Contenzioso

Licenziamenti, l’esclusione del principio di proporzionalità è un punto debole del Jobs act

di Marcello Floris

Con il Dlgs 23/2015, il cosiddetto Jobs Act, il legislatore ha attuato un’ampia riforma delle sanzioni applicabili al licenziamento illegittimo, proseguendo nel solco della legge Fornero 92/2012, intervenendo anche su aspetti di carattere sostanziale della disciplina.
Gli obiettivi dei due provvedimenti erano: ridurre le ipotesi di reintegra del lavoratore, limitare la discrezionalità riservata ai giudici e rendere prevedibili i risarcimenti riconosciuti in via giudiziale. Tutto ciò per porre rimedio alle numerose criticità derivate dall'applicazione dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, molte delle quali causate dall'impianto sanzionatorio previsto per il licenziamento illegittimo.
Fino al 2012, prima della legge Fornero, l'articolo 18, a seguito della declaratoria di illegittimità del recesso, prevedeva che il lavoratore fosse risarcito con il pagamento delle retribuzioni maturate medio tempore dal licenziamento all'effettiva reintegra.
In termini pratici, la durata imprevedibile ed estremamente varia dei procedimenti causava l'impossibilità di quantificare con precisione l'entità del risarcimento, perché necessariamente commisurata alla durata del processo. Per questo stesso motivo, l'ammontare del risarcimento poteva variare anche grandemente, a seconda del Tribunale competente.
Un’ulteriore difficoltà derivava dalla nozione aperta di giusta causa, definita dal Codice civile come l'evento che rende impossibile la prosecuzione del rapporto anche in via provvisoria. Quale però potesse essere questo evento, in termini pratici, spettava ai giudici stabilirlo, con il risultato - non infrequente - che ciò che un giudice aveva ritenuto giusta causa di risoluzione del rapporto, per altri, magari in sede di appello, invece poteva non esserlo. L'effetto economico devastante di una sentenza di secondo grado che sanciva, con ogni probabilità a distanza di anni, l'illegittimità di un licenziamento con condanna al pagamento delle retribuzioni maturate in due gradi di giudizio, è facilmente immaginabile.
Da qui appunto l'esigenza di regole più rigide, la cui applicazione portasse a risultati più prevedibili sia per il datore che per il lavoratore, in termini di gestione del rischio in caso di licenziamento.

La giusta causa
La nozione di giusta causa è rimasta immutata nel tempo nonostante le riforme che si sono succedute nel tempo.
Al fine di limitare i margini di discrezionalità del giudice, già la legge Fornero aveva stabilito come causa di annullabilità del licenziamento che il fatto rientrasse tra le condotte punibili con una sanzione conservativa, sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili. La disposizione è rimasta dopo il Dlgs 23/2015 e, a mio giudizio, la scelta non è molto felice perché le casistiche dei Ccnl sono necessariamente limitate, frammentarie e risentono del modo privo di sistematicità in cui sono formulate: molte fattispecie sono ignorate, alcune condotte sono prese in considerazione in certi contratti collettivi e non in altri, con la conseguenza che il rilievo disciplinare può variare a seconda del Ccnl applicabile, introducendo disparità di trattamento difficilmente giustificabili.
La giurisprudenza, confermando il precedente orientamento, ha finora sminuito la portata di questa norma con riferimento alla sanzione espulsiva, ritenendo che l'elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei Ccnl abbia valenza meramente esemplificativa e non esaustiva. Ciò significa che il giudice può qualificare un fatto non previsto dal Ccnl come giusta causa di licenziamento, qualora, pur non ricorrendo i presupposti dell'ipotesi prevista, il fatto sia comunque reputato idoneo a “provocare una qualche alterazione della regolarità e del pacifico e ordinato svolgersi della vita collettiva all'interno di esso” (Cassazione, 2830 del 12 febbraio 2016). Invece sentenze relativamente recenti hanno escluso che “ove un determinato comportamento del lavoratore invocato come giusta causa di licenziamento sia contemplato dal contratto collettivo come integrante una specifica infrazione disciplinare cui corrisponda una sanzione conservativa essa possa formare oggetto di una autonoma e più grave valutazione del giudice, a meno che non accerti che le parti avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità della sanzione espulsiva” (Cassazione, 7 maggio 2015 n.9223; 17 giugno 2011, n. 13335). Tuttavia la recentissima decisione n.10647 del 2 maggio 2017 ha ancora stabilito che la valutazione disciplinare vada “effettuata sulla base della nozione legale di giusta causa di licenziamento ex art.2119 c.c. e non sulla base delle ipotesi elencate nella contrattazione collettiva”. Il giudice cioè, non deve limitarsi a ricondurre gli addebiti alle singole fattispecie previste dai contratti collettivi, ma deve valutare i fatti nel loro insieme per verificare se siano tali da minare la fiducia del datore di lavoro.

