Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Differenze tra licenziamento discriminatorio e licenziamento ritorsivo
La tempestività della contestazione disciplinare
Collegamento tra imprese del medesimo gruppo e licenziamento
La procedura per licenziamenti collettivi
Risarcimento del danno non patrimoniale da perdita del congiunto

Differenze tra licenziamento discriminatorio e licenziamento ritorsivo

Cass. Sez. Lav. 9 giugno 2017, n. 14456

Pres. Amoroso; Rel. Garri; P.M. Celeste; Ric. F.F. Contr. U. S.p.A.;

Licenziamento Discriminatorio - Nullità - Licenziamento ritorsivo - Prova dell'esistenza di un motivo illecito determinate - Necessità.

In caso di licenziamento discriminatorio la nullità opera obiettivamente in ragione del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta e a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro. Nell'ipotesi di licenziamento ritorsivo, invece, non solo il recesso deve essere ingiustificato, ma è necessario che il motivo che si assume illecito sia stato anche l'unico determinante.

Nota

Con ricorso depositato presso il Tribunale di Roma un lavoratore impugnava il licenziamento intimatogli da un istituto di credito deducendone l'illegittimità e chiedendo la reintegrazione nel posto di lavoro oltre al risarcimento del danno ex art. 18, L. 300/1970. Il ricorrente esponeva che gli era stato contestato di aver concesso una linea di credito in violazione delle procedure interne e di aver così esposto l'istituto ad un elevato rischio economico ma che, in realtà, egli aveva agito sempre uniformandosi alle direttive ricevute. Il Tribunale, all'esito della fase sommaria, rigettava il ricorso; in sede di opposizione, accoglieva la domanda dichiarando l'illegittimità del recesso.

La Corte di appello, cui si era rivolta la banca, rigettava l'originaria domanda del lavoratore, ritenendo che l'avallo alle operazioni ricevuto dai superiori, in violazione delle regole e procedure bancarie, non esimesse il lavoratore dalla sua responsabilità, atteso che egli si sarebbe dovuto sottrarre all'esecuzione di un ordine della cui illegittimità era pienamente consapevole. Riteneva che le condotte poste in essere dal dipendente, quale violazione delle procedure interne stabilite per la erogazione della linea di credito, costituissero un gravissimo inadempimento tale da legittimare il recesso per giusta causa. La Corte di merito escludeva, infine, che il licenziamento avesse carattere ritorsivo, come pure denunciato dal dipendente, in quanto il lavoratore non aveva allegato e dimostrato l'esistenza del motivo illecito determinante posto alla base del licenziamento, restando irrilevante la circostanza che i suoi superiori fossero stati puniti con sanzioni conservative.

Avverso tale pronuncia il lavoratore propone ricorso per cassazione, denunciando, tra l'altro, l'erroneità della sentenza di appello nella parte in cui aveva escluso la natura discriminatoria o ritorsiva del licenziamento, tenuto conto che la banca aveva sanzionato solo il ricorrente, vale a dire colui che non aveva potere decisionale, non censurando le condotte degli altri colleghi.

La Cassazione rigetta il ricorso rilevando che la Corte di appello aveva verificato che non era stata offerta la prova della ritorsività del recesso e che, di contro, il datore di lavoro era receduto dal rapporto a fronte di gravissime condotte poste in essere dal lavoratore. A tale riguardo, la Cassazione ricorda che, mentre la nullità che deriva dal divieto di discriminazione discende direttamente dalla legge nazionale ed europea (art. 4, L. 604/66, art. 15, L. 300/70, art. 3, L. 108/90 e art. 28, D. Lgs. 150/2011), nel caso di licenziamento ritorsivo l'elemento qualificante è dato dall'illiceità del motivo unico e determinante del recesso. Con la conseguenza che nel primo caso, il lavoratore può limitarsi a fornire elementi di fatto - desunti anche da dati di carattere statistico e relativi ad es. alle assunzioni, ai regimi retributivi, all'assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alle progressioni di carriera - che siano idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell'esistenza di atti o comportamenti discriminatori. Grava, invece, sul convenuto l'onere di provare l'insussistenza della discriminazione, che opera oggettivamente, in ragione del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto dell'appartenenza alla categoria protetta ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro. Nell'ipotesi in cui, diversamente, il lavoratore deduca l'esistenza di un licenziamento ritorsivo non solo il recesso deve essere illegittimo, ma è necessario che il motivo illecito sia stato anche l'unico determinante (cfr. Cass. 5 aprile 2016, n. 6575).

