Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Gruppo di imprese e unico centro di imputazione del rapporto di lavoro
Procedimento disciplinare: procedura
Licenziamento per recidiva
Appalto e sicurezza sul lavoro
Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore

Gruppo di imprese e unico centro di imputazione del rapporto di lavoro

Cass. Sez. Lav. 5 maggio 2017, n. 11018

Pres. Nobile; Rel. Garri; P.M. Sanlorenzo; Ric. P.E.E.; Contr. V.R. e altri;

Gruppo di imprese - Collegamento economico-funzionale tra le imprese del gruppo - Autonomia delle singole società - Unico centro di imputazione del rapporto di lavoro - Condizioni

Il collegamento economico-funzionale tra imprese gestite da società di un medesimo gruppo non comporta il venir meno dell’autonomia delle singole società dotate di personalità giuridica distinta, alle quali continuano a fare capo i rapporti di lavoro del personale in servizio presso le distinte e rispettive imprese; tale collegamento, pertanto, non è di per sé solo sufficiente a far ritenere che gli obblighi inerenti ad un rapporto di lavoro subordinato, intercorso tra un lavoratore e una di tali società, si estendano ad altri dello stesso gruppo. Resta salva, peraltro, la possibilità di ravvisare un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro ogni volta che vi sia una simulazione o una preordinazione in frode alla legge del frazionamento di un’unica attività fra vari soggetti.

Nota

Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione affronta la delicata questione delle condizioni affinché, all’interno di un gruppo di imprese, possa ravvisarsi l’esistenza di un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro tra le imprese appartenenti al gruppo stesso.

Nel caso di specie, un lavoratore, impugnando il licenziamento intimato da una Società del gruppo, chiedeva altresì l’accertamento dell’esistenza del rapporto di lavoro altresì nei confronti della società capogruppo, nell’interesse esclusivo della quale assumeva di aver lavorato. Ed infatti, l’ex-dipendente sosteneva che la dislocazione presso la controllata era dovuta unicamente a garantire alla capogruppo l’efficacia dell’azione, da quest’ultima esercitata, di orientamento e controllo sulle società collegate e, in ogni caso, che l’imputazione alla società controllata era relativa solo ai costi e non al ruolo di datore di lavoro che, viceversa, veniva esercitato dalla capogruppo.

La Cassazione ribadisce il proprio orientamento "prudenziale", in base al quale l’esistenza di un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro, deve essere accertata "in modo adeguato dal giudice di merito attraverso l’esame delle attività di ciascuna delle imprese gestite formalmente da soggetti diversi e deve rivelare l’esistenza dei seguenti requisiti: a) unicità della struttura organizzativa e produttiva; b) integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo e il correlativo interesse comune; c) coordinamento tecnico e amministrativo-finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune; d) utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese, nel senso che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori". Conseguenza immediata di ciò è il principio riportato in massima, in base al quale il mero "collegamento economico-funzionale tra imprese gestite da società di un medesimo gruppo non comporta il venir meno dell’autonomia delle singole società dotate di personalità giuridica distinta", con ciò che ne consegue sull’imputabilità dei rapporti di lavoro, che rimane distinta tra le varie società del gruppo. Importante aggiungere che la Corte fa sempre salva l’ipotesi di "una simulazione o una preordinazione in frode alla legge del frazionamento di un’unica attività fra vari soggetti", fattispecie che comporta, in ogni caso, "la possibilità di ravvisare un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro".

Sulla base dei principi appena enunciati, la S.C. ha rigettato il ricorso promosso dall’ex dipendente per mancata prova dei requisiti richiesti ai fini dell’accertamento dell’esistenza dell’unico centro di imputazione di interessi.

 

Procedimento disciplinare: procedura

Cass. Sez. Lav. 12 maggio 2017, n. 11895

Pres. Napoletano; Rel. Lorito; P.M. Ghersi; Ric. R.F.I. s.p.a.; Controric. M.R..

Licenziamento disciplinare - Giustificazioni scritte - Richiesta contestuale di audizione orale - Diritto del lavoratore - Sussistenza

Il datore di lavoro, il quale intenda adottare una sanzione disciplinare, non può omettere l’audizione del lavoratore incolpato ove quest’ultimo ne abbia fatto richiesta espressa contestualmente alla comunicazione, nel termine di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 7, comma 5, di giustificazioni scritte, anche se queste siano ampie e potenzialmente esaustive.

