Contenzioso

Rassegna della Cassazione

Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Lavoro autonomo e subordinato
Rapporto di lavoro subordinato e onerosità della prestazione
Recesso dal patto di prova
Controlli difensivi occulti
Infortunio sul lavoro e occasione di lavoro

Lavoro autonomo e subordinato

Cass. Sez. Lav. 13 aprile 2017, n. 9590

Pres. Nobile; Rel. De Gregorio; P.M. Ceroni; Ric. F.O.; Controric. G.M., M.C., S.A.

Lavoro subordinato - Qualificazione data dalle parti - Nomen Iuris - Rilevanza- Esclusione - Indici di qualificazione - Necessità 

La qualificazione del rapporto di lavoro, operata dalle parti, come contratto di collaborazione coordinata e continuativa non assume rilievo dirimente in presenza di elementi fattuali - quali la previsione di un compenso fisso, di un orario di lavoro stabile e continuativo, il carattere delle mansioni, nonché il collegamento tecnico organizzativo e produttivo tra la prestazione svolta e le esigenze aziendali - che costituiscono indici rivelatori della natura subordinata del rapporto stesso.

Nota

La Corte di Appello di Milano accoglieva il ricorso proposto dai collaboratori dalla Società, dichiarando la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra le parti.

Avverso la sentenza proponeva ricorso in Cassazione la Società contestando alla Corte territoriale di aver fondato la decisione sull'esame di alcune pattuizioni contenute nei contratti individuali che non smentivano la natura autonoma dei rapporti e che non erano state mai contestate ex adverso. Per la Società ricorrente inoltre, la Corte di Appello aveva ignorato che i contratti di collaborazione stipulati erano stati da questa negoziati con la CISL.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso in relazione a questa contestazione.

Per la Cassazione, i giudici della Corte di Appello, avevano correttamente accertato e valutato che il rapporto contrattuale intervenuto tra le parti, indipendentemente dal nomen juris, era connotato da elementi caratteristici della subordinazione di cui all’articolo 2094 del codice civile con conseguente applicazione della relativa disciplina di legge.

Per la Suprema Corte nel caso in esame trova applicazione l’orientamento oramai consolidato per cui "la considerazione da parte del giudice della qualificazione data dalle parti ad un rapporto giuridico non può comportare la mancata ottemperanza dello stesso al suo compito istituzionale di stabilire quale sia la sua corretta qualificazione giuridica sulla base della concretezza della relazione, quando l'attuazione dell'accordo dei soggetti interessati comporterebbe la violazione delle norme inderogabili poste a tutela del lavoratore subordinato", (Cass. n.10824 del 04/11/1997).

Sempre in questo senso, "ai fini della distinzione fra lavoro subordinato e lavoro autonomo, deve attribuirsi maggiore rilevanza alle concrete modalità di svolgimento del rapporto, da cui è ricavabile l'effettiva volontà delle parti (iniziale o sopravvenuta), rispetto al "nomen iuris" adottato dalle parti e ciò anche nel caso di contratto di lavoro a progetto", (Cass. n.22289 del 21/10/2014).

Con particolare riguardo al caso in esame, per la Cassazione trovano applicazione i summenzionati principi e l'asserito avallo sindacale non assume alcun rilievo giuridicamente rilevante, posto che la Corte di Appello ha correttamente riqualificato i rapporti, formalmente di lavoro autonomo, accertando che i contratti di lavoro autonomo stipulati prevedevano clausole tipiche di un rapporto di lavoro subordinato eseguite dalle parti per tutta la durata del rapporto.

 

Rapporto di lavoro subordinato e onerosità della prestazione

Cass. Sez. Lav. 5 aprile 2017, n. 8829

Pres. Nobile; Rel. De Felice; P.M. Ceroni; Ric. C. F.; Controric. R.G.;

Rapporto di lavoro subordinato – Onerosità della prestazione – Presunzione

Secondo l'orientamento costante della giurisprudenza di legittimità ogni attività oggettivamente configurabile come prestazione di lavoro subordinato deve presumersi svolta a titolo oneroso. Tale presunzione può essere superata soltanto attraverso la prova rigorosa dell'esistenza di una causa, capace di legittimare la gratuità. In assenza di tale prova la prestazione va ricondotta a un contratto di lavoro, che assume le caratteristiche della subordinazione qualora ne ricorrano gli elementi costitutivi.

Nota

La sig.ra R. conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Ravenna, il Comune di F., in qualità di erede universale del ragioniere sig. S., deducendo di essere stata impiegata presso lo studio di consulenza fiscale e tributaria di quest’ultimo, per oltre un trentennio, senza aver mai percepito alcun compenso.

In particolare, la ricorrente deduceva di aver svolto compiti d’impiegata di studio contabile in regime di subordinazione, soggiacendo alle stringenti e specifiche direttive impartitele ed al puntuale controllo svolto dal titolare ed, inoltre, di aver nel tempo intessuto col ragioniere e la moglie un’assidua frequentazione personale, in virtù della quale aveva, altresì, svolto funzioni di assistenza in favore dei coniugi medesimi.

Dal canto suo, il Comune deduceva che nessun rapporto di lavoro subordinato si era mai instaurato con la ricorrente, la quale aveva reso le proprie prestazioni in favore del de cuius esclusivamente in virtù del rapporto di amicizia e familiarità instauratosi con lo stesso e nella speranza di un cospicuo riconoscimento patrimoniale all’atto della successione ereditaria.

La Corte di Appello di Bologna confermava la sentenza resa dal giudice di prime cure che aveva condannato il Comune, in qualità di erede universale, a liquidare alla sig. R. la complessiva somma di €. 332.251, 77 a titolo di corrispettivo per l’attività lavorativa svolta da quest’ultima in favore del de cuius per oltre un trentennio.

Avverso tale pronuncia proponeva ricorso il Comune, fondato su tre motivi. Resisteva con controricorso la lavoratrice.

Il Comune denunciava violazione e falsa applicazione dell’art. 2094 c.c., nella parte in cui la Corte di Appello aveva qualificato la prestazione resa dalla sig.ra R. in favore del de cuius onerosa e non già gratuita, nonostante la prestazione fosse stata resa per conseguire un vantaggio indiretto, consistente in un lascito ereditario, e pure a fronte del legame di amicizia e di affetto che intercorreva tra la controricorrente ed il de cuius. A fondamento del proprio ricorso il Comune rilevava, altresì, che la sentenza di appello non aveva tenuto conto della giurisprudenza della Suprema Corte che ammette la gratuità anche quando la prestazione, svolta in vista di futuri vantaggi ereditari, è resa al di fuori di un legame di parentela e affinità (cfr. Cass. 17 agosto 2000, n. 10923).

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

Innanzitutto, la Suprema Corte ha rilevato che, secondo l'orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, ogni attività oggettivamente configurabile come prestazione di lavoro subordinato deve presumersi svolta a titolo oneroso. Tale presunzione può essere superata soltanto attraverso la prova rigorosa dell'esistenza di una causa, capace di legittimare la gratuità. In assenza di tale prova la prestazione va ricondotta a un contratto di lavoro, che assume le caratteristiche della subordinazione qualora ne ricorrano gli elementi costitutivi (cfr. Cass. 2 agosto 2010, n. 17992).

Nel caso in cui l'attività sia svolta in favore di familiari o conviventi legati da vincolo di parentela o affinità, o anche da vincolo di affettuosa ospitalità, le prestazioni si presumono gratuite e non riconducibili ipso jure ad un rapporto di lavoro, salvo che la parte che afferma l’onerosità della prestazione non ne fornisca la prova rigorosa (cfr. Cass. 28 agosto 2003, n. 12639; Cass. 6 aprile 1999, n. 3304).