Nel caso di specie, la Corte di merito aveva escluso l'esistenza del motivo illecito in considerazione del fatto che il recesso costituiva la reazione datoriale a gravissimi comportamenti posti in essere dal lavoratore, con un accertamento dei fatti, a parere dei giudici di legittimità, immune da censure.

 

La tempestività della contestazione disciplinare

Cass. Sez. Lav. 13 giugno 2017, n. 14654

Pres. Nobile; Rel. De Gregorio; Ric. C.V.; Controric. T. I. S.p.A.;

Lavoro - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Licenziamento disciplinare - Principio di immediatezza della contestazione - Rilevanza dell'effettiva conoscenza dei fatti addebitati da parte del datore di lavoro - Onere della prova - Limiti.

In materia di licenziamento per giusta causa il lasso temporale tra i fatti e la contestazione, ai fini della valutazione dell'immediatezza del provvedimento espulsivo, deve decorrere dall'avvenuta conoscenza da parte del datore di lavoro della situazione contestata e non dall'astratta percettibilità o conoscibilità dei fatti stessi; in particolare, il datore di lavoro deve fornire la prova del momento in cui ha avuto la piena conoscenza dei fatti da addebitare al lavoratore e non anche delle circostanze per cui non abbia potuto effettuare la contestazione a ridosso dei fatti.

Nota

Nella sentenza in commento, la Suprema Corte fornisce ulteriori chiarimenti sul requisito della tempestività della contestazione disciplinare.

Nel caso di specie, un lavoratore, svolgente mansioni di supervisor nella gestione delle fatture insolute, veniva licenziato per giusta causa per aver applicato in suo favore, nel periodo 2006-2008, uno sconto non giustificato di oltre centocinquanta Euro.

La contestazione disciplinare veniva elevata nel gennaio 2010, all'esito di un'indagine interna avviata immediatamente dopo una denuncia anonima pervenuta alla società datrice nel dicembre 2009.

Il dipendente impugnava giudizialmente il recesso, censurando, in particolare, la carenza di tempestività della contestazione.

Sia il Tribunale che la Corte d'Appello respingevano l'impugnativa del lavoratore, reputando giustificabile il ritardo della contestazione, tenuto conto delle dimensioni dell'azienda e del fatto che soltanto nel dicembre 2009, mercé la denuncia anonima, erano emersi i fatti posti a base del provvedimento espulsivo.

Il dipendente proponeva, quindi, ricorso per cassazione, lamentando, in particolare, la violazione del requisito dell'immediatezza della contestazione disciplinare.

La Suprema Corte respinge il ricorso, ricordando, anzitutto, che il tempo della contestazione va computato in relazione al momento di conoscenza da parte del datore dell'accadimento disciplinarmente rilevante, e non già con riferimento al momento storico del fatto contestato rispetto al suo verificarsi. In altri termini - a parere dei Giudici di legittimità - il lasso temporale tra i fatti e la contestazione deve decorrere dall'avvenuta conoscenza da parte del datore della situazione contestata e non dall'astratta percettibilità o conoscibilità dei fatti stessi; in particolare, il datore deve fornire la prova del momento in cui ha avuto la piena conoscenza dei fatti da addebitare al lavoratore e non anche delle circostanze per cui non abbia potuto effettuare la contestazione a ridosso dei fatti. Peraltro, soggiunge la Cassazione, il giudizio sull'immediatezza della contestazione è sempre da valutare in rapporto alla complessità dell'organizzazione aziendale ed al tempo necessario per gli accertamenti del caso, non potendo prescindere dal momento in cui il datore sia effettivamente venuto a conoscenza della condotta disciplinarmente illecita.

 

Collegamento tra imprese del medesimo gruppo e licenziamento

Cass. Sez. Lav. 20 giugno 2017, n. 15205

Pres. Nobile; Rel. Spena; Ric. P.C.; Controric. I. S.n.c. di I. A. & C. +1;

Lavoro subordinato - Collegamento economico funzionale tra imprenditori - Imputazione del rapporto di lavoro intercorso con uno di essi anche all'altro - Ammissibilità - Condizioni

Il collegamento economico funzionale tra imprese gestite da società del medesimo gruppo non è di per sé solo sufficiente a far ritenere che gli obblighi inerenti un rapporto di lavoro subordinato, formalmente intercorso fra un lavoratore ed una di esse, si debbano estendere anche all'altra, a meno che non sussista una situazione che consente di ravvisare - anche all'eventuale fine della valutazione di sussistenza del requisito numerico per l'applicabilità della tutela reale del lavoratore licenziato - un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro; tale situazione ricorre ogni volta che vi sia una simulazione o una preordinazione in frode alla legge del frazionamento di un'unica attività tra i vari soggetti del collegamento economico - funzionale e ciò quando venga accertato in modo adeguato, attraverso l'esame delle attività di ciascuna delle imprese gestite formalmente da quei soggetti, che deve rivelare l'esistenza dei seguenti requisiti: a) unicità della struttura organizzativa e produttiva; b) integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo e il correlativo interesse comune; c) coordinamento tecnico e amministrativo - finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune; d) utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese, nel senso che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori.

