Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Collegamento funzionale tra imprese e obbligo di repechage
Licenziamento per superamento del periodo di comporto
Trasferimento del dipendente, obblighi di motivazione
Presunzione assoluta di subordinazione per il contratto a progetto non specifico
Disciplina del trasferimento d'azienda

Collegamento funzionale tra imprese e obbligo di repechage

Cass. Sez. Lav. 5 gennaio 2017, n. 160

Pres. Venuti; Rel. Lorito; P.M. Sanlorenzo; Ric. A.G.A.; Contr. S.I. s.p.a.

Gruppo di imprese - Elementi costitutivi - Unicità struttura organizzativa e produttiva - Coordinamento tecnico e amministrativo - Utilizzo contemporaneo della prestazione - Necessità

Il collegamento economico-funzionale tra imprese gestite da società del medesimo gruppo non è di per sé solo sufficiente a far ritenere che gli obblighi inerenti a un rapporto di lavoro formalmente intercorso tra un lavoratore e una di esse, si debbano estendere anche all'altra. Pertanto, è necessaria la sussistenza dei requisiti della unicità della struttura organizzativa e produttiva, dell'integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo, del coordinamento tecnico e amministrativo tale da individuare un unico soggetto direttivo e dell'utilizzazione contemporanea della prestazione da parte delle varie società titolari delle distinte imprese.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo - Obbligo di repechage - Onere di allegazione in capo al lavoratore - Insussistenza - Onere di allegazione e prova gravante esclusivamente sul datore di lavoro - Sussistenza

In materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, spetta esclusivamente al datore di lavoro l'allegazione e la prova dell'impossibilità di repechage del lavoratore licenziato, con esclusione di un onere di allegazione al riguardo del secondo, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i due suddetti oneri. Tale orientamento è inoltre coerente con il principio della vicinanza della prova, inteso come apprezzamento dell'effettiva possibilità per l'una o per l'altra parte di offrirla.

Nota

Il caso sottoposto all'esame della Suprema Corte trae origine dal ricorso presentato da un lavoratore presso il Tribunale di Firenze teso a far dichiarare l'illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimatogli nel giugno del 2009 per cessazione della attività da parte della sua datrice di lavoro. A parere del ricorrente la motivazione del recesso doveva ritenersi insussistente e, comunque, il datore di lavoro non gli aveva offerto alcuna possibilità di repechage.

Il Tribunale respingeva le domande, ritenendo che l'attività per la quale era stato assunto il lavoratore fosse effettivamente cessata al momento del recesso e, in merito al repechage, mancasse in ricorso l'allegazione di posizioni alternative ove poterlo destinare.

La Corte di appello di Firenze aveva ritenuto inammissibile il ricorso proposto dal dipendente.

Il lavoratore impugna la pronuncia dinanzi alla Corte di Cassazione sostenendo, con il primo motivo, che la sentenza aveva errato nel non valutare il collegamento societario esistente tra le varie società del gruppo, ragione per cui l'individuazione del personale eccedentario avrebbe dovuto estendersi all'intero gruppo societario.

La Cassazione respinge il motivo, rilevando che il collegamento economico funzionale tra imprese gestite da società del medesimo gruppo non è di per sé sufficiente a far ritenere che gli obblighi relativi ad un rapporto di lavoro subordinato, formalmente intercorso tra un lavoratore ed una di esse, si debbano estendere anche all'altra società, a meno che non venga ravvisato un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro. E', invece, necessaria la sussistenza dei requisiti della unicità della struttura organizzativa e produttiva, dell'integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo, del coordinamento tecnico e amministrativo tale da individuare un unico soggetto direttivo e dell'utilizzazione contemporanea della prestazione da parte delle varie società titolari delle distinte imprese.

Nel caso di specie, secondo la Cassazione, correttamente il giudice del merito - all'esito dell'esame del quadro probatorio - aveva ritenuto insussistenti tali requisiti.

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia l'erroneità della sentenza nella parte in cui non aveva considerato che la chiusura dei lavori della datrice non aveva determinato la cessazione dell'attività amministrativa, proseguita almeno fino al 2010. Inoltre, secondo la prospettazione del ricorrente, la sentenza era incorsa in un errore di fondo laddove aveva invertito l'onere probatorio in tema di ricollocazione del lavoratore.

La Suprema Corte, preliminarmente, richiama la disciplina in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, rilevando che, in tali casi, compete al giudice il controllo in ordine all'effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro, in ordine alla quale quest'ultimo ha l'onere di provare la effettività delle ragioni che giustificano il riassetto organizzativo (Cass. 14.05.2012, n. 7474). Allo stesso modo, tale prova non è sufficiente ad integrare gli estremi del giustificato motivo oggettivo, essendo necessario dimostrare la inutilizzabilità del lavoratore in altre posizioni equivalenti, secondo un consolidato principio giurisprudenziale che configura il licenziamento quale extrema ratio. In tal senso spetta al datore di lavoro provare, con riferimento all'organizzazione aziendale esistente all'epoca del recesso, l'impossibilità di adibire utilmente il lavoratore in mansioni diverse ma compatibili con la qualifica rivestita. Nel caso in esame, la pronuncia impugnata aveva ritenuto che il lavoratore, sul punto, non avesse assolto all'onere di allegazione sullo stesso incombente in merito all'esistenza di collocazioni professionali alternative.

Secondo la Cassazione l'affermazione cui è giunto il giudice del merito non è condivisibile in quanto si fonda su un orientamento giurisprudenziale che è stato oggetto di recente rimeditazione, ciò in quanto tale opzione determina, sul piano processuale, una sostanziale inversione dell'onere probatorio che, al contrario, l'art. 5, L. 604/1966, pone inequivocabilmente a carico del datore di lavoro (cfr. Cass. 13.06.2016, n. 12101; Cass. 22.03.2016, n. 5592). Infatti, secondo i giudici di legittimità, sia l'onere di allegazione che l'onere probatorio non possono che incombere sulla medesima parte, nel senso che chi ha l'onere di provare un fatto primario ha altresì l'onere della relativa compiuta allegazione. Peraltro, aggiunge la Cassazione, il risalente indirizzo non è coerente con l'altro orientamento giurisprudenziale che accentua il principio della vicinanza della prova, inteso come apprezzamento dell'effettiva possibilità per l'una o per l'altra parte di offrirla (Cass. 29.01.2016, n. 1665). Invero, mentre il lavoratore non ha accesso alla compagine organizzativa dell'azienda per verificare l'esistenza di posizioni lavorative alternative ove poter essