Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Malattia professionale e prova della causa di lavoro
Insindacabilità dei motivi posti a base della riduzione di personale
Licenziamento di socio lavoratore di cooperativa
Giusta causa di dimissioni
L'obbligo di fedeltà del lavoratore subordinato

Malattia professionale e prova della causa di lavoro

Cass. Sez. Lav. 7 marzo 2017, n. 5704

Pres. D’Antonio; Rel. Doronzo; P.M. Sanlorenzo; Ric. P.M.; Controric. I.N.A.I.L.;

Malattia ad eziologia multifattoriale - Nesso eziologico tra l’attività lavorativa svolta e la patologia - Pluralità di cause (anche extra lavorative) - Sussiste

In materia di nesso causale tra attività lavorativa e malattia professionale, trova diretta applicazione la regola contenuta nell’art. 41 c.p., in forza della quale, in virtù del principio dell’equivalenza delle condizioni, va riconosciuta l’efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento. Solo se possa essere ravvisato con certezza l’intervento di un fattore estraneo all’attività lavorativa, che sia di per sé sufficiente a produrre l’infermità, tanto da far degradare altre evenienze a semplici occasioni, deve escludersi l’esistenza del nesso eziologico richiesto dalla legge.

Nota

La Corte di appello di Venezia confermava la sentenza resa dal Tribunale di Treviso che aveva rigettato la domanda proposta dagli appellanti, che, nella qualità di eredi di un lavoratore, deceduto a causa di un tumore alla laringe provocato dagli agenti patogeni e dalle sostanze chimiche cui era stato esposto durante l’attività lavorativa svoltasi per vent’anni alle dipendenze di aziende operanti nel settore petrolchimico., avevano chiesto la costituzione della rendita e il pagamento delle altre indennità di legge riconosciute in favore dei superstiti.

La Corte territoriale ha ritenuto che la consulenza tecnica di ufficio, disposta nel giudizio di primo grado, fosse corretta ed esaustiva e quindi da condividere nella parte in cui aveva ritenuto non provato il nesso causale tra la malattia che aveva causato il decesso e l’attività lavorativa, in presenza di un più importante fattore di rischio costituito dalla prolungata (vent’anni) e non modesta (15 - 20 sigarette al giorno) abitudine al fumo.

Avverso tale pronuncia proponevano ricorso gli eredi.

In particolare, i ricorrenti denunciavano che la Corte di appello si fosse limitata a prestare adesione alla consulenza tecnica di ufficio senza tener conto delle contestazioni mosse dalla parte appellante, nonché degli errori di fatto e di razionalità rilevabili nella consulenza medesima. Inoltre, i ricorrenti assumevano che, del tutto immotivatamente, il giudice di appello non avesse tenuto conto della richiesta di prove testimoniali e di rinnovo della consulenza tecnica di ufficio, avanzata in primo grado e reiterata in appello, pure avendo contraddittoriamente ribadito che, in presenza di una malattia multifattoriale non tabellata, fosse onere della parte provare il nesso causale tra la patologia e l’evento. Infine i ricorrenti assumevano che la sentenza impugnata non avesse adeguatamente valutato i criteri medico legali di verifica della sussistenza del nesso di causalità tra attività lavorativa e malattia, al fine di confermare l’esistenza di un elevato grado di probabilità della natura professionale della malattia neoplastica, anche in concorso con il fumo, dovendosi attribuire efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito alla produzione dell’evento.

La Suprema Corte accoglieva il ricorso e cassava la sentenza con rinvio alla Corte di Appello di Venezia in diversa composizione.