Applicando tali principi al caso in oggetto, la Suprema Corte ha rilevato che la fattispecie esaminata non era riconducibile ad alcuna delle ipotesi di lavoro gratuito comunemente ammesse - quali ad esempio, le prestazioni rese in favore di organizzazioni di tendenza, politiche e religiose, per ragioni di proselitismo, il lavoro prestato nell’ambito di rapporti familiari e di convivenza, il lavoro volontario in favore di organizzazioni iscritte ad albi di rilevanza pubblicistica -, in relazione alle quali è lo stesso legislatore ad escludere la configurabilità di qualsiasi legame di carattere patrimoniale con l’organizzazione di tendenza.

Esclusa qualsivoglia identificazione e/o analogia tra le suddette ipotesi di lavoro gratuito ed il caso in questione, la Suprema Corte ha, dunque, ritenuto che la Corte territoriale avesse correttamente escluso la natura gratuita della prestazione, considerato che, come era risultato provato, nella specie la causa dello scambio era constitita nella promessa, non mantenuta, da parte del de cuius, di destinare alla sua impiegata un lascito ereditario, quale compenso per il lavoro svolto per oltre un trentennio, ragion per cui doveva ritenersi dimostrato che la controricorrente avesse escluso ab origine di rendere la propria prestazione per uno scopo altruistico.

 

Recesso dal patto di prova

Cass. Sez. Lav. 27 marzo 2017, n. 7801.

Pres. Macioce; Rel. De Felice; P.M. Giacalone; Ric. L.Z.; Controric. A.O.U.U.;

Patto di prova - Recesso – Impugnazione – Termine di decadenza ex art. 32 L 183/2010 – Inapplicabilità

Al recesso dal patto di prova non si applica il regime decadenziale previsto dall’art. 6 L. 604/1966, come modificato dall’art. 32 L. 183/2010, dato che ai sensi dell’art. 10 L. 604/1966 le norme sui licenziamenti individuali trovano applicazione nei confronti dei lavoratori assunti in prova solo nel momento in cui l’assunzione diviene definitiva. Il recesso dal patto di prova non può essere ricompreso neanche nell’art. 32 L. 183/2010 in quanto, da un lato, le ipotesi ivi previste sono tassative e, dall’altro, la norma di chiusura che estende il regime decadenziale "a tutti i casi di invalidità del licenziamento" deve intendersi riferita unicamente alle ipotesi di recesso unilaterale del datore di lavoro da un rapporto di lavoro che sia già in essere o perfezionato.

Patto di prova - Recesso - Mancato esperimento della prova - Illegittimità - Conseguenze

Una volta accertata l'illegittimità del recesso dal patto di prova – a causa del mancato esperimento per inadeguatezza della durata della prova ovvero quando risulti il superamento della prova per inesistenza del motivo illecito – l’unica conseguenza consiste nella prosecuzione della prova per il periodo di tempo mancante al termine prefissato, oppure il risarcimento del danno, poiché la dichiarazione di illegittimità del recesso nel periodo di prova non comporta che il rapporto di lavoro debba considerarsi stabilmente costituito.

Nota

Una lavoratrice di un’azienda ospedaliera, con mansione di collaboratore professionale sanitario/tecnico, durante il periodo di prova minimo di tre mesi previsto dalla contrattazione collettiva applicata al rapporto, veniva adibita a mansioni amministrative non pertinenti al proprio profilo contrattuale, in ragione del fatto che, avendo dichiarato il suo stato di gravidanza, fosse necessario spostarla in una zona non a rischio. Successivamente, l’azienda recedeva dal rapporto per mancato superamento della prova.

Tre anni dopo, la dipendente agiva in giudizio al fine di far accertare l’illegittimità di tale recesso.

Il Tribunale di Ancona, con sentenza confermata anche dalla Corte d’Appello, rigettava il ricorso della lavoratrice considerando inutilmente spirato il termine decadenziale di 60 giorni per l’impugnazione del licenziamento di cui all’32 L. 183/2010.

Avverso tale sentenza la dipendente ricorreva in Cassazione; l’azienda resisteva con controricorso.

La ricorrente, tra gli altri motivi, lamentava violazione e falsa applicazione dell’art. 10 L. 604/1966 che esclude il rapporto in prova dall’applicazione del regime decadenziale previsto sia dall’art. 6 L. 604/1966, sia dall’32 L. 183/2010.

