Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Il principio di immediatezza della contestazione disciplinare
Il principio di immediatezza della contestazione disciplinare/2
Licenziamento per superamento del periodo di comporto
Licenziamento di disabile
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Il principio di immediatezza della contestazione disciplinare

Cass. Sez. Lav. 2 maggio 2017, n. 10632

Pres. Macioce; Rel. Di Paolantonio; P.M. Celeste; Ric. M.L.N.M.; Controric. A.S.L. 2 S.;

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Giusta causa - Principio dell'immediatezza della contestazione disciplinare - Carattere relativo - Fattispecie

Nel licenziamento per giusta causa la necessaria immediatezza della contestazione disciplinare rispetto ai fatti commessi dal lavoratore va intesa in senso relativo e può essere compatibile con un intervallo di tempo necessario per l'accertamento e la valutazione di tali fatti, specie quando il comportamento del lavoratore consista in una serie di atti convergenti in un'unica condotta, ed implichi pertanto una valutazione globale ed unitaria.

Nota

Il caso di specie riguarda un licenziamento per giusta causa intimato ad una lavoratrice (dirigente medico) e basato su plurime condotte tenute da quest’ultima, contrarie alle responsabilità e ai doveri propri della posizione ricoperta.

La domanda della lavoratrice, volta ad ottenere la declaratoria d’illegittimità del licenziamento irrogatole, veniva rigettata sia in primo che in secondo grado.

In particolare, la Corte d’Appello di Genova escludeva la tardività della contestazione disciplinare eccepita dalla lavoratrice, deducendo che, laddove la contestazione si riferisca ad una pluralità di episodi, la tempestività va valutata non con riferimento al singolo addebito, ma ai vari addebiti nel loro complesso.

Ricorreva per Cassazione la lavoratrice, deducendo l’illegittimità e/o inefficacia del licenziamento per violazione del principio di immediatezza della contestazione disciplinare. Nello specifico, la lavoratrice rilevava che le condotte contestate erano state tenute tra il marzo 2006 e l’agosto 2007, mentre la lettera di contestazione disciplinare era solo del 27 agosto 2007; la Corte territoriale avrebbe, quindi, dovuto ritenere non tempestivo il procedimento disciplinare, poiché nel giudizio era emerso con chiarezza che la datrice di lavoro aveva avuto conoscenza dei singoli fatti nell’immediatezza del loro verificarsi e non sussistevano ragioni oggettive che giustificassero il tempo trascorso tra l’avvenuta conoscenza del fatto e la contestazione.

La Corte di Cassazione ha ritenuto il ricorso infondato, affermando innanzitutto che, per giurisprudenza costante, la tempestività della contestazione, ove non vengano in rilievo termini di decadenza espressamente imposti dal legislatore o dalle norme collettive, deve essere intesa in senso relativo e, qualora il comportamento del lavoratore consista in una serie di fatti che, convergendo a comporre una fattispecie unitaria, esigono una valutazione complessiva, è rispettata se l'avvio del procedimento segue l'ultimo di detti fatti, non rilevando la distanza temporale da quelli precedenti (cfr. Cass. n. 6845/2010).

Ebbene, a detta della Corte, nel caso di specie la Corte d’Appello ha correttamente applicato i principi sopra richiamati, concludendo che il principio di tempestività nel caso di specie era stato rispettato.

Per tali motivi, la Corte di Cassazione ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Il principio di immediatezza della contestazione disciplinare/2

Cass. Sez. Lav. 3 maggio 2017, n. 10688

Pres. Di Cerbo; Rel. Manna; P.M. Fresa; Ric. P.I. s.p.a.; Controric. L.C.;

Licenziamento disciplinare - Contestazione - Confessione del lavoratore - Ulteriori indagini ispettive - Principio di immediatezza - Rispetto

Non lede il principio di immediatezza di cui all’art. 7 legge n. 300 del 1970 il datore di lavoro che, prima di procedere ad una contestazione disciplinare, disponga indagini ispettive per meglio approfondire natura e responsabilità passibili di sanzione ove a tal fine egli disponga, quali elementi conoscitivi, della sola confessione del lavoratore, essendo essa potenzialmente revocabile ex art. 2732 cod. civ..