Nota

La Corte d’Appello di Messina, a conferma della sentenza di primo grado, dichiarava illegittimo il licenziamento per violazione del procedimento disciplinare ex art. 7 Stat. Lav., con conseguente applicazione della tutela reintegratoria e risarcitoria ex art. 18 L. n. 300/1970 (versione precedente alla riforma Fornero del 2012), per aver il datore di lavoro omesso di effettuare l’audizione orale richiesta dal lavoratore contestualmente alla comunicazione di giustificazioni scritte. La corte di merito rilevava come la mancata audizione del lavoratore, che ne avesse fatto richiesta, integrava un vulnus al diritto di difesa tutelato ex art. 7 Stat. Lav., anche nel caso in cui fossero state rese giustificazioni scritte ampie e potenzialmente esaustive.

Avverso la predetta sentenza l’azienda ha proposto ricorso per Cassazione, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 c.c., 7 Stat. Lav. e 1175 e 1375 c.c., per non aver fatto la Corte territoriale buon governo delle suddette disposizioni e, segnatamente, dei principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto, laddove ha ritenuto che il datore di lavoro dovesse dare corso ad una richiesta di audizione ingiustificatamente finalizzata a ritardare la definizione del procedimento, pur in presenza di giustificazioni scritte esaustive e complete.

La Corte di legittimità ha rigettato il ricorso, ribadendo il principio secondo cui il datore di lavoro che intenda adottare una sanzione disciplinare nei confronti del dipendente non può omettere l’audizione del lavoratore incolpato il quale, ancorché abbia inviato una compiuta comunicazione scritta, ne abbia fatto espressa richiesta e sempre che tale volontà sia espressa in termini univoci (Cass. 26/10/2010, n. 21899; Cass. 22/03/2010, n. 6845). In tale ipotesi, infatti - ha affermato la Suprema Corte - le giustificazioni scritte, per il solo fatto che si accompagnino alla richiesta di audizione, sono ritenute dal lavoratore stesso non esaustive e destinate ad integrarsi con le giustificazioni che lo stesso eventualmente aggiunga o precisi in sede di audizione.

 

Licenziamento per recidiva

Cass. Sez. Lav. 4 maggio 2017, n. 10838

Pres. Nobile; Rel. Curcio; P.M. Sanlorenzo; Ric. A S. S.p.A. in liquidazione; Contr. F.V.;

Licenziamento - Giusta causa - Recidiva - Previsione del CCNL - Non vincolatività per il giudice - Valutazione in concreto della proporzionalità della sanzione irrogata - Necessità.

La previsione, da parte della contrattazione collettiva, della recidiva in successive mancanze disciplinari come ipotesi di giustificato motivo di licenziamento non esclude il potere del giudice di valutare la gravità in concreto dei singoli fatti addebitati, ancorché connotati dalla recidiva, ai fini dell'accertamento della proporzionalità della sanzione espulsiva. Con la conseguenza che, qualora la contrattazione collettiva preveda una ipotesi automatica di sanzione disciplinare, prescindendo dalla valutazione della proporzionalità rispetto alla infrazione commessa, la stessa deve considerarsi nulla e, quindi, inapplicabile per contrasto con le norme imperative.

Nota

La Corte di appello di Napoli, in riforma della sentenza del Tribunale di S. Maria Capua Vetere, accoglieva la domanda avanzata da una lavoratrice tesa a far dichiarare l'illegittimità del licenziamento intimatole per giusta causa per assenza ingiustificata. A parere della Corte di appello, diversamente da quanto ritenuto dal primo giudice, dall'istruttoria era emerso che la lavoratrice era risultata assente ingiustificata per una sola giornata - 15 luglio 2009 - mentre per la giornata successiva, dalle testimonianze, era risultato che la stessa si era adoperata per farsi rilasciare una certificazione medica in assenza del suo medico curante. Per la Corte di merito, quindi, non vi erano gli estremi perché si configurasse una giusta causa di licenziamento.

