La società lamentava inoltre l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo del giudizio: la circostanza che il recesso era stato disposto in attuazione di un accordo sindacale nel quale le parti sociali - al fine di consentire un recupero di efficienza e produttività, attraverso il contenimento dei costi del lavoro - avevano concordato il numero di lavoratori in esubero, da selezionare, preliminarmente, con il criterio dell’adesione volontaria e, successivamente, con il criterio del possesso (ad una determinata data) del requisito pensionistico, requisito quest’ultimo di cui il dirigente era pacificamente in possesso.

La Suprema Corte ha accolto il ricorso incidentale della società e rigettato quello principale, ribadendo il consolidato principio di diritto (già affermato in Cass. 12823/2016 e 12688/2016) secondo cui il licenziamento del dirigente non richiede necessariamente un giustificato motivo oggettivo ed è consentito in tutti i casi in cui sia stato adottato in funzione di una ristrutturazione aziendale dettata da scelte imprenditoriali non sindacabili nel merito purché non arbitrarie, non pretestuose e non persecutorie.

Ai fini della giustificazione del licenziamento del dirigente è quindi sufficiente la dimostrazione, da parte del datore di lavoro, dell'avvenuta riorganizzazione aziendale e del fatto che essa fosse tale da coinvolgere la posizione del dirigente licenziato. Fermo restando il principio che il giudice deve limitarsi al controllo sull’effettività delle scelte imprenditoriali poste a base del licenziamento, senza poter sindacare il merito di tali scelte.

Sulla base di tali argomentazioni e, quindi, senza nemmeno esaminare il profilo relativo agli accordi sindacali, la Corte di Cassazione è giunta alla conclusione, particolarmente importante, che l’esigenza - economicamente apprezzabile in termini di risparmio di costi - della soppressione di una figura dirigenziale in attuazione di un riassetto societario integra, di per sé, la nozione di giustificazione del licenziamento del dirigente ove non emerga, alla stregua di dati obiettivi, la natura discriminatoria o contraria a buona fede della riorganizzazione.

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