Nota

La Corte d’Appello di Reggio Calabria ha confermato la sentenza del Tribunale dichiarativa dell'illegittimità del licenziamento intimato per una serie di addebiti dalla società nell'ottobre 2007, ritenendo tardiva la contestazione disciplinare. In particolare, secondo i giudici di merito, stante l'intervenuta confessione del lavoratore, l'azienda disponeva fin dal dicembre 2006 di tutti gli elementi conoscitivi per procedere alla contestazione disciplinare, comunicata invece solo nel settembre 2007 all’esito dell'indagine ispettiva comunque avviata dal datore, in tal modo violando il principio di immediatezza.

Avverso tale decisione la società ha proposto ricorso per cassazione sostenendo che - contrariamente a quanto statuito nella sentenza impugnata - per stabilire la tempestività o meno della contestazione disciplinare bisogna fare riferimento non già alle spontanee ammissioni del lavoratore, sempre revocabili e impugnabili, bensì all’esito dell’indagine ispettiva conclusasi solo nel luglio 2007, epoca rispetto alla quale la contestazione disciplinare - avvenuta nel settembre dello stesso anno - non può considerarsi tardiva. Ciò in quanto, anche in presenza di confessione, occorre accertare l'effettivo compimento dei fatti da parte del dipendente nonché eventuali ulteriori irregolarità e responsabilità del medesimo ovvero di altri.

La Suprema Corte accoglie il ricorso affermando il principio di cui alla massima al termine di un ampio excursus della giurisprudenza di legittimità in tema di immediatezza della contestazione disciplinare. In primo luogo si ricorda che tale principio è volto ad assicurare al lavoratore incolpato il diritto di difesa nella sua effettività, così da consentirgli il pronto allestimento del materiale difensivo ed al contempo a tutelare il suo legittimo affidamento nella tolleranza del datore, stante il carattere facoltativo dell’esercizio del potere disciplinare (Cass. 8 giugno 2009, n. 13167). L'immediatezza va, tuttavia, intesa in senso relativo, dovendosi tener conto delle ragioni che possono far ritardare la contestazione, tra cui l'ampiezza e complessità delle indagini dirette all’accertamento dei fatti e la dimensione ed articolazione dell’organizzazione aziendale (Cass. 25 gennaio 2016, n. 1248; Cass.12 gennaio 2016, n. 281), pertanto, ove sussista un rilevante intervallo tra i fatti contestati e l’esercizio del potere disciplinare, la tempestività deve essere valutata in relazione al tempo necessario per acquisire conoscenza della riferibilità del fatto al dipendente, il cui onere probatorio è a carico del datore di lavoro (Cass. 27 febbraio 2014 n. 4724; Cass. 26 marzo 2010, n. 7410).

Ritiene la Suprema Corte che, alla luce di tali principi, laddove la sentenza di merito afferma che le ammissioni fatte dal lavoratore rendono superflue le ulteriori verifiche effettuate prima di procedere alla contestazione - disponendo già la società di tutti gli elementi conoscitivi - trascura che la confessione poteva essere successivamente revocata dal lavoratore per errore o violenza, così lasciando totalmente sguarnita l'azione disciplinare del datore, a quel punto impossibilitato ad adempiere all'onere di provare gli elementi di addebito. Conseguentemente, l'avvio e l'attesa dell'esito delle indagini ispettive, volte ad accertare l'effettivo compimento dei fatti contestati nonché l'esistenza di ulteriori responsabilità, non lede il diritto di difesa del lavoratore né viola il principio di immediatezza, avendo l'azienda la necessità di verificare la veridicità delle ammissioni rese dal dipendente.

Il ricorso viene, quindi, accolto.

 

Licenziamento per superamento del periodo di comporto

Cass. Sez. Lav. 28 aprile 2017, n. 10579

Pres. Nobile; Rel. De Marinis; P.M. Ceroni; Ric. P.I.; Controric. C.C.;

Licenziamento per superamento del periodo di comporto - Istanza di conversione dell’assenza per malattia in ferie - Diniego - Ragioni ostative al mutamento del titolo dell’assenza - Onere della prova

Il lavoratore assente per malattia non ha incondizionata facoltà di sostituire alla malattia la fruizione delle ferie, maturate e non godute, quale titolo della sua assenza, allo scopo di interrompere il decorso del periodo di comporto. Tuttavia il datore di lavoro, di fronte ad una richiesta del lavoratore di conversione dell'assenza per malattie in ferie, e nell'esercitare il potere, conferitogli dalla legge (art. 2109, secondo comma, cod. civ.), di stabilire la collocazione temporale delle ferie nell'ambito annuale, armonizzando le esigenze dell'impresa con gli interessi del lavoratore, è tenuto ad una considerazione e ad una valutazione adeguate alla posizione del lavoratore esposto, appunto, alla perdita del posto di lavoro con la scadenza del comporto.

Nota

La Corte di Appello di Roma confermava la decisione resa dal Tribunale di Roma che aveva accolto la domanda proposta dalla lavoratrice nei confronti della società datrice di lavoro, avente ad oggetto la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatole per superamento del periodo di comporto, disponendone la reintegrazione nel posto di lavoro e condannando la società al risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni non percepite dalla data del licenziamento.

A fondamento della propria decisione la Corte territoriale rilevava che il diniego opposto dalla società alla richiesta avanzata dalla lavoratrice di poter usufruire delle ferie residue, maturate e non godute, al fine di sospendere il decorso del periodo di comporto, non risultava sorretto da concrete ragioni ostative al mutamento del titolo dell’assenza, tenuto conto della pacifica utilizzabilità delle ferie.

Avverso tale pronuncia proponeva ricorso la società fondato su due motivi.

In particolare, la società ricorrente denunciava violazione e falsa applicazione degli artt. 2109, comma 2 nonché degli artt. 1175 e 1375 c.c., deducendo l’incongruità della valutazione espressa dalla Corte territoriale nella parte in cui aveva escluso che la lavoratrice avesse tenuto un comportamento non improntato alla buona fede considerato il breve anticipo, rispetto alla scadenza del periodo di comporto, col quale la stessa aveva inoltrato istanza di conversione dell’assenza per malattia in ferie.

La Suprema Corte rigettava il ricorso.

La Suprema Corte ha rilevato che la pronuncia impugnata doveva considerarsi conforme al consolidato orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità in materia che, nel riconoscere al lavoratore la facoltà di sostituire alla malattia la fruizione delle ferie, maturate e non godute, allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto - subordinandola alla determinazione del datore, nel rispetto del diritto di scelta del tempo delle ferie al medesimo riservato -, onera il datore stesso della prova di aver tenuto conto, nell’assumere la relativa decisione, del rilevante e fondamentale interesse del lavoratore ad evitare, in tal modo, la possibile perdita del posto di lavoro per scadenza del periodo di comporto (cfr. Cass. 3 marzo 2009, n. 5078; Cass. 10 novembre 2004, n. 21385; Cass. 9 aprile 2003, n. 5521).

Alla stregua di tali principi, secondo quanto sostenuto dalla Suprema Corte, la pronuncia di appello doveva ritenersi congruamente motivata, nella parte in cui aveva ritenuto che il comportamento posto in essere dalla società non potesse considerarsi improntato al canone della buona fede, tenuto conto che quest’ultima aveva inteso fondare il diniego del mutamento del titolo dell’assenza, sulla base del mero riferimento al ritardo nell’inoltro della richiesta da parte della lavoratrice, senza allegare alcun pregiudizio ad esso conseguente, neppure riscontrabile stante la possibilità di organizzarsi con largo anticipo per tale evenienza.