La nozione di fatto materiale
Interessante, sempre in tema di limitazione della nozione di giusta causa - e quindi della discrezionalità dei giudici - è anche la nozione di fatto materiale. Il Dlgs 23/2015 ha stabilito che nelle ipotesi di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione, il giudice annulla il licenziamento. E' una disposizione severamente tranchant: un furto è tale sia che l'oggetto sia di insignificante valore, oppure di valore rilevante. Tuttavia è chiaro che non si possono mettere sul medesimo piano, ai fini della lesione dell'elemento fiduciario, il furto, per esempio, di uno scarto di lavorazione destinato alla rottamazione con quello di un prodotto perfettamente finito e commerciabile.
Non constano pronunce della Corte di Cassazione sul tema specifico, in passato però, prima dell'introduzione del Jobs Act, la giurisprudenza ha costantemente ritenuto che il rimedio della reintegrazione dovesse applicarsi “nel caso di fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità ossia non suscettibile di alcuna sanzione…(omissis)….in altre parole la completa irrilevanza giuridica del fatto equivale alla sua insussistenza” (Cass. 13 ottobre 2015, n. 20540 e 20545).
Argomento di rilievo è la tempestività della contestazione disciplinare. Per costante orientamento giurisprudenziale il datore di lavoro ha l'onere di contestare immediatamente l'addebito appena ne ha contezza. L'importanza fondamentale della tempestività della contestazione disciplinare è stata ribadita anche nella recentissima sentenza n. 2513 del 31.1.2017: “un fatto non tempestivamente contestato ex art. 7 della legge 300 del 1970 non può che essere considerato come insussistente, non possedendo idoneità ad essere verificato in giudizio”. La violazione di un criterio formale, a tempestività della contestazione, dà quindi luogo ad un grave esito sostanziale, perché il fatto insussistente comporta la reintegra anche secondo l'articolo 18 modificato dal Jobs Act.
Pure rilevante è la questione della possibile inversione dell'onere della prova in tema di giusta causa e giustificato motivo soggettivo. Fin dal 1966 la legge 604 ha stabilito (e la norma è in vigore ad oggi) che l'onere di dimostrare la fondatezza del licenziamento spettasse al datore di lavoro. Il Dlgs 23 del 2015 stabilisce invece la reintegra nel caso in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore. E' chiaro, quindi, che sarebbe il lavoratore a trovarsi onerato di tale dimostrazione di un fatto negativo, cosa non semplice o addirittura impossibile in molti casi e che sovverte un principio graniticamente consolidato nel nostro ordinamento. Molto arduo dimostrare, ad esempio, di non aver pronunciato frasi ingiuriose o di non aver inscenato un diverbio litigioso passando a vie di fatto, in assenza di testimoni. Va detto che le prime applicazioni della giurisprudenza (risulta emessa una sentenza dal Tribunale di Milano che tratta solo di passaggio l'argomento) ribadiscono comunque la configurazione dell'onere probatorio a carico del datore come stabilito dalla legge 604 del 1966.

In estrema sintesi, se l'intento di razionalizzare la disciplina dei licenziamenti limitando la discrezionalità dei giudici e rendendo prevedibili i risarcimenti è certamente commendevole, alcune delle soluzioni adottate, in particolare fra tutte l'esclusione del principio di proporzionalità, destano perplessità.

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