Contenzioso

Disparità di trattamento con prova di tipo statistico

di Daniele Colombo

La distinzione tra licenziamento discriminatorio e ritorsivo non è solo una questione nominalistica. Le recenti conclusioni della Suprema corte secondo le quali il licenziamento discriminatorio ha valenza oggettiva indipendentemente dalla volontà effettivamente discriminatoria del datore di lavoro impattano anche sull’onere della prova.

Nel perimetro della discriminazione, il lavoratore che lamenti di essere stato licenziato, appunto, per ragioni discriminatorie, ha l’onere di dimostrare in giudizio l’esistenza a suo danno di un trattamento deteriore rispetto a quello che astrattamente sarebbe stato riservato a un terzo soggetto privo dello stesso fattore di protezione.

Discriminazione statistica

L’onere probatorio a carico del lavoratore è sempre stato piuttosto gravoso e, pertanto, le ragioni discriminatorie risultano di difficilissima dimostrazione. Con la sentenza della Suprema corte 14456/2017 quest’ onere risulta attenuato.

La dimostrazione della discriminazione, infatti, è agevolata per legge (articolo 28 Dlgs 150/2011). Il lavoratore che esercita l’azione potrà, quindi, limitarsi a fornire elementi di fatto, desunti anche da dati di tipo statistico (relativi ad assunzioni, regimi retributivi eccetera) tali da fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione di condotte discriminatorie. Una volta fornita tale prova (cosiddetta statistica), spetterà al datore di lavoro, a sua volta, l’onere di provare l’insussistenza oggettiva della discriminazione indipendentemente da un intento discriminatorio.

Sarà quindi irrilevante sostenere la mancanza di un intento discriminatorio, dovendo piuttosto il datore di dimostrare che nei fatti il trattamento riservato al lavoratore ha una causa lecita (alternativa a quella discriminatoria presunta), ovvero non è diverso da quello che astrattamente sarebbe stato riservato a un terzo soggetto privo dello stesso fattore di protezione, rispetto al quale operare il giudizio di comparazione.

Nulla cambia, invece, in termini di onere della prova nei giudizi di impugnativa dei licenziamenti ritorsivi, nei quali l’onere di provare l’intento di rappresaglia come reazione ad una condotta lecita del lavoratore spetta per intero al dipendente. Anche in questo caso la giurisprudenza consente, tuttavia, ampio utilizzo delle presunzioni.

Ritorsione e fattore-tempo

Il Tribunale di Milano si è pronunciato un anno fa sull’utilizzo delle presunzioni e ha dichiarato la natura ritorsiva di un licenziamento intimato in regime di tutela obbligatoria (si trattava, di un recesso intimato da un’azienda con meno di 15 dipendenti). Nell’esaminare la fattispecie, il giudice ha valorizzato la circostanza che tra la contestazione disciplinare e il licenziamento fosse trascorso un notevole lasso di tempo (più di un anno), nonché la circostanza che il licenziamento fosse stato intimato subito dopo le rimostranze del lavoratore in merito al mancato pagamento di differenze retributive (Tribunale Milano 1° luglio 2016).

Sempre il Tribunale meneghino, ha recentemente ritenuto ritorsivo il licenziamento per soppressione della posizione intimato a un dirigente, evidenziando che le reali ragioni del recesso dovevano ravvisarsi nel rifiuto del dipendente di accettare un trattamento economico peggiore rispetto a quello percepito.

Il giudice, in particolare, ha valorizzato la circostanza emersa in giudizio secondo la quale l’azienda avrebbe assicurato al dipendente che, in caso di accettazione di un accordo “consensuale” avente ad oggetto la diminuzione della retribuzione, la sede di lavoro e le mansioni sarebbero rimaste immutate. Trascorsi solo cinque giorni dal rifiuto del dipendente, la società ha risolto il rapporto per ragioni economiche. La condotta aziendale, ha evidenziato il giudice, denota, anche per il breve lasso di tempo tra gli eventi che hanno condotto al recesso, che si sia trattato, in realtà, di licenziamento ritorsivo con conseguente irrilevanza delle ragioni sottese al recesso per giustificato motivo oggettivo, ossia alla soppressione della posizione lavorativa ricoperta dal dipendente (tribunale Milano 7 marzo 2017).

Tribunale Milano, ordinanza 1 luglio 2016

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©