Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per soppressione della posizione
Licenziamento per abuso di connessione internet
Licenziamento di dirigente
Licenziamento per superamento del periodo di comporto
Sull'immediatezza della contestazione disciplinare

Licenziamento per soppressione della posizione

Cass. Sez. Lav. 31 maggio 2017, n. 13808

Pres. Di Cerbo; Rel. Cinque; Ric. M.S.; Controric. E.C. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Motivazione - Specificità e completezza - Possibilità per il lavoratore di comprendere le ragioni alla base del recesso - Necessità

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Licenziamento per soppressione della posizione - Possibilità per il giudice di sindacare la scelta imprenditoriale - Esclusione

La motivazione del licenziamento deve essere sufficientemente specifica e completa ossia tale da consentire al lavoratore di individuare, con chiarezza e precisione, la causa del suo licenziamento così da potere esercitare un'adeguata difesa svolgendo e offrendo idonee osservazioni e giustificazioni.

La scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del posto di lavoro non è sindacabile nei suoi profili di congruità e di opportunità, in ossequio all'art. 41 Cost., se non attraverso il controllo sulla effettività e non pretestuosità della ragione concretamente addotta dall'imprenditore a giustificazione del recesso.

Nota

Nel caso in esame la Corte d’Appello di Bologna confermava la decisione del Tribunale di Reggio Emilia con la quale era stata respinta la domanda, proposta dalla lavoratrice, di dichiarare l’illegittimità del licenziamento irrogatole per giustificato motivo oggettivo, consistente nella soppressione della posizione.

Alla base delle sue pretese la lavoratrice poneva, tra l’altro, l’insufficiente motivazione del licenziamento.

Contro la decisione della Corte d’Appello ricorreva in Cassazione la lavoratrice articolando due motivi, entrambi afferenti la motivazione del recesso.

Con il primo motivo la lavoratrice sosteneva, tra l’altro, che la motivazione del licenziamento non avrebbe dovuto riguardare soltanto la situazione complessiva del datore ma anche le specifiche ragioni della soppressione. Con il secondo motivo lamentava sia la mancata indagine della Corte territoriale rispetto all’effettività della ragione addotta, perché il calo del fatturato posto alla base del licenziamento si era verificato in misura minore nelle zone di competenza della lavoratrice rispetto ad altre, sia il fatto che il licenziamento di una sola dipendente in una zona che non era la più colpita dal calo di fatturato era in contrasto con l’idea di un licenziamento per contenimento dei costi.

La Corte di Cassazione ha ritenuto infondati entrambi i motivi.

Quanto al primo motivo la Suprema Corte ha ribadito un suo costante orientamento secondo il quale "La motivazione del licenziamento deve essere sufficientemente specifica e completa ossia tale da consentire al lavoratore di individuare, con chiarezza e precisione, la causa del suo licenziamento così da potere esercitare un'adeguata difesa svolgendo e offrendo idonee osservazioni e giustificazioni".

Nel caso di specie la Corte ha ritenuto che la motivazione della sentenza impugnata fosse rispettosa del principio sopra richiamato in quanto nella stessa era stato fatto riferimento: alla difficile congiuntura economica con il conseguente calo dell'attività commerciale; alla necessità di riorganizzazione aziendale con razionalizzazione del reparto commerciale; alla soppressione del posto della lavoratrice; alla assegnazione delle mansioni da essa svolte all'amministratore della società.

Tali riferimenti sono stati ritenuti sufficienti dalla Corte.

Anche con riferimento al secondo motivo la Cassazione ha ribadito un orientamento già espresso in pronunce precedenti secondo il quale "la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del posto di lavoro non è sindacabile nei suoi profili di congruità e di opportunità, in ossequio all'art. 41 Cost., se non attraverso il controllo sulla effettività e non pretestuosità della ragione concretamente addotta dall'imprenditore a giustificazione del recesso.".

Sulla scorta di tale principio la Corte ha escluso la pretestuosità della ragione addotta dal datore, rilevando che la Corte territoriale, con motivazione congrua e logica, aveva accertato l'esistenza del calo dell'attività commerciale della società; aveva verificato che la sostituzione della lavoratrice non fosse avvenuta con altro lavoratore assunto ma devolvendo i suoi compiti all'amministratore della società; aveva, infine, appurato il nesso di causalità tra l'accertata ragione inerente l'attività produttiva, l'organizzazione del lavoro e l'intimato licenziamento in termini di riferibilità e di coerenza rispetto all'operata riorganizzazione.