Nota

Nel caso in esame il lavoratore veniva licenziato una prima volta dalla società datrice di lavoro nel 2001 e reintegrato in servizio nel 2008. Contestualmente alla reintegra veniva licenziato una seconda volta, per soppressione della posizione, dalla società datrice di lavoro la quale, medio tempore, aveva ceduto in affitto ad altra società il ramo d’azienda relativo all’attività di vendita di veicoli di una nota marca automobilistica.

Nell’impugnare il secondo licenziamento il lavoratore chiedeva il riconoscimento di un unico centro di imputazione di interessi tra le due società e la condanna di entrambe alla reintegrazione e al risarcimento del danno.

Il Tribunale di Messina riteneva sussistente tale collegamento e accoglieva le domande.

La decisione veniva però parzialmente riformata dalla Corte d’Appello che da una parte riteneva non provata la crisi aziendale dedotta dalla società datrice di lavoro, dall’altra parte riteneva non sussistente il collegamento aziendale rilevato in primo grado.

Conseguentemente la Corte territoriale condannava il datore di lavoro al solo risarcimento del danno nella misura di sei mensilità, considerato che l’insussistenza di un unico centro di imputazione comportava il venir meno del requisito dimensionale comportante la cd. tutela reale.

Contro la decisione ricorreva in Cassazione il lavoratore articolando vari motivi. Per quanto qui interessa, il lavoratore sosteneva che la Corte d’Appello avesse errato nel ritenere che non fosse in frode alla legge il frazionamento dell’attività della società datrice. In particolare, sempre secondo il lavoratore, la Corte territoriale non avrebbe considerato alcuni elementi sintomatici della volontà del datore di eludere norme imperative a tutela dei lavoratori (quali l’art. 2112 c.c.) tra cui l’identità dei numeri di fax delle società, il fatto che le stesse operassero nel medesimo edificio, che fossero amministrate da membri della medesima famiglia e che le cessioni di azienda fossero state effettuate in pendenza dei giudizi tra le parti, con una ripartizione delle attività tra le due società soltanto documentale (e non effettiva).

La Suprema Corte ha ritenuto infondato tale motivo e rigettato l’intero ricorso.

Secondo la Corte di Cassazione, infatti, i giudici di Messina hanno correttamente applicato il principio secondo cui "il collegamento economico funzionale tra imprese gestite da società del medesimo gruppo non è di per sé solo sufficiente a far ritenere che gli obblighi inerenti un rapporto di lavoro subordinato, formalmente intercorso fra un lavoratore ed una di esse, si debbano estendere anche all'altra, a meno che non sussista una situazione che consente di ravvisare - anche all'eventuale fine della valutazione di sussistenza del requisito numerico per l'applicabilità della tutela reale del lavoratore licenziato - un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro; tale situazione ricorre ogni volta che vi sia una simulazione o una preordinazione in frode alla legge del frazionamento di un'unica attività tra i vari soggetti del collegamento economico - funzionale e ciò quando venga accertato in modo adeguato, attraverso l'esame delle attività di ciascuna delle imprese gestite formalmente da quei soggetti, che deve rivelare l'esistenza dei seguenti requisiti: a) unicità della struttura organizzativa e produttiva; b) integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo e il correlativo interesse comune; c) coordinamento tecnico e amministrativo - finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune; d) utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese, nel senso che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori.".

Nel caso di specie, ha affermato la Suprema Corte, la Corte d’Appello non è incorsa in errore avendo valutato gli elementi di fatto indicati dal lavoratore ma avendo, al contempo, ritenuto insussistenti alcuni elementi necessari alla prova della preordinazione in frode alla legge della costituzione di più soggetti giuridici. La Corte ha infatti ritenuto cruciali elementi quali la diversificazione delle attività delle due società (rispondente a diverse concessioni della medesima casa automobilistica), la mancanza di un’unica struttura amministrativa e di un’utilizzazione promiscua del personale, nonché l’utilizzo di diversi locali per lo svolgimento delle attività.

