Contenzioso

Licenziamento ritorsivo, la nullità non è automatica

di Daniele Colombo

Il licenziamento per motivi discriminatori differisce da quello ritorsivo in quanto mentre il primo si fonda sulla violazione oggettiva di specifiche norme (anche di fonte comunitaria), il secondo trova la sua fonte nella volontà soggettiva del datore di lavoro di recedere dal rapporto di lavoro per motivi illeciti o di rappresaglia nei confronti del lavoratore che fa valere propri diritti. Con la conseguenza che in quest’ultimo caso non sempre scatta l’automatica nullità del recesso.

La Corte di cassazione, con la sentenza 14456 del 9 giugno scorso, ha reso più netta la distinzione tra discriminazione e ritorsione, confermando l’indirizzo giurisprudenziale inaugurato con la pronuncia della stessa Corte del 5 aprile 2016 n. 6575. Quest’ultima sentenza, infatti, nel discostarsi dal precedente orientamento di legittimità che assimilava il licenziamento discriminatorio a quello ritorsivo, riporta il primo tipo di licenziamento alle proprie radici comunitarie e ne evidenzia la natura oggettiva.

Ma cosa s’intende per licenziamento discriminatorio e quali sono quindi le differenze con quello ritorsivo? E quali gli oneri di prova in capo alle parti?

In linea generale, il licenziamento è discriminatorio quando il recesso datoriale è motivato da ragioni di credo politico o di fede religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato o dalla partecipazione all’attività sindacale, tra cui è compresa la partecipazione del lavoratore ad uno sciopero, nonché da ragioni razziali, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basate sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali del dipendente (articolo 3, legge 108/1990; articolo 4 legge 604/1966; articolo 15, legge 300/1970).

Sussistono poi ulteriori ipotesi di licenziamento discriminatorio riconducibili «agli altri casi di nullità previsti dalla legge» (articolo 18 dello Statuto dei lavoratori), come, ad esempio, lo stato di sieropositività del dipendente (articolo 5 della legge 135/1990). L’elenco dei fattori di discriminazione è sempre stato oggetto di dibattito dottrinale tra chi ne sosteneva la tassatività e chi, invece, la negava. In giurisprudenza è ormai consolidato l’orientamento secondo cui l’elenco delle ragioni discriminatorie è suscettibile di interpretazione estensiva e che, pertanto, ricomprende anche ipotesi non espressamente previste dalle norme vigenti (tra le altre Cassazione 17087/2011).

È ritorsivo, invece, il licenziamento “per rappresaglia”, ossia quello intimato a seguito di un comportamento del lavoratore sgradito al datore di lavoro. In tal caso, secondo previsto dall’articolo 1345 del Codice civile, l’atto datoriale è nullo soltanto se dovuto a motivo illecito, esclusivo e determinante.

Con riferimento al motivo ritorsivo l’orientamento tradizionale (Cassazione, sezione lavoro, 3986/2015) affermava che la nullità sancita dall’articolo 1345 del Codice civile doveva essere intesa in senso estensivo, ossia quale sanzione per ogni condotta datoriale (discriminatoria o ritorsiva che fosse)  che rappresentasse una illecita reazione in funzione vendicativa nei confronti del lavoratore che avesse, a sua volta, esercitato un diritto o comunque tenuto una condotta lecita.

In pratica, anche il motivo discriminatorio doveva essere l’unica e determinante motivazione del recesso datoriale affinché potesse considerarsi nullo.

Ma quest’ultimo orientamento è stato rivisto dalla Cassazione che, anche di recente, ha affermato come tra le due fattispecie vi debba essere un’assoluta distinzione: la discriminazione discende direttamente dalla violazione di specifiche norme di diritto interno ed europeo, secondo le quali la discriminazione diretta opera in modo oggettivo; la ritorsione, invece, rende il recesso datoriale nullo soltanto se dovuto a motivo illecito, esclusivo e determinante, profili che quindi rendono rilevante anche la volontà datoriale.

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Cassazione - sentenza 14456 2017

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