La Corte di Cassazione ha premesso che il tema dell’applicabilità del termine decadenziale debba essere valutato solo dopo aver verificato la legittimità del recesso datoriale con riguardo al rispetto del diritto sostanziale della ricorrente al completo svolgimento della prova.

In base alle risultanze del merito, la Suprema Corte ha ritenuto non rispettato il periodo minimo di prova previsto dalla contrattazione collettiva, poiché, prima della relativa scadenza, la lavoratrice era stata adibita a mansioni diverse da quelle di assunzione che dovevano essere oggetto della prova. Il mancato esperimento della prova per il periodo minimo comporta l’illegittimità del recesso datoriale con conseguente accoglimento del ricorso.

Quanto alle conseguenze, la Corte ha ribadito il principio (già affermato in Cass. 1180/2017) secondo cui la declaratoria di illegittimità del recesso dal patto di prova, comporta solamente il diritto del lavoratore a proseguire la prova per il periodo di tempo mancante oppure il risarcimento del danno, non potendo trovare applicazione né la disciplina di cui alla L. 694/1966, né l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, poiché la dichiarazione d’illegittimità non comporta che il rapporto di lavoro debba considerarsi stabilmente costituito.

Ciò posto, la Suprema Corte ha altresì affermato la non applicabilità al recesso dal patto di prova del termine di decadenza per l’impugnazione dei licenziamenti, dato che, ai sensi dell’art. 10 L. 604/1966, tale disciplina trova applicazione nei confronti dei lavoratori assunti in prova solo "dal momento in cui l’assunzione diviene definitiva e, in ogni caso, quando sono decorsi sei mesi dall’inizio del rapporto". Il recesso dal patto di prova non può essere ricompreso neanche nell’art. 32 L. 183/2010 in quanto, da un lato, le ipotesi ivi previste sono tassative e il recesso dal patto di prova non è espressamente indicato e, dall’altro, la norma di chiusura che estende il regime decadenziale "a tutti i casi di invalidità del licenziamento" deve intendersi riferita unicamente alle ipotesi di recesso unilaterale del datore di lavoro da un rapporto di lavoro che sia già in essere o perfezionato.

 

Controlli difensivi occulti

Cass. Sez. Lav. 2 maggio 2017, n. 10636

Pres. Nobile; Rel. Lorito; P.M. Ceroni; Ric. M.M.; CC.I. soc. coop.;

Licenziamento disciplinare - Controllo a distanza - "Vecchio" art. 4 St. Lav. - Controlli difensivi occulti - Ammissibilità - Limiti - Rispetto garanzie dignità e libertà dipendenti

I controlli difensivi "occulti" sono tendenzialmente ammissibili, anche ad opera di personale estraneo all’organizzazione aziendale, in quanto diretti all’accertamento di comportamenti illeciti diversi dal mero inadempimento della prestazione lavorativa, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, ferma comunque restando la necessaria esplicazione delle attività di accertamento mediante modalità non eccessivamente invasive e rispettose delle garanzie di libertà e dignità dei dipendenti, con le quali l’interesse del datore di lavoro al controllo ed alla difesa della organizzazione produttiva aziendale deve contemperarsi, e, in ogni caso, sempre secondo i canoni generali della correttezza e buona fede contrattuale.

Nota

Va premesso che la fattispecie si colloca nell’ambito di applicazione dell’art. 4 St. lav. anteriore alla riscrittura disposta dall’art. 23 D. Lgs. 151 del 14.9.2015.

Nel caso in esame la Corte d’Appello di Ancona, in accoglimento del reclamo proposto dalla società, ha respinto la richiesta di declaratoria di illegittimità del recesso per giusta causa intimato a seguito dell’accertamento della reiterata sottrazione da parte del dipendente di prodotti aziendali. In particolare il datore aveva verificato il compimento delle attività contestate mediante una telecamera installata nel magazzino che riprendeva lo scaffale su cui erano collocati i prodotti dolciari oggetto di sottrazione.