 

Licenziamento di disabile

Cass. Sez. Lav. 28 aprile 2017, n. 10576

Pres. Napoletano; Rel. Amendola; P.M. Ceroni; Ric.G.D.; Controric. F.A.

Lavoro subordinato - Assunzione disabile - Sopravvenuto aggravamento delle condizioni di salute - Licenziamento - Condizioni - Accertamento commissione medica - Possibili adattamenti dell'organizzazione del lavoro - Applicabilità 

Il datore di lavoro può risolvere il rapporto di lavoro dei disabili obbligatoriamente assunti, nel caso di aggravamento delle condizioni di salute o di significative variazioni dell'organizzazione del lavoro, solo nel caso in cui la speciale commissione integrata di cui all'art. 10, comma 3, delle legge 12 marzo 1999, n. 68, accerti la definitiva impossibilità di reinserire il disabile all'interno dell'azienda, anche attuando i possibili adattamenti dell'organizzazione del lavoro, non essendo all'uopo sufficiente il giudizio di non idoneità alla mansione specifica espresso dal medico competente nell'esercizio della sorveglianza sanitaria effettuata ai sensi del D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81.

Nota

Nel caso in esame, un dipendente, assunto come categoria protetta ex L. 482 del 1968, è stato licenziato dalla società a seguito di accertamento, effettuato dal medico competente, dell’inidoneità a svolgere le mansioni di addetto ai servizi generali.

Il tribunale rigettava il ricorso promosso dal dipendente e la Corte di Appello di Palermo confermava la pronuncia del tribunale.

Per la Corte, il licenziamento era legittimo e a nulla rilevava il fatto che il giudizio di inidoneità alle mansioni fosse stato fornito dal medico competente anziché dalla commissione medica ex L. n. 104 del 1992.

Avverso la sentenza della Corte di Appello, ha proposto ricorso in Cassazione il dipendente contestando alla Corte territoriale di aver ritenuto rilevante il giudizio di inidoneità alle mansioni da parte del medico competente anziché della commissione medica, trascurando di considerare che il lavoratore aveva impugnato il licenziamento comminato proprio sulla base del giudizio del medico, non deputato e competente in materia.

La Cassazione ha accolto il ricorso.

Infatti, per la Suprema Corte, la verifica delle condizioni di salute è categoricamente riservata alla competenza della apposita commissione, che valuta le condizioni stesse in funzione della maggior tutela riservata ai disabili (Cass. n. 15269/2012; Cass. n. 8450/2014). La rigorosa conclusione discende dalla speciale protezione accordata al disabile dalla disciplina interna e sovranazionale, finalizzata a ridurre l’apprezzamento discrezionale del datore di lavoro, e ad affidare ad un soggetto qualificato con caratteri di terzietà il peculiare giudizio tecnico.

Per la Cassazione la Corte territoriale avrebbe quindi errato nel ritenere "irrilevante" che il giudizio d’inidoneità determinante il licenziamento non fosse stato espresso dalla commissione medica competente. Infatti, ai sensi della L. n. 68 del 1999, art. 10, comma 3, spettava alla commissione medica, accertare le condizioni di salute del disabile assunto obbligatoriamente per verificare se, a causa delle minorazioni o del loro aggravamento, potesse continuare ad essere utilizzato presso l'azienda. In caso di accertata incompatibilità il disabile avrebbe avuto diritto alla sospensione non retribuita del rapporto di lavoro fino a che l'incompatibilità persisteva. Solo nel caso in cui la commissione integrata avesse accertato la definitiva impossibilità di reinserire il disabile all'interno dell'azienda, anche attuando i possibili adattamenti dell'organizzazione del lavoro, il rapporto di lavoro avrebbe potuto essere risolto.

Conclude la Corte che tale percorso vincolato dalla legge non può essere surrogato dal giudizio di inidoneità alla mansione espresso dal medico competente nell'ambito della sorveglianza sanitaria esercitata ai sensi del D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81. 

