Contenzioso

Lavoratori «ceduti» assieme all’azienda

di Angelo Zambelli

Con la sentenza n. 12919 dello scorso 23 maggio la Cassazione ricostruisce, alla luce dell’ordinamento comunitario e del diritto nazionale, la posizione del lavoratore coinvolto in un trasferimento di azienda con riferimento, in particolare, alla possibilità di opporsi alla cessione del suo rapporto di lavoro .

La controversia vede protagonista un lavoratore iscritto ad un sindacato dissenziente rispetto all’accordo sottoscritto dalle altre oo.ss. a conclusione della procedura d’informazione e consultazione prevista dall’articolo 47 della legge n. 428/90.

Dalla ricostruzione dei fatti operata in sentenza emerge che il lavoratore, ricevuta comunicazione del suo passaggio alle dipendenze della cessionaria, non si era presentato al lavoro alla data indicata e che quest’ultima, dopo l’iniziale formulazione di una contestazione disciplinare per assenza ingiustificata, aveva inviato al ricorrente una seconda comunicazione con cui «preso atto che il lavoratore non aveva mostrato interesse a svolgere attività di lavoro alle sue dipendenze, poneva nel nulla la precedente contestazione disciplinare, sul rilievo che nessun rapporto di lavoro era stato instaurato tra le parti».

Il lavoratore ha quindi convenuto in giudizio la cessionaria lamentando l’illegittimità del licenziamento intimatogli e la condanna della cessionaria a reintegrarlo nel posto di lavoro.

Tale domanda veniva però respinta dai giudici di merito, i quali ritenevano che il complessivo comportamento assunto dal ricorrente «integrasse un rifiuto di concludere alcun contratto di lavoro con l’impresa cessionaria».

Nel decidere la questione, la Cassazione muove dalla considerazione secondo cui la disciplina del trasferimento di azienda «appronta un sistema di garanzia per i lavoratori, di continuità dell’occupazione» nel senso che, da un lato, la vicenda traslativa dell’impresa non può costituire motivo di licenziamento e, dall’altro, che non è richiesto il consenso dei lavoratori coinvolti, «dato l’effetto di trasferimento automatico ex lege».

A differenza, quindi, di quanto avviene in ipotesi di cessione del singolo contratto di lavoro, ove si richiede il consenso del lavoratore ceduto (Cassazione 5 marzo 2008, n. 5932), nell’ipotesi di cessione d’azienda «si realizza la successione legale nel rapporto di lavoro del cessionario che non necessita del consenso da parte dei contraenti ceduti» (Cassazione 4 dicembre 2012, n. 21711).

Tale regola ha natura imperativa sí che non è consentito derogarvi in senso sfavorevole ai lavoratori, neanche alla luce del diritto comunitario di cui la disciplina nazionale è emanazione: «l’attuazione dei diritti conferiti ai lavoratori dalla direttiva non può essere subordinata al consenso del cedente o del cessionario, né dei rappresentanti dei lavoratori, né dei lavoratori stessi» (Corte di Giustizia europea 25 luglio 1991, C-362/89).

Del resto - conclude la Cassazione - per tutelare le ragioni del lavoratore che non voglia passare all’acquirente dell’azienda è sufficiente il ricorso all’istituto del recesso “straordinario” disciplinato dal quarto comma dell’articolo 2112 del Codice civile che prevede, a fronte di una sostanziale modifica delle condizioni di lavoro, la possibilità di rassegnare le proprie dimissioni entro 90 giorni dal trasferimento con diritto all’indennità sostitutiva del preavviso.

Non esistendo quindi, in capo al lavorare, alcun «diritto di opposizione al trasferimento» nel senso ritenuto dai giudici di merito, la Cassazione rinvia alla Corte d’appello per riesaminare l’intera vicenda .

La sentenza n. 12919/17 della Corte di cassazione

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