Avverso tale statuizione, la società propone ricorso per cassazione denunciando, in primo luogo, la violazione delle norme del contratto collettivo laddove la corte di merito non aveva considerato che l'art. 47 del CCNL industria alimentare onerava il lavoratore di aggiornare il datore di lavoro sul proprio stato di malattia, in modo da consentirgli gli adattamenti necessari in ragione del perdurare dell'assenza.

La Cassazione respinge il motivo, rilevando che il contratto collettivo richiede unicamente che il lavoratore comunichi ad inizio turno la propria assenza e che, entro i due giorni successivi, invii il certificato medico, mentre non vi è alcun obbligo di comunicare gli sviluppi della malattia. Altro è il dovere di correttezza che il lavoratore deve osservare nell'esecuzione del rapporto, eventualmente avvisando il datore di lavoro del perdurare dell'assenza, ove non sia stato in grado di inviare tempestivamente il certificato. A parere della Cassazione i giudici di merito, con una valutazione insindacabile in sede di legittimità, avevano ritenuto che la lavoratrice avesse tempestivamente avvisato il datore di lavoro dell'inizio della malattia e si fosse adoperata per l'invio della certificazione medica.

Con successivo motivo, la società lamenta un'erronea applicazione dell'art. 2106 c.c. e dell'art. 70 CCNL in tema di recidiva, laddove la Corte di appello non aveva considerato che la norma collettiva prevedeva come espressa ipotesi di illecito disciplinare sanzionabile con il licenziamento, proprio la recidiva espressamente contestata, senza peraltro che fosse necessario valutare il venir meno del vincolo fiduciario, avendolo già escluso la predetta norma.

La Cassazione respinge anche tale motivo evidenziando che costantemente la sezione ha ritenuto che la previsione, da parte della contrattazione collettiva, della recidiva in successive mancanze disciplinari come ipotesi di giustificato motivo di licenziamento non esclude il potere del giudice di valutare la gravità in concreto dei singoli fatti addebitati, ancorché connotati dalla recidiva, ai fini dell'accertamento della proporzionalità della sanzione espulsiva e ciò ai sensi delle norme di cui all'art. 3, L. n. 604/66 e art. 7, L. n. 300/70 (Cass. 2 luglio 1992, n. 8098). Ciò in quanto la sanzione irrogata al lavoratore deve essere sempre proporzionata alla condotta posta in essere, con la conseguenza che, qualora la contrattazione collettiva preveda una ipotesi automatica di sanzione disciplinare, prescindendo dalla valutazione della proporzionalità rispetto alla infrazione commessa, la stessa deve considerarsi nulla e, quindi, inapplicabile per contrasto con le norme imperative (Cass. 25 novembre 1996, n. 10441). Ad avviso della Corte di Cassazione il giudice di merito ha fatto corretta applicazione dei princìpi sopra espressi laddove, esaminando i singoli fatti e valutando la gravità della condotta della lavoratrice, ha ritenuto che la recidiva non avesse aggravato la lieve infrazione accertata.

 

Appalto e sicurezza sul lavoro

Cass. Sez. Lav. 9 maggio 2017, n. 11311

Pres. D’Antonio; Rel. Berrino; Ric. I.N.A.I.L.; Controric. S.G.P.;

Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Tutela delle condizioni di lavoro - Appalto - Responsabilità del committente per violazione delle norme di sicurezza del lavoro - Configurabilità - Condizioni - Fattispecie con applicazione ratione temporis del D.Lgs. 626/1994

In materia di appalto, la responsabilità per la violazione dell'obbligo di adottare le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica dei prestatori di lavoro si estende al committente ove lo stesso si sia reso garante della vigilanza relativa alla misura da adottare in concreto e si sia riservato i poteri tecnico organizzativi dell'opera da eseguire.

Nota

La decisione in commento riguarda i limiti e le condizioni della responsabilità del committente di un contratto d’appalto in relazione alla tutela dell’integrità fisica e della personalità morale dei lavoratori dell’appaltatore addetti alla commessa. Nella fattispecie in esame, in cui era applicabile ratione temporis il D.Lgs. 626/1994, nel corso di un appalto eseguito presso luogo di proprietà del committente, un lavoratore perdeva la vita cadendo da un ponteggio di proprietà della ditta appaltatrice.