 

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass. Sez. Lav. 3 maggio 2017, n. 10699

Pres. Di Cerbo; Rel. Amendola; P.M. Sanlorenzo; Ric. T. S.p.A.; Controric. S.P.;

Licenziamento - Giustificato motivo oggettivo - Necessità di uno stato di crisi aziendale o andamento economico negativo - Esclusione - Maggior profitto per l'impresa o migliore efficienza gestionale - Legittimità - Limite - Onere di specificazione delle ragioni inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro - Effettività delle ragioni - Necessità del nesso causale tra ragioni indicate e licenziamento intimato.

Ai fini della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'art. 3 della l. n. 604 del 1966, lo stato di crisi o l’andamento economico negativo dell'azienda non costituisce un requisito di legittimità, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all'attività produttiva ed all'organizzazione del lavoro, che devono essere esplicitate nella lettera di recesso, determinino causalmente un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo attraverso la soppressione della posizione lavorativa a cui era adibito il lavoratore licenziato.

Nota

Una lavoratrice impugnava avanti al Tribunale di Firenze il licenziamento intimatole per giustificato motivo oggettivo. In accoglimento del ricorso, il recesso veniva dichiarato illegittimo, in conseguenza dell’accertamento della non effettività delle ragioni gestionali indicate nella lettera di licenziamento. In particolare, il Tribunale motivava l’insussistenza del requisito dell’effettività delle ragioni sottese al recesso datoriale in ragione della "non funzionalità della scelta aziendale di soppressione del posto occupato dalla ricorrente", della contraddittorietà "rispetto alla rilevata esistenza di una strategia aziendale di apertura agli investimenti ed alle nuove assunzioni proprio nel settore" in cui era impiegata la ricorrente; del mancato perseguimento della dichiarata finalità di riduzione dei costi di gestione. La lavoratrice veniva quindi reintegrata ai sensi dell’art. 18 L. 300/1970 (nella formulazione antecedente la L. 92/2012, non applicabile ratione temporis).

La Corte d’Appello di Firenze dichiarava inammissibile l’impugnazione promossa dalla società, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., per difetto di ragionevoli probabilità di accoglimento.

Per la cassazione della sentenza del Tribunale, l’azienda promuoveva ricorso ex art. 348 ter, co. 3, c.p.c. (che consente l’impugnazione del provvedimento di primo grado avanti al giudice di legittimità, quando sia pronunciata ordinanza di inammissibilità in appello); la lavoratrice resisteva con controricorso.

La società, tra gli altri motivi, lamentava violazione e falsa applicazione degli artt. 41 Cost, 3 L. 604/1966 e 30, co. 1 L. 183/2010 nella parte in cui il giudice di prime cure aveva sindacato nel merito le scelte organizzative dell’azienda in violazione delle norme sopra richiamate.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso ritenendo che la sentenza impugnata abbia rispettato il principio di diritto (da ultimo affermato in Cass. 25201/2016 e Cass. 19185/2016) secondo cui, se è vero che ai fini della sussistenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento non è necessario uno stato di crisi aziendale, ben potendo essere motivato anche da finalità che perseguano l’obiettivo dell’aumento di redditività dell'impresa, è pur sempre necessaria l’effettività delle ragioni, inerenti all'attività produttiva ed all'organizzazione del lavoro, esplicitate nella lettera di recesso e che le stesse siano causalmente collegate, in termini di riferibilità e di coerenza, all’intimato licenziamento.

Pertanto, ferma l’insindacabilità della congruità ed opportunità della scelta imprenditoriale che abbia portato alla soppressione della posizione, al giudice spetta il controllo della reale sussistenza delle ragioni addotte a fondamento del recesso nonché la verifica del necessario nesso causale tra le suddette ragioni ed il licenziamento. Infatti, in mancanza di tale collegamento causale, si avrebbe un uso distorto del potere di recesso datoriale, emergendo una "dissonanza" che smentisce l’effettività della ragione addotta a fondamento del licenziamento.

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