Contenzioso

Accertamento del credito del lavoratore in sede concorsuale e intervento del Fondo di garanzia

di Silvano Imbriaci

La questione affrontata dalla Sezione Lavoro della Cassazione con la sentenza n. 12371 del 17 maggio riveste una sicura rilevanza pratica nelle procedure concorsuali in cui siano ammessi crediti di lavoratori per Tfr e ultime mensilità, poi destinati ad essere effettivamente soddisfatti in sede di intervento del Fondo di Garanzia dell'Inps.

Si tratta in sostanza di stabilire se l'Inps (Fondo di Garanzia) possa contestare, e con quali limiti e strumenti, il credito del lavoratore ammesso al passivo della procedura, quando (ipotesi non infrequente) registri, attraverso i propri atti e le proprie indagini, un diverso importo spettante al lavoratore a titolo di Tfr e ultime mensilità rispetto a quello ammesso al passivo, oppure contesti in radice l'esistenza del credito.

La giurisprudenza, sul punto, ha sempre avuto un atteggiamento abbastanza omogeneo, ritenendo che l'obbligazione a carico del Fondo si determina esclusivamente in rapporto al credito accertato in sede concorsuale e che dunque è preclusa all'Inps la possibilità di contestarlo a sua volta in tale sede. L'Istituto, infatti, subentra ex lege nel debito del datore di lavoro insolvente, previo accertamento del credito del lavoratore e dei relativi accessori mediante insinuazione nello stato passivo divenuto definitivo e nella misura in cui esso risulta in quella sede accertato (cfr. Cass. n. 24231/2014). Dunque, una volta che i crediti siano stati definitivamente ammessi al passivo della società sottoposta a procedura concorsuale, l'Inps non può contestare tale accertamento, a questo punto vincolante (cfr. Cass. n. 24730/2015). Peraltro, in quest'ottica, la partecipazione dell'Istituto alla procedura concorsuale costituisce elemento irrilevante ai fini della possibilità di una contestazione del credito: l'esecutività dello stato passivo basta a sorreggere la pretesa del lavoratore nei confronti del Fondo di Garanzia, senza neppure la necessità di una preventiva informazione all'Istituto previdenziale riguardo alla misura del credito e ai suoi presupposti (cfr. Cass. n. 9231/2010). Questa linea interpretativa, in realtà abbastanza rigorosa, si spiega con l'opportunità di non rendere eccessivamente gravosa al lavoratore la prova e la sostenibilità del proprio credito di fronte all'ente, in modo da assicurare una maggiore protezione alle esigenze dei crediti lavorativi insoddisfatti in presenza di uno stato di insolvenza del datore di lavoro. Tuttavia, è anche vero che, trattandosi comunque di risorse pubbliche che devono essere spese, rimane aperto e insoluto il problema dell'impossibilità per l'Istituto di contestare, al di fuori della procedura concorsuale, l'accertamento contenuto nello stato passivo definitivo in ordine alla sussistenza e all'ammontare del debito del datore di lavoro insolvente. Con tutte le incertezze, in punto di surroga, derivanti dall'esito della procedura concorsuale, a fronte di un esborso a carico dell'Inps non dovuto o dovuto solo in parte.

Di questo aspetto del problema si prende carico la sentenza n. 12371/2017, anche se lo affronta solo nella sua veste preliminare, ossia sotto il profilo della possibilità per l'Istituto di accedere agli strumenti indicati dall'art. 98 della legge fallimentare, in presenza di stato passivo reso esecutivo. Una volta che siano decorsi i termini per l'opposizione o per l'impugnazione, occorre, in altre parole, verificare la possibilità per l'Inps di avviare la procedura di revocazione (IV comma) del provvedimento di accoglimento o di rigetto, allorché emerga che tali provvedimenti siano stati determinati da falsità, dolo, errore essenziale di fatto o dalla mancata conoscenza di documenti decisivi che non sono stati prodotti tempestivamente per causa non imputabile. Il problema è quello della legittimazione attiva. La norma, infatti, afferma esplicitamente che la revocazione è mezzo di impugnazione riservato al curatore, al creditore o al titolare di diritti su beni mobili o immobili. Ebbene, nella ricostruzione della Cassazione (si veda anche il precedente di cui all'ord. n. 24202/2015), l'unico apparente ostacolo alla praticabilità della revocazione è costituito solo dalla legittimazione, che la norma riserva a questi soggetti, nell'ipotesi in cui formalmente l'Inps non si sia insinuato nello stato passivo. Tuttavia, la questione, sotto questo profilo, appare superabile. Per consentire l'accesso a questo strumento di impugnazione, è sufficiente (come è accaduto nel caso di specie) che al passivo del fallimento siano stati insinuati crediti previdenziali, sia pure da un soggetto formalmente diverso dall'Inps, ossia dall'Agente della Riscossione, per legge deputato alle attività di recupero forzato dei crediti previdenziali. Grazie all'ammissione al passivo di crediti previdenziali azionati dall'Agente della Riscossione, l'Inps va qualificato come creditore concorrente e ciò sulla base del dlgs n. 46/1999, secondo cui i contributi dovuti agli enti pubblici previdenziali non versati dal debitore sono iscritti a ruolo e la riscossione degli stessi è affidata al concessionario, legittimato ad agire per la loro riscossione coattiva. Infatti l'iscrizione a ruolo del credito previdenziale e l'affidamento per legge al concessionario delle attività di riscossione e del correlato potere rappresentativo non escludono la concorrente legittimazione del titolare dell'obbligazione adempiuta che conserva la titolarità del credito azionato (cfr. Cass. sez. Unite n. 4126/2012). Dunque sussiste un interesse concreto ed attuale dell'Inps a chiedere la revocazione dello stato passivo una volta accertato che l'importo del trattamento di fine rapporto spettante ai lavoratori risulta diverso (solitamente più basso) di quello ammesso al passivo del fallimento (e conseguentemente richiesto al Fondo di Garanzia).

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