L’I.N.A.I.L., che aveva dovuto pagare un indennizzo per l’infortunio occorso al lavoratore, proponeva azione di regresso nei confronti del committente.

La domanda veniva accolta in primo grado, con condanna del committente al pagamento di Euro 145.000 in favore dell’I.N.A.I.L., ma veniva riformata dalla Corte d’Appello di Cagliari che accoglieva l’impugnazione del committente. In particolare, la Corte d’Appello rilevava che non vi era stata alcuna ingerenza da parte del committente nell’espletamento del lavoro in cui il lavoratore aveva perso la vita. Contro tale decisione ricorreva per Cassazione l’I.N.A.I.L. articolando due motivi. In primo luogo contestava l’assunzione della Corte secondo la quale, in un appalto, il committente è responsabile dell’integrità psicofisica dei lavoratori solo ove si sia reso garante della vigilanza ed abbia i relativi poteri tecnico organizzativi e chiedeva alla Suprema Corte se lo stesso, invece, non conservasse una posizione di garanzia rispetto alle violazioni della disciplina in materia di sicurezza sul lavoro, quantomeno con riferimento a quelle palesi. In secondo luogo l’I.N.A.I.L. sosteneva che dalla decisione della Corte territoriale trasparisse il convincimento, espressamente contestato, che l’azione di regresso dell’Istituto per infortunio sul lavoro fosse esercitabile soltanto nei confronti del datore di lavoro e dei suoi ausiliari.

La Corte di Cassazione ha esaminato congiuntamente i motivi di cui sopra e li ha ritenuti infondati entrambi.

La Suprema Corte, infatti, ha ribadito un suo costante orientamento secondo il quale "in materia di appalto, la responsabilità per la violazione dell'obbligo di adottare le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica dei prestatori di lavoro si estende al committente ove lo stesso si sia reso garante della vigilanza relativa alla misura da adottare in concreto e si sia riservato i poteri tecnico organizzativi dell'opera da eseguire". Al contempo la Corte di Cassazione ha affermato che "l’art. 2087 cod. civ., che, integrando le disposizioni in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro previste da leggi speciali, impone all’imprenditore l’adozione di misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro, è applicabile anche nei confronti del committente, tenuto al dovere di provvedere alle misure di sicurezza dei lavoratori anche se non dipendenti da lui, ove egli stesso si sia reso garante della vigilanza relativa alle misure da adottare in concreto, riservandosi i poteri tecnico - organizzativi dell’opera da eseguire.".

Sulla scorta dei principi di cui sopra, di cui la Corte d’Appello aveva fatto applicazione, la Suprema Corte ha confermato la decisione della Corte d’Appello e ha rigettato integralmente il ricorso. Secondo la Cassazione, infatti, la Corte d’Appello aveva fatto corretta applicazione delle regole sopra enunciate, rilevando che al committente non poteva essere imputata alcuna responsabilità in merito all’infortunio occorso non essendosi lo stesso ingerito in alcun modo dell’appalto, tanto meno con riferimento alla salute e alla sicurezza sul lavoro.

 

Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore

Cass. Sez. Lav. 16 maggio 2017, n. 12110

Pres. Napoletano; Rel. De Felice; Ric. N.B.; Controric. S.M.;

Lavoro - Lavoro Subordinato - Infortunio sul luogo di lavoro - Responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. - Colpa e nesso causale - Responsabilità contrattuale per omissione - Prova liberatoria - Adozione di cautele previste in via generale e specifica dalle norme antinfortunistiche - Criterio di massima sicurezza tecnologicamente possibile - Onere della prova.

La responsabilità del datore di lavoro, in caso d’infortunio occorso durante lo svolgimento della prestazione di lavoro, discende tanto dalla mancata adozione delle specifiche misure e dei presidi imposti dalle norme antinfortunistiche quanto dalla violazione della clausola generale dell’art. 2087 c.c., in forza della quale grava sul datore l’onere di dimostrare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, adottando tutti gli accorgimenti e le misure necessarie a evitare il verificarsi di lesioni di beni primari come la salute e l'integrità fisica, secondo un criterio di massima sicurezza tecnologicamente possibile.