Pertanto, la Suprema Corte ha confermato la decisione della Corte d’Appello ed ha respinto l’intero ricorso.

 

Licenziamento per abuso di connessione internet

Cass. Sez. Lav. 15 giugno 2017, n. 14862

Pres. Di Cerbo; Rel. Negri Della Torre; P.M. Mastroberardino; Ric. G.G.; Contr. A.I. S.p.A.;

Licenziamento disciplinare - Controllo traffico internet su pc aziendale - Ammissibile - Violazione privacy - Esclusione - Violazione art. 4, Stat. Lav. (vecchia formulazione) - Esclusione.

È legittima la condotta del datore che esamini i dati del traffico internet del dipendente sul pc assegnatogli in dotazione, senza analizzare quali siti lo stesso abbia visitato durante la connessione, né la tipologia dei dati scaricati, ma limitandosi a valutare i dettagli del traffico (data, ora, durata della connessione e volume del traffico). Tale comportamento non coinvolge né profili di violazione della privacy - considerato che i dati non forniscono indicazioni di elementi riferibili alla persona dell'utente, alle sue scelte politiche, religiose, sessuali ma restano confinati in una sfera estrinseca e quantitativa - né violazione dell'art. 4 Stat. Lav., atteso che il controllo non ha ad oggetto la prestazione lavorativa e il suo esatto adempimento, ma esclusivamente la realizzazione di comportamenti illeciti da parte del dipendente, idonei a ledere il patrimonio aziendale sotto il profilo della sua integrità, del regolare funzionamento e della sicurezza degli impianti.

Nota

La Corte di appello di Bologna, confermando la decisione del Tribunale, respingeva il reclamo proposto da un lavoratore teso ad ottenere la declaratoria di illegittimità del recesso intimatogli per abuso della connessione internet del PC assegnatogli in dotazione e, conseguentemente, dichiarava risolto il rapporto di lavoro, condannando la società, ex art. 18, comma 5, L. 300/1970, al pagamento di venti mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.

La Corte di appello aveva rilevato che si era dinanzi ad un uso della dotazione aziendale per fini personali non sporadico o eccezionale ma, al contrario, sistematico e ciò in considerazione del numero di connessioni (47) della durata dell'accesso (complessivamente 45 ore) e della rilevante entità di traffico - nei soli mesi di aprile e maggio 2013 - ragione per cui doveva ritenersi sussistente il giustificato motivo soggettivo di recesso.

Il lavoratore propone ricorso per cassazione denunciando l'erroneità della sentenza per falsa applicazione dell'art. 7, L. 300/70, e dell'art. 2104 c.c., in quanto la Corte di appello aveva ritenuto irrilevante che egli non avesse avuto contezza del regolamento adottato nel 2011 dall'azienda sull'utilizzo degli apparati mobili aziendali.

La Cassazione respinge il motivo, rilevando che, come correttamente sottolineato dai giudici di merito, la condotta contestata era contraria alle elementari regole del vivere comune e al contenuto del generale obbligo di diligenza previsto dall'art. 2104 c.c. Invero, è principio consolidato della Suprema Corte che l'onere di pubblicità del codice disciplinare, previsto dall'art. 7, L. 300, si applichi solo qualora il recesso sia intimato per una delle ipotesi di comportamento illecito vietate e sanzionate da norme della contrattazione collettiva o da quelle legittimamente poste dal datore di lavoro, entrambe soggette all'obbligo di pubblicità. Tale obbligo non sussiste quando il datore di lavoro contesti un comportamento che integri una violazione di una norma penale o sia manifestamente contrario all'etica comune o, ancora, concreti un notevole inadempimento dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro, poiché in tal caso il potere di licenziamento deriva direttamente dalla legge, ex art. 2119 c.c. e artt. 1 e 3, L. 604/66. (Cass. del 10 novembre 2000, n. 14615). Nel caso di specie, a parere della Cassazione, la Corte di merito aveva rilevato come ci si trovasse di fronte ad un utilizzo della dotazione aziendale per fini personali non sporadico o eccezionale ma sistematico, in considerazione della frequenza, della durata e dello scambio di dati di traffico e tale condotta integrava un utilizzo indebito dello strumento datoriale, non solo reiterato ma anche intenzionale.