I giudici territoriali sono pervenuti a tale decisione ritenendo che la strumentazione posta nel locale in questione integrasse una legittima ipotesi di cd. "controllo difensivo occulto" in quanto attuato con modalità non invasive e rispettose delle garanzie di libertà e dignità dei dipendenti, non avendo ad oggetto l’attività lavorativa ed il suo esatto adempimento.

Avverso la pronuncia il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi, entrambi respinti.

La Suprema Corte prima di entrare nel merito della vicenda effettua un lungo excursus del tema dei controlli difensivi, riportando una serie di dicta giurisprudenziali, tra cui quello citato nella massima conforme ad un recente precedente (Cass. 27 maggio 2015, n. 10955). La Cassazione ribadisce che l’art. 4 dello Statuto fa parte di quella complessa normativa diretta a contenere in vario modo le manifestazioni del potere organizzativo-direttivo del datore di lavoro che, per le modalità di attuazione incidenti nella sfera della persona, si ritengono lesive della dignità e della riservatezza del lavoratore, sul presupposto che la vigilanza sul lavoro, ancorché necessaria nell’organizzazione produttiva, vada mantenuta in una dimensione umana, e cioè non esasperata dall’uso di tecnologie che possono rendere la vigilanza stessa continua e anelastica, eliminando ogni zona di riservatezza e di autonomia nello svolgimento del lavoro (Cass., n. 17 giugno 2000, n. 8250; Cass. 17 luglio 2007, n. 15892; Cass. 23 febbraio 2012, n. 2722; Cass. 27 maggio 2015 n. 10955). Si sottolinea che l’esigenza di evitare il compimento di condotte illecite da parte dei dipendenti non può assumere una portata tale da giustificare un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e della riservatezza del lavoratore. Pertanto, come affermato in un recente arresto della Suprema Corte (Cass. 8 novembre 2016, n. 22662), l’installazione di impianti e apparecchiature di controllo poste a tutela del patrimonio aziendale non è soggetta alla disciplina dell’art. 4 St, lav. solo qualora dalle medesime non derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività lavorativa, nè risulti in alcun modo compromessa la dignità e la riservatezza dei lavoratori. La Cassazione evidenzia poi la coerenza di tali approdi ermeneutici con i principi dettati dall’art.8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo in base al quale nell’uso degli strumenti di controllo, deve individuarsi un giusto equilibrio fra i contrapposti diritti sulla base dei principi della "ragionevolezza" e della "proporzionalità" (cfr. Cedu 12/1/2016 Barbulescu c. Romania secondo cui lo strumento di controllo deve essere contenuto nella portata e, dunque, proporzionato).

Ritiene la Corte che la sentenza di appello sia conforme ai principi enunciati, avendo rilevato che la telecamera era stata installata nel magazzino ove operavano solo addetti di agenzie esterne, pertanto l’attività di controllo posta in essere dal datore non aveva avuto ad oggetto l’attività lavorativa ed il suo corretto adempimento, ma era volta alla necessità di tutelare il patrimonio aziendale, conseguentemente si era al di fuori del campo di applicazione dell’art. 4 l. 300 del 1970.

Infortunio sul lavoro e occasione di lavoro

Cass. Sez. Lav. 3 aprile 2017, n. 8597

Pres. Mammone; Rel. Doronzo; P.M. Finocchi Ghersi; Ric. C.S.G. S.p.A; Controric. I.N.A.I.L.;

Lavoro subordinato - Infortunio sul lavoro - Occasione di lavoro - Sussistenza - Condizioni - Fattispecie

L'infortunio subito dal lavoratore, seppure determinato da caso fortuito, con assenza di ogni responsabilità del datore di lavoro, non esclude l'occasione di lavoro, rilevante ai fini dell'applicabilità della normativa dell'assicurazione contro gli infortuni, ogni qualvolta è connesso alle modalità di svolgimento dell'attività lavorativa. L'occasione di lavoro sussiste, quindi, qualora l'evento che ha dato corso alla sequenza causale determinante il decesso del lavoratore si sia verificato in condizioni spazio-temporali caratterizzate dall'essere in quel momento il soggetto intento nell'attività di lavoro.

Nota

Il caso di specie riguarda un lavoratore che, mentre svolgeva la propria attività lavorativa (guida di un’autobetoniera), era stato colpito da uno shock anafilattico conseguente alla puntura di un insetto, che ne aveva causato la morte.

In seguito a tale evento, qualificato come infortunio sul lavoro, l’INAIL aveva comunicato alla società datrice di lavoro l’aumento del tasso di premio applicabile.

La società presentava ricorso avanti al Tribunale di Vercelli, chiedendo il ricalcolo del premio senza che si tenesse conto dell’infortunio mortale.

La domanda veniva accolta in primo grado, ma successivamente rigettata dalla Corte d’Appello di Torino che, a fondamento della propria decisione, affermava che l'evento mortale, pur essendo stato determinato da caso fortuito, con assenza di ogni responsabilità da parte del datore di lavoro, non escludeva l'occasione di lavoro, essendo l'infortunio connesso alle modalità di svolgimento dell'attività lavorativa, con conseguente legittimità del provvedimento adottato dall'INAIL.

Ricorre per Cassazione la società datrice di lavoro, affermando che, per giurisprudenza costante, l'occasione di lavoro sussiste solo quando l'attività lavorativa esponga il soggetto ad un rischio diverso da quelli gravanti sulla generalità dei cittadini o aggravi questi ultimi in misura non trascurabile, pur non richiedendosi che esso sia quello tipico della specifica attività, e non essendo per contro sufficiente che l'infortunio avvenga semplicemente nel luogo o tempo di lavoro. Sul punto, la Corte d’Appello, dopo aver escluso ogni responsabilità del datore di lavoro e ricondotto l'infortunio al caso fortuito, ha tuttavia ritenuto rilevanti le condizioni di tempo e luogo in cui esso si era verificato, senza considerare che il rischio di essere punti da un insetto incombe su chiunque si trovi in un qualsiasi ambiente, compreso l'abitacolo di un automezzo.

La Corte di Cassazione ha ritenuto il ricorso infondato, affermando innanzitutto che, ai sensi della normativa dell'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro non sono oggetto della speciale tutela solo gli infortuni direttamente derivati dalla lavorazione cui sono addetti i singoli lavoratori, ma tutti gli infortuni comunque verificatisi "in occasione di lavoro" (secondo l’esplicita previsione dell'art. 2 del D.P.R. 1124/1965) e quindi non solo quelli riconducibili al rischio tipico della specifica lavorazione, ma anche quelli derivanti da caso fortuito ed, in alcune ipotesi, quelli che discendono da cause estranee al lavoro svolto.

Sul punto, la giurisprudenza ha inoltre ritenuto che nell'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, il tasso specifico aziendale deve essere calcolato includendo nel computo tutti gli oneri a carico dell’INAIL per gli infortuni riguardanti la singola azienda, senza distinzione alcuna tra gli eventi dovuti a colpa del datore di lavoro e quelli dovuti a caso fortuito o forza maggiore, purché tali eventi siano ricompresi nell'ambito di tutela stabilito dal D.P.R. cit.

Ebbene, a detta della Corte, nel caso di specie la Corte d’Appello aveva correttamente applicato i principi sopra richiamati ed aveva adeguatamente esposto le ragioni per le quali ha ritenuto sussistente l'occasione di lavoro, sottolineando come l'evento che ha dato corso alla sequenza causale che ha poi determinato la morte del lavoratore, ossia la puntura dell'insetto, si sia verificato in condizioni spazio-temporali caratterizzate dall'essere in quel momento il soggetto intento all'attività di lavoro e, quindi, occupato nella guida dell’automezzo che gli ha impedito o comunque reso più difficile difendersi dall’insetto. Tale accertamento di fatto è da ritenersi congruo ed esaustivo, pertanto insindacabile.

Per tali motivi, la Corte di Cassazione ha concluso per il rigetto del ricorso.

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