Nota

Nella sentenza in commento, la Suprema Corte ribadisce i presupposti per l’imputazione in capo al datore di lavoro della responsabilità risarcitoria per gli infortuni occorsi ai dipendenti durante lo svolgimento della prestazione di lavoro: tale responsabilità discende, alternativamente, dalla mancata predisposizione delle misure idonee a tutelare l’integrità fisica del lavoratore previste da norme specifiche ovvero dalla violazione della norma di ordine generale di cui all’art. 2087 c.c., giusto la quale il datore è tenuto ad adottare tutte le cautele che, secondo un criterio di massima sicurezza tecnologicamente possibile, e ancorché non prescritte da norme antinfortunistiche, siano atte a preservare l’integrità psico-fisica dei lavoratori.

Nel caso di specie, un dipendente addetto alla raccolta delle mele presso un'azienda agricola lamentava di aver perduto l'equilibrio e di esser caduto da una scala a pioli, affondata nel terreno e con la parte superiore appoggiata ai rami di un albero, riportando un trauma lombare con frattura guaribile in trenta giorni. In particolare, il lavoratore si doleva che l'evento si fosse verificato per aver il datore omesso di adottare le specifiche misure necessarie a tutelare la sua integrità fisica in base al d.P.R. n. 547/1955, art. 18, il quale prevede le caratteristiche delle scale da lavoro, e art. 386 sull'obbligo della cintura di sicurezza in caso di lavori in cui vi sia il rischio di cadere dall'alto, nonché all'art. 3 del d.lgs. 626/1994, il quale dispone che il datore ha l'obbligo di eliminare i rischi in base alle conoscenze tecniche acquisite e al progresso tecnico raggiunto o comunque di ridurli al minimo, oltre all'obbligo di informare il prestatore circa le modalità con cui operare.

Entrambi i Giudici del merito respingevano il ricorso del lavoratore sull'assunto che l'infortunio fosse da imputarsi ad un'imprudenza di quest'ultimo; che, trattandosi di attività manuali semplici, nessun'altra adozione di cautele era necessaria; infine, che neanche poteva riscontrarsi una culpa in vigilando del datore, essendo il lavoratore già informato per aver partecipato l'anno precedente all'attività di raccolta.

Il dipendente proponeva un primo ricorso per Cassazione, che il Supremo Collegio accoglieva con rinvio, statuendo che la responsabilità datoriale in caso di infortunio subîto da un prestatore potesse essere esclusa soltanto in caso di dolo o rischio elettivo del dipendente, inteso quest'ultimo come un fatto causativo di un evento riconducibile allo svolgimento di attività estranea alla prestazione, o esorbitante dai limiti della stessa in modo abnorme e irrazionale.

All'esito del giudizio di rinvio, conclusosi col rigetto dell'azione del lavoratore, il dipendente proponeva un ulteriore ricorso per Cassazione, dolendosi del mancato riconoscimento della responsabilità del datore per non avergli fornito, tra l'altro, la cintura di sicurezza. I Giudici del rinvio - lamenta il prestatore - avevano, difatti, dedicato un generico riferimento al principio di cui all'art. 2087 c.c., nonché alla circostanza secondo la quale, nel caso de quo, l'obbligo di imposizione al lavoratore dell'uso della cintura di sicurezza sarebbe stato inesigibile, per l'assenza di un sistema di aggancio ad una scala a pioli concepita per rispondere alle concrete modalità della raccolta.

La Suprema Corte accoglie anche il secondo ricorso, censurando, ancora una volta, l'argomentazione della Corte territoriale. Precisamente, per i Giudici di legittimità, la sentenza di rinvio mostra di non tener adeguatamente conto dell'opinione largamente accreditata tra gli interpreti, secondo la quale l'obbligo contrattuale sancito dall'art. 2087 c.c. ha natura autonoma e non accessoria. L'imprenditore, anche indipendentemente da specifiche disposizioni normative, è tenuto a porre in essere tutti gli accorgimenti e le misure necessarie a evitare il verificarsi di lesioni di beni primari come la salute e l'integrità fisica, secondo un criterio di massima sicurezza tecnologicamente possibile. Cosicché, la violazione dell'obbligo si determina non solo quando si omette di adottare misure tassativamente previste dalla legge, come nel caso in questione, ma anche quando si omette di adottare ogni misura che sia esigibile secondo le regole di correttezza e buona fede.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©