 

La procedura per licenziamenti collettivi

Cass. Sez. Lav. 26 giugno 2017, n. 15861

Pres. Bronzini; Rel. Della Torre; P.M. Celentano; Ric. P.L.; Controric. I.S.P. S.p.A..

Licenziamento collettivo - Comunicazione iniziale ex art. 4, c. 3 - Contenuto - Sufficienza - Condizioni - Rilevanza dei motivi di riduzione di personale - Esercizio del controllo sindacale - Necessità.

In tema di verifica del rispetto delle regole procedurali per i licenziamenti collettivi per riduzione di personale, la sufficienza dei contenuti della comunicazione preventiva di cui alla L. 23 luglio 1991, n. 223, art. 4, comma 3, deve essere valutata in relazione ai motivi della riduzione di personale, che restano sottratti al controllo giurisdizionale, cosicchè, ove il progetto imprenditoriale sia diretto a ridimensionare l'organico dell'intero complesso aziendale al fine di diminuire il costo del lavoro, l'imprenditore può limitarsi all'indicazione del numero complessivo dei lavoratori eccedenti, suddiviso tra i diversi profili professionali previsti dalla classificazione del personale occupato nell'azienda, senza che occorra l'indicazione degli uffici o reparti con eccedenza, e ciò tanto più se si esclude qualsiasi limitazione del controllo sindacale e in presenza della conclusione di un accordo con i sindacati all'esito della procedura che, nell'ambito delle misure idonee a ridurre l'impatto sociale dei licenziamenti, adotti il criterio della scelta del possesso dei requisiti per l'accesso alla pensione.

Nota

La Suprema Corte è tornata a pronunciarsi in materia di licenziamenti collettivi, ribadendo principi ormai consolidati della Corte di legittimità.

Nel caso in esame, la Corte di Appello di Napoli, a conferma della sentenza di primo grado, rigettava la domanda del lavoratore volta alla declaratoria di illegittimità del licenziamento intimato all’esito della procedura di riduzione del personale ex L. n. 223/1991. La Corte di merito rilevava, a sostegno della propria decisione, che: a) è sufficiente, quanto ai requisiti di contenuto della comunicazione di avvio ex art. 4, c. 3, L. n. 223/1991, l’indicazione del numero complessivo dei lavoratori eccedenti, nelle ipotesi di ridimensionamento dell’intero organico per esigenze di riduzione dei costi, tanto più che la procedura era stata preceduta da varie comunicazioni e intese con le organizzazioni sindacali (come previsto dal CCNL del settore del credito); b) il criterio della prossimità alla pensione, adottato per la scelta dei lavoratori eccedenti, non presentava profili discriminatori, trattandosi di criterio oggettivo e facilmente verificabile da parte del lavoratore licenziato; c) non sussisteva alcun vizio nella comunicazione conclusiva della procedura ex art. 4, c. 9, L. n. 223/1991, osservando in proposito come, tenuto conto del criterio concordato e che il numero complessivo dei dipendenti in possesso di tale requisito era inferiore a quello per il quale la procedura era stata avviata, non fosse necessaria la comparazione con il personale rimasto in servizio, perché avente un’anzianità non sufficiente a consentirne il collocamento a riposo.

Avverso la predetta sentenza il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione, deducendo violazione e/o falsa applicazione dell’art. 4, L. n. 223/1991 in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., duolendosi, in particolare che: 1) gli obblighi di informazione ex art. 4, c. 3, l. n. 223/1991, non possono considerarsi assolti con il mero rinvio per relationem a pregressi incontri tra l’azienda e le OO.SS., peraltro insufficienti nel contenuto; 2) la L. n. 223/1991 impone, per l’avvio della procedura, l’esistenza di un esubero strutturale, reale e definitivo, di personale e non anche semplicemente l’esigenza di una riduzione dei costi; 3) ha errato la Corte nel ritenere irrilevante il mantenimento in servizio di alcuni lavoratori, anch’essi prossimi alla pensione, sulla base del rilievo che il lavoratore non avrebbe tratto alcun beneficio dal loro eventuale licenziamento, considerato il numero complessivo degli esuberi.