Con successivo motivo, il lavoratore denuncia la violazione della normativa sulla tutela della riservatezza e dell'art. 4, L. 300/70, considerato che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di appello, anche le indicazioni - contenute nella lettera di contestazione disciplinare - relative alla data, all'ora, alla durata della connessione e al volume del traffico, dovevano considerarsi "dati personali" con ogni conseguenza rispetto al loto trattamento.

La Cassazione respinge anche tale motivo evidenziando che i dettagli del traffico, come riportati nella lettera di contestazione, non costituivano "dati personali", non comportando alcuna indicazione di elementi riferibili alla persona dell'utente e alle sue scelte o attitudini politiche, religiose, culturali e sessuali. Inoltre, è inconferente, sempre secondo i giudici di legittimità, il richiamo alla previsione di cui all'art. 4, L. 300/1970 (vecchia formulazione) in quanto è controllo a distanza vietato quello che verte sulla prestazione lavorativa e sul suo esatto adempimento, mentre è esclusa dal campo di applicazione della norma l'attività volta ad individuare la realizzazione di comportamenti illeciti da parte del dipendente idonei a ledere il patrimonio aziendale sotto il profilo della sua integrità, del regolare funzionamento e della sicurezza degli impianti (Cass. del 27 maggio 2015 n. 10955).

 

Licenziamento di dirigente

Cass. Sez. Lav. 21 giugno 2017, n. 15380

Pres. Amoroso; Rel. Garri; P.M. Celeste; Ric. C.A.M.; Controric. C.P. S.p.A..

Dirigente d'azienda - Licenziamento individuale - Giustificatezza - Ragioni oggettive - Nozione - Contemperamento del principio di buona fede e correttezza con quello di libertà dell’iniziativa economica - Necessità - Fattispecie

Il licenziamento individuale del dirigente d'azienda può fondarsi su ragioni oggettive concernenti esigenze di riorganizzazione aziendale, che non debbono necessariamente coincidere con l'impossibilità della continuazione del rapporto o con una situazione di crisi tale da rendere particolarmente onerosa detta continuazione, dato che il principio di correttezza e buona fede, che costituisce il parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento, deve essere coordinato con la libertà di iniziativa economica, garantita dall'art. 41 Cost. (Nella specie, la Suprema Corte ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto giustificato il licenziamento del dirigente, a causa della soppressione del posto, con avocazione delle relative mansioni da parte dell’amministratore delegato).

Nota

La Suprema Corte torna a pronunciarsi in materia di licenziamento del dirigente, e lo fa precisando la nozione contrattual-collettiva di "giustificatezza oggettiva".

La fattispecie al vaglio della Corte attiene ad un licenziamento intimato a un dirigente in seguito alla soppressione della posizione dallo stesso ricoperta, conseguente a trasferimento di ramo d’azienda, con avocazione dei compiti da parte dell’amministratore delegato e direttore generale della società cessionaria. La Corte d’Appello di Roma, al pari del giudice di primo grado, accertava che il predetto licenziamento era giustificato, escludendo che nel comportamento della società fosse ravvisabile una violazione dei doveri di correttezza e buona fede in relazione alla mancata attribuzione della carica di direttore generale della società cessionaria. La Corte territoriale osservava, infatti, come l’inadempimento della promessa di attribuire il ruolo di direttore generale successivamente al trasferimento del ramo di azienda, ove pure provato, non avrebbe potuto in alcun modo incidere sulla valutazione della giustificatezza del recesso, ma avrebbe costituito, semmai, il titolo per ottenere un risarcimento del danno da inadempimento che, tuttavia, nello specifico, non era stato chiesto. In sostanza, la Corte di merito evidenziava che: a) la legittimità del recesso doveva essere verificata attraverso l’indagine sulla effettività della ragione posta a suo fondamento e che la mancata assegnazione del ruolo promesso rilevava invece sotto il diverso profilo della responsabilità negoziale; b) non era stata comunque fornita dalla lavoratrice la prova di un impegno vincolante all’assegnazione dell’incarico paventato. Il giudice di secondo grado, infine, in accoglimento dell’appello incidentale proposto dalla società, riformava la sentenza di primo grado nella parte in cui accoglieva la domanda di ricalcolo dell’indennità di mancato preavviso con inclusione dei bonus annuali percepiti, atteso che siffatta inclusione avrebbe attivato un "meccanismo di moltiplicazione", computandosi l’indennità di mancato preavviso nel calcolo del TFR.