La Suprema Corte, richiamando propri precedenti giurisprudenziali in subiecta materia, ha innanzitutto rilevato che in tema di malattia professionale, derivante da lavorazione non tabellata o ad eziologia multifattoriale, la prova della causa di lavoro grava sul lavoratore e deve essere valutata in termini di ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la rilevanza della mera possibilità dell’origine professionale, questa può essere ravvisata in un rilevante grado di probabilità. A tal fine il giudice, oltre a consentire all’assicurato di esperire i mezzi di prova ammissibili e ritualmente dedotti, è tenuto a valutare le conclusioni probabilistiche del consulente tecnico in tema di nesso causale, facendo ricorso ad ogni iniziativa "ex officio", diretta ad acquisire ulteriori elementi in relazione all’entità ed alla durata dell’esposizione del lavoratore ai fattori di rischio (in tal senso cfr. Cass. 24 novembre 2015, n. 23951; Cass. 12 ottobre 2012, n. 17438). La Suprema Corte ha, altresì, chiarito che, alla stregua del consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, in materia di nesso causale tra attività lavorativa e malattia professionale trova diretta applicazione la regola contenuta nell’art. 41 c.p., in forza del quale, in virtù del principio dell’equivalenza delle condizioni, va riconosciuta l’efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento. Solo se possa essere ravvisato con certezza l’intervento di un fattore estraneo all’attività lavorativa, che sia di per sé sufficiente a produrre l’infermità, tanto da far degradare altre evenienze a semplici occasioni, deve escludersi l’esistenza del nesso eziologico richiesto dalla legge (in tal senso cfr. Cass. 26 maggio 2015, n. 6105; Cass. 19 giugno 2014, n. 13954; Cass. 11 novembre 2014, n. 23990).

Ebbene, con specifico riferimento al caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto che la Corte territoriale non si fosse attenuta a tali principi, atteso che, pure in presenza di una pluralità di cause - quali l’esposizione a sostanze nocive ed il tabagismo - ha rigettato la domanda limitandosi pedissequamente ad aderire alla consulenza tecnica di ufficio, senza affatto motivare le ragioni per le quali, nonostante la pacifica prolungata esposizione del de cuius ad agenti patogeni che presentano coefficienti di rischio cancerogeno - come affermato dallo stesso consulente - sia pervenuta alla conclusione che la patologia che ha provocato il decesso del lavoratore non potesse in alcun modo essere correlata all’esposizione lavorativa, attribuendo invece efficacia causale esclusiva al fumo.

Conclusivamente, la Suprema Corte ha chiarito che tale giudizio può essere espresso solo se, con certezza, si ravvisi l’intervento di un fattore estraneo all’attività lavorativa, che sia per sé sufficiente a produrre l’infermità, tanto da far degradare altre evenienze a semplici occasioni.

 

Insindacabilità dei motivi posti a base della riduzione di personale

Cass. Sez. Lav. 4 gennaio 2017, n. 66

Pres. D’Antonio; Rel. Berrino; P.M. Finocchi Ghersi; Ric. E.A.E.; Controric. E. s.p.a.;

Licenziamento collettivo - Comunicazione di avvio della procedura - Motivi della riduzione - Sindacabilità - Esclusione

In materia di licenziamenti collettivi, a seguito dell'entrata in vigore della legge 23 luglio 1991, n. 223, il controllo giudiziale non può avere ad oggetto i motivi specifici di riduzione del personale, ma soltanto la correttezza procedurale dell'operazione e non possono formare oggetto di cognizione giudiziaria tutte le censure a mezzo delle quali - senza che siano fatte valere violazioni degli artt. 4 e 5 della detta legge e comunque senza che sia offerta prova della dolosa elusione dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali e delle stesse procedure di mobilità al fine di effettuare discriminazioni tra i lavoratori - si intenda investire l'autorità giudiziaria di un'indagine sull'effettiva esigenza di riduzione o trasformazione dell'attività; ne consegue che, una volta che la procedura si sia svolta nel rispetto degli adempimenti previsti dalla legge 23 luglio 1991, n. 223, condotte datoriali quali l'assunzione di nuovi lavoratori o la richiesta di svolgimento di lavoro straordinario, dopo il licenziamento, sono irrilevanti, risultando esse inidonee ad incidere sulla validità del licenziamento stesso.

Nota

La Corte d'appello di Torino ha rigettato il gravame proposto dal lavoratore avverso la sentenza che aveva respinto l’impugnativa del licenziamento intimatogli all’esito della procedura di riduzione del personale ex L. 223/91. In particolare la Corte territoriale ha ritenuto la procedura conforme alle prescrizioni di legge ed esente dai vizi di arbitrarietà sostenuti dal lavoratore che lamentava la natura ritorsiva del recesso.

Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione, censurandola sotto vari profili, tutti respinti dalla Suprema Corte.

Per quanto qui rileva, con la massima riportata, la Cassazione ha ribadito un principio già affermato in numerosi precedenti (Cass. 26 agosto 2013, n. 19576) nei quali si è precisato che non è consentito il sindacato giurisdizionale sulle scelte imprenditoriali in tema di ridimensionamento del livello occupazionale in rapporto alle esigenze di ristrutturazione o riorganizzazione aziendale quando le medesime risultino provate.

Seguendo tale impostazione la Cassazione ha evidenziato che, nella fattispecie in esame, attraverso l’apparente prospettazione di vizi di violazione di legge, era stata in realtà sollevata una richiesta di rivalutazione del merito istruttorio, già esaminato dalla Corte territoriale con motivazione immune da vizi.

Secondo la Cassazione, infatti, i giudici del merito avevano dimostrato sia di aver tenuto in debito conto le risultanze istruttorie - laddove hanno ritenuto confermato la stato di effettività della crisi aziendale che aveva generato la procedura di CIGS - sia di aver valutato con attenzione la correttezza procedimentale della procedura di riduzione, accertando che erano state effettuate tempestivamente tutte le comunicazioni prescritte e si era dato corso ai processi di verifica e controllo sindacale.

Il ricorso viene, pertanto, integralmente respinto.

 

Licenziamento di socio lavoratore di cooperativa

Cass. Sez. Lav. 10 febbraio 2017, n. 3634

Pres. Napoletano; Rel. Manna; P.M. Finocchi Ghersi; Ric. C.S.I.S.D.U.C. O.N.L.U.S.; Controric. B.A.R.;

Società cooperative - Lavoratore subordinato socio della cooperativa - Estinzione del rapporto - Licenziamento disciplinare - Delibera di esclusione del socio - Fondamento - Conseguenze - Art. 18 dello Statuto dei Lavoratori - Applicabilità - Fattispecie

In tema di società cooperativa di produzione e lavoro, ove la delibera di esclusione del socio si fondi esclusivamente sull'intimato licenziamento per giusta causa, trova applicazione, in forza del rinvio operato dall'art. 2 della Legge n. 142 del 2001, l'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori e, conseguentemente, anche l’eventuale reintegrazione nel posto di lavoro.

Nota

Il caso di specie riguarda un licenziamento disciplinare intimato ad una socia lavoratrice di una cooperativa.

Tale licenziamento veniva dichiarato illegittimo dalla Corte d’Appello di Torino, con conseguente condanna della società cooperativa a reintegrare la lavoratrice nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.

Ricorre per Cassazione la società, lamentando, tra vari motivi di ricorso, che l’esclusione del socio di cooperativa comporta l’inapplicabilità della tutela reale di cui all’art. 18 St. Lav.

La Corte di Cassazione ha ritenuto tale motivo infondato, affermando che, se la delibera di esclusione del socio è fondata esclusivamente sull'intervenuto licenziamento disciplinare (come nel caso di specie), alla dichiarazione di illegittimità del licenziamento consegue la pari illegittimità della delibera di esclusione del socio. Pertanto, in base all'art. 2 della legge n. 142/01, trova applicazione l'art. 18 del Statuto dei Lavoratori e, con esso, la tutela cd. reale del posto di lavoro (cfr. in tal senso, da ultimo, Cass. n. 1259/2015).

L’art. 2 cit. prevede, infatti, che ai soci lavoratori di cooperativa con rapporto di lavoro subordinato si applichi lo Statuto dei Lavoratori, compreso il relativo art. 18, salvo che venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo (cfr. art. 2 L. 142/2001: "Ai soci lavoratori di cooperativa con rapporto di lavoro subordinato si applica la legge 20 maggio 1970, n. 300, con esclusione dell'articolo 18 ogni volta che venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo"). Tuttavia, qualora il rapporto di lavoro non si sia risolto in ragione della cessazione del rapporto associativo, ma - al contrario - quest'ultimo sia cessato in ragione dell’intimato licenziamento per giusta causa al socio lavoratore (come avvenuto nella vicenda in questione), non ricorre la fattispecie eccettuata dal suddetto art. 2 e, conseguentemente, si applica la disciplina ordinaria di reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato.

Per tali motivi, la Corte di Cassazione ha concluso per il rigetto del ricorso.

Giusta causa di dimissioni

Cass. Sez. Lav. 4 gennaio 2017, n. 73

Pres. Di Cerbo; Rel. Amendola; P.M. Celeste; Ric.V.R.; Controric. P. S.p.A.

Lavoro subordinato - Demansionamento - Dimissioni - Giusta causa - Livello professionale - Collocazione nell’ambito aziendale - Valutazione - Accertamento di fatto - Necessità

Perché sussista una giusta causa di dimissioni è necessario far riferimento all'incidenza della riduzione delle mansioni sul livello professionale raggiunto dal dipendente e sulla sua collocazione nell'ambito aziendale. La valutazione dell’idoneità della condotta del datore di lavoro sotto il profilo del demansionamento a costituire giusta causa di dimissioni del lavoratore ex art. 2119 c.c. si risolve in un accertamento di fatto rimesso al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato.

Nota

La Corte d'appello di Brescia confermava la sentenza del Tribunale che aveva rigettato la domanda del dipendente dimissionario per giusta causa volta a ottenere il pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso.

La Corte territoriale argomentava che nell'ambito di una riorganizzazione aziendale, la società aveva deciso che alcune filiali (inclusa quella affidata al dipendente), venissero trasformate in sportelli, con conseguente perdita dell'autonomia creditizia. Tale perdita comportava che la gestione dei clienti "small business" sarebbe passata ad un’altra sede, mentre sarebbe rimasta alla filiale la gestione dei rapporti con i clienti privati. Tale modifica non costituiva, ad avviso della Corte d'appello, un demansionamento idoneo a costituire giusta causa di dimissioni in assenza di prova del numero dei clienti aziendali sottratti alla filiale e considerato che la riorganizzazione si era protratta per soli nove giorni prima delle dimissioni del ricorrente.

Avverso la sentenza della Corte di appello ha proposto ricorso per Cassazione il dipendente contestando alla Corte di non aver considerato le circostanze di fatto emerse durante il giudizio e ritenute idonee a supportare la fondatezza della sua domanda.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

Infatti, secondo la Cassazione, la Corte avrebbe correttamente rilevato che non è sufficiente qualunque modificazione qualitativa o quantitativa della prestazione per aversi giusta causa di dimissioni ex art. 2119 c.c., essendo invece necessario che essa incida sul livello professionale raggiunto dal dipendente, sulla sua collocazione nell'ambito aziendale e, con riguardo al dirigente, anche sulla rilevanza del ruolo.

Per la Corte, la valutazione dell'idoneità della condotta della società a costituire giusta causa di dimissioni ex art. 2119 c.c., sotto il profilo del demansionamento, è comunque un accertamento di fatto rimesso al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato.

Per tali motivi la Corte ha ritenuto che non soffre delle lacune lamentate la motivazione della Corte territoriale che ha escluso nella fattispecie i presupposti per le dimissioni per giusta causa sia sulla base della valutazione del mutamento organizzativo quale realizzato in concreto, sia sulla base della considerazione che le dimissioni erano intervenute solo nove giorni dopo la riorganizzazione, il che impediva di verificare in concreto quale fosse la differenza qualitativa e quantitativa tra i due incarichi.

 

L'obbligo di fedeltà del lavoratore subordinato

Cass. Sez. Lav. 13 febbraio 2017, n. 3739

Pres. Macioce; Rel. Di Paolantonio; P.M. Ghersi; Ric. P.S.; Controric. Z.M. S.r.l.;

Licenziamento disciplinare - Giusta causa - Violazione obbligo di fedeltà - Contenuto - Integrazione con i principi di correttezza e buona fede - Atti che per natura e possibili conseguenze risultano in contrasto con i doveri connessi al rapporto di lavoro - Rilevanza.

Sebbene l'art. 2105 c.c. richiami espressamente, oltre al divieto di concorrenza, solo il "divulgare notizie attinenti all'organizzazione e ai metodi di produzione dell'impresa" o il "farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio", la non ricorrenza di tutti gli elementi costitutivi delle fattispecie delineate dal legislatore non è sufficiente a fare escludere la violazione dell'obbligo di fedeltà, atteso che il contenuto di detto obbligo è più ampio rispetto a quello risultante dall’art. 2105 c.c., integrandosi detta norma con gli artt. 1175 e 1375 c.c., che impongono al lavoratore di improntare la sua condotta al rispetto dei canoni generali di correttezza e buona fede. Ne discende che il prestatore deve astenersi dal compiere, non solo gli atti espressamente vietati, ma anche quelli che, per la loro natura e per le possibili conseguenze, risultino in contrasto con i doveri connessi al suo inserimento nella compagine aziendale, ivi compresa la "mera preordinazione di attività contraria agli interessi del datore di lavoro, potenzialmente produttiva di danno.

Nota

Un dipendente veniva licenziato per giusta causa in ragione dell’abusiva acquisizione di informazioni confidenziali relative ad uno specifico prodotto, fabbricato e commercializzato dal proprio datore di lavoro. In particolare, al lavoratore era stato contestato il possesso di appunti manoscritti concernenti le materie prime, il relativo costo, l’identità dei fornitori e dei clienti, nonché le modalità di produzione e di trasporto di tale prodotto, informazioni che non erano disponibili al dipendente, in quanto estranee alle sue mansioni di responsabile della manutenzione.

Il lavoratore agiva in giudizio per ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento e la reintegrazione nel posto di lavoro.

La Corte d’Appello di Venezia, confermava la legittimità del recesso datoriale, ritenendo provato, alla luce dell’istruttoria svolta, il possesso di informazioni riservate da parte del dipendente nonché la destinazione di tali informazioni ad altro imprenditore (che, sentito come testimone, aveva confermato la circostanza). La Corte territoriale considerava sussistente la giusta causa di recesso, perché la condotta contestata era tale da ledere il vincolo fiduciario, integrando un’evidente violazione dell'art. 2105 c.c.

Avverso tale sentenza il dipendente ricorreva in Cassazione; la società resisteva con controricorso.

Il lavoratore, tra gli altri motivi di ricorso, lamentava violazione e falsa applicazione dell’art. 2105 c.c., sostenendo che la violazione dell’obbligo di fedeltà sia configurabile solo qualora le notizie riservate vengano divulgate all’esterno non già nell’ipotesi, contestata nel caso di specie, della mera acquisizione di informazioni confidenziali.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso ribadendo il principio di diritto (già affermato in Cass. 144/2015 e Cass. 2474/2008) secondo cui l’obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c. non è limitato alle sole ipotesi espressamente previste dal legislatore (cioè il divieto per i dipendenti di trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l'imprenditore, di divulgare notizie attinenti all'organizzazione e ai metodi di produzione dell'impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio), dovendo essere integrato con gli artt. 1175 e 1375 c.c. che impongono al lavoratore di improntare la sua condotta al rispetto dei principi di correttezza e buona fede. Di conseguenza, la Suprema Corte ha confermato che l’obbligo di fedeltà impone al dipendente di astenersi dal compiere qualsivoglia atto che, per sua natura e le possibili conseguenze, risulti in contrasto con i doveri connessi al rapporto di lavoro, compresa la mera preordinazione di attività contraria agli interessi del datore di lavoro, potenzialmente produttiva di danno.

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