La Corte di legittimità ha rigettato il ricorso, ribadendo, con riferimento ai primi due profili di censura, che il grado di esaustività della comunicazione iniziale ex art. 4, c. 3, L. n. 223/1991 deve essere valutata in relazione ai motivi della riduzione di personale (che ben possono consistere nella mera riduzione dei costi) e alle informazioni che sono state fornite alle organizzazioni sindacali per svolgere in modo consapevole la funzione di controllo riconosciuta dalla legge (Cass. n. 2516/2012 e Cass. n. 11661/2012) e che, pertanto, ben può il contenuto della comunicazione iniziale essere valutato alla luce del confronto già avvenuto con le organizzazioni sindacali nell’ambito della procedura di consultazione preventiva prevista dal CCNL. La Suprema Corte ha, poi, ribadito la legittimità, quale criterio di scelta, della prossimità alla pensione, trattandosi di un criterio oggettivo che permette di scegliere, a parità di condizioni, il lavoratore che subisce il danno minore dal licenziamento, potendo sostituire il reddito da lavoro con il reddito da pensione (Cass. n. 4186/2013). Quanto all’ultima doglianza, la Corte di legittimità ha confermato quanto affermato dalla Corte territoriale, e ciò perché il ricorrente non ha dedotto che la somma dei lavoratori licenziati e di quelli mantenuti in servizio fosse superiore al numero complessivo degli esuberi, con la conseguenza che, comunque, lo stesso sarebbe stato inserito tra i dipendenti da espellere (a prescindere da qualsivoglia comparazione con quelli rimasti in servizio). Senza considerare, poi, - ha osservato la Suprema Corte - che il lavoratore non ha censurato l’accertamento di fatto operato dalla Corte di Appello, laddove la stessa ha escluso la comparabilità dei dipendenti trattenuti in servizio, in ragione della qualifica dirigenziale posseduta e della loro specifica destinazione al compito di dare attuazione al Piano d’impresa.

 

Risarcimento del danno non patrimoniale da perdita del congiunto

Cass. Sez. Lav. 13 giugno 2017, n. 14655

Pres. Napoletano; Rel. Negri Della Torre; P.M. Finocchi Ghersi; Ric. Z.C. e altri; Contr. Z.I. p.l.c. e altri;

Sicurezza sul lavoro - Decesso per malattia c.d. professionale - Diritto dei congiunti al risarcimento del danno non patrimoniale

In caso di perdita definitiva del rapporto matrimoniale e parentale, ciascuno dei familiari superstiti ha diritto ad una liquidazione comprensiva di tutto il danno non patrimoniale subito, in proporzione alla durata e intensità del vissuto, nonché alla composizione del restante nucleo familiare in grado di prestare assistenza morale e materiale, avuto riguardo all’età della vittima e a quella dei familiari danneggiati, alla capacità individuale di costoro, alla loro capacità di reazione e sopportazione del trauma e ad ogni altra circostanza del caso concreto, da allegare e provare (anche presuntivamente, secondo nozioni di comune esperienza) da parte di chi agisce in giudizio, spettando alla controparte la prova contraria di situazioni che compromettono l’unità, la continuità e l’intensità del rapporto familiare.

Nota

Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione affronta la delicata questione del risarcimento del danno a seguito di decesso del lavoratore per malattia c.d. professionale.

Nel caso in esame, i congiunti del defunto avevano proposto due domande separate: una, in qualità di eredi ("iure hereditatis"), l’altra in proprio ("iure proprio"), in quanto danneggiati anche nella propria sfera personale ed emotiva dalla perdita del congiunto. La Corte d’Appello aveva rigettato entrambe le domande, in sostanza, per vizi allegatori.

Con particolare riferimento alla domanda di danno non patrimoniale avanzata in proprio, i giudici di appello avevano ritenuto generica, o comunque errata, l’indicazione degli elementi in diritto su cui la stessa era formata (nella specie, responsabilità contrattuale, invece che extracontrattuale) e, in ogni caso, il difetto di prova dei pregiudizi causati nella vita dei ricorrenti dalla perdita del congiunto.

La Cassazione riforma la sentenza di appello sul punto, affermando che "in caso di perdita definitiva del rapporto matrimoniale e parentale, ciascuno dei familiari superstiti ha diritto ad una liquidazione comprensiva di tutto il danno non patrimoniale subito, in proporzione alla durata e intensità del vissuto, nonché alla composizione del restante nucleo familiare in grado di prestare assistenza morale e materiale, avuto riguardo all’età della vittima e a quella dei familiari danneggiati, alla capacità individuale di costoro, alla loro capacità di reazione e sopportazione del trauma e ad ogni altra circostanza del caso concreto" e chiarendo, da un lato, che l’onere della prova di siffatti pregiudizi ricade - ai sensi dell’art. 2697 c.c. - sui congiunti ricorrenti, ma, dall’altro, altresì che tale onere può essere adempiuto (come avvenuto nel caso di specie) mediante il ricorso a indici presuntivi o a nozioni di comune esperienza.

In ragione di ciò, la Corte accoglie il ricorso limitatamente alle censure mosse in relazione alla domanda svolta iure proprio dai congiunti del defunto.

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