Avverso la predetta sentenza, la lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione.

La Corte di legittimità ha confermato il capo di sentenza con il quale è stata accertata la giustificatezza del licenziamento, avendo osservato come la Corte di merito abbia fatto corretta applicazione del principio, unanimamente condiviso (v. ex plurimis Cass. 20/06/2016, n. 12668; Cass. 08/03/2012, n. 3268; Cass. 21/10/2010, n. 21748) secondo cui è ammesso il licenziamento del dirigente se deriva da una scelta imprenditoriale (cd. giustificatezza "oggettiva"), purchè sorretta da motivazioni organizzative e produttive dell'impresa e non da una valutazione arbitraria, fondata esclusivamente su ragioni pretestuose.

La Suprema Corte ha, invece, cassato la pronuncia della Corte d’Appello di Milano, nella parte in cui ha escluso i bonus dal computo dell’indennità di mancato preavviso, ritenendo tale interpretazione violativa dell’art. 2121 c.c., che contiene una previsione di onnicomprensività della retribuzione non derogabile, analogamente alla disposizione collettiva di settore che regola il preavviso. Per tale ragione, la Corte di legittimità, essendo incontestato l’importo richiesto dalla lavoratrice a tale titolo, ha deciso la causa nel merito, condannando la società al pagamento in favore della lavoratrice della somma già riconosciutale dal Tribunale.

 

Licenziamento per superamento del periodo di comporto

Cass. Sez. Lav. 19 giugno 2017, n. 15069

Pres. Bronzini; Rel. Cinque; P.M. Celeste; Ric. M.S.M s.p.a.; Contr. B.S.;

Licenziamento per superamento del periodo di comporto - Motivi del licenziamento - Obbligo di specificazione - Impugnativa del licenziamento (anche solo stragiudiziale) già avvenuta - Insussistenza

Allorquando il lavoratore abbia direttamente impugnato il licenziamento, anche in via stragiudiziale, per superamento del periodo di comporto, la mancata ottemperanza del datore di lavoro alla richiesta di esplicitazione dei motivi è ininfluente ai fini della legittimità del licenziamento stesso.

Nota

Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione torna sull’interessante questione della eventuale necessità di specificare i motivi del licenziamento per superamento del periodo di comporto, a seguito di richiesta del lavoratore.

Nel caso in esame, la Società non aveva dato seguito alla richiesta del lavoratore, anche in considerazione del fatto che quest’ultimo aveva richiesto la specificazione dei motivi (evidentemente, da intendersi come l’indicazione dettagliata delle giornate di assenza per malattia conteggiate ai fini del periodo di comporto), contestualmente impugnando - in via stragiudiziale - il recesso. La Corte d’Appello, in adesione ad un orientamento della Suprema Corte che sancisce, a seguito di richiesta del lavoratore, l’obbligo di specificare i motivi del licenziamento, anche quando - come nel caso di specie - si tratti di dati già noti al lavoratore (ossia, le giornate di assenza per malattia da costui effettuate), aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento.

La Cassazione riforma la sentenza di appello, ritenendo determinante il fatto che il lavoratore, contestualmente alla richiesta di specificazione dei motivi, avesse altresì proceduto all’impugnativa (in via stragiudiziale) del licenziamento, così facendo decorrere i termini per proporre l’azione giudiziale di annullamento dello stesso e, quindi, determinando "la consumazione di uno spatium deliberandi cui avrebbe avuto diritto attraverso l’ottenimento di una motivazione espressa del recesso".

In sostanza, a parere della Corte, considerato altresì che l’onere della prova in giudizio sulla fondatezza del licenziamento ricade interamente sul datore di lavoro, il fatto che il lavoratore, pur non conoscendo i motivi specifici del licenziamento, lo abbia comunque impugnato, anche solo in via stragiudiziale, rende superflua la specificazione - beninteso, in fase stragiudiziale - dei motivi, giacché il lavoratore con l’atto di impugnativa ha già consumato quel potere di deliberazione sull’eventuale impugnativa dello stesso, rispetto al quale la conoscenza dei motivi specifici è propedeutica.

 

Sull’immediatezza della contestazione disciplinare

Cass. Sez. Lav. 26 maggio 2017, n. 13391

Pres. Macioce; Rel. Di Paolantonio; Ric. B.M.P.S.; Controric. C.G.;

Lavoro - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Licenziamento disciplinare - Principio della immediatezza della contestazione - Carattere relativo - Correttezza e buona fede - Accertamento dei fatti oggetto di contestazione - Limiti.

L'immediatezza della contestazione, rispetto al momento della condotta addebitata, costituisce un elemento costitutivo del diritto al recesso del datore, in quanto tale principio mira, da un lato, ad assicurare al dipendente incolpato il diritto di difesa nella sua effettività, così da consentirgli il pronto allestimento del materiale difensivo per poter contrastare più efficacemente il contenuto degli addebiti; e, dall'altro, a tutelare il legittimo affidamento del prestatore sulla mancanza di connotazioni disciplinari del fatto incriminabile, affidamento che si correla al carattere facoltativo dell'esercizio del potere disciplinare, nella cui esplicazione il datore deve comportarsi in conformità ai canoni di correttezza e buona fede.  

Nota

Nella sentenza in commento, la Suprema Corte chiarisce la nozione di immediatezza della contestazione disciplinare.

Nel caso di specie, un lavoratore veniva licenziato per aver utilizzato rapporti di conto corrente, accesi a suo nome e rientranti nella categoria dei conti intestati al personale, per effettuare operazioni che riguardavano l'attività di intermediazione finanziaria svolta da suoi familiari nonché per essere intervenuto direttamente nell'iter istruttorio di alcune pratiche di finanziamento seguite da suo figlio in qualità di intermediatore finanziario. Tali fatti, verificatisi nel periodo compreso tra il 2006 ed il 2009, venivano contestati il 19 maggio 2011, ancorché già noti alla società datrice di lavoro sin dal giugno 2010, allorquando il dipendente era stato ascoltato - sui medesimi episodi poi oggetto della contestazione disciplinare - dai funzionari del servizio ispettivo della società.

Sia il Tribunale che la Corte territoriale dichiaravano la illegittimità del recesso per tardività della contestazione, ordinando la reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro, sull'assunto che l'arco temporale compreso fra l'audizione e la contestazione - effettuata a distanza di quasi un anno - fosse privo di giustificazione.

La società datrice proponeva, quindi, ricorso per cassazione, lamentando, in particolare, "violazione e falsa applicazione dell'art. 7 della legge n. 300 del 1970 anche in relazione agli artt. 1175 e 1375 c.c.".

La Suprema Corte respinge il ricorso, ricordando, anzitutto, che l'immediatezza del provvedimento espulsivo, rispetto al momento della condotta addebitata, costituisce un elemento costitutivo del diritto al recesso del datore, in quanto tale principio mira, da un lato, ad assicurare al dipendente incolpato il diritto di difesa nella sua effettività, così da consentirgli il pronto allestimento del materiale difensivo per poter contrastare più efficacemente il contenuto degli addebiti; e, dall'altro, a tutelare il legittimo affidamento del prestatore sulla mancanza di connotazioni disciplinari del fatto incriminabile, affidamento che si correla al carattere facoltativo dell'esercizio del potere, nella cui esplicazione il datore deve comportarsi in conformità ai canoni di correttezza e buona fede.

È, altresì, vero - soggiunge il Supremo Collegio - che il requisito dell'immediatezza va inteso in senso relativo, potendo essere compatibile con un intervallo di tempo, più o meno lungo, quando l'accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell'impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso, restando riservata - in dette ipotesi - al giudice del merito l'indagine relativa alla effettiva sussistenza di ragioni idonee a giustificare il ritardo.

Ebbene, sulla base di tali principi, la Cassazione ritiene che la Corte territoriale, contrariamente a quanto lamentato dalla società datrice, non abbia affatto affermato il carattere assoluto e non relativo del principio della immediatezza, avendo i Giudici d'appello correttamente sottolineato la perfetta coincidenza tra i fatti contestati e quelli sui quali il lavoratore era già stato sentito un anno prima dell'avvio del procedimento disciplinare, nonché l'assenza di ragioni per le quali, a fronte delle predette ammissioni del dipendente, doveva ritenersi giustificabile l'arco di tempo trascorso fra l'audizione effettuata dal servizio ispettivo della società e il formale avvio del procedimento disciplinare, avvenuto a distanza di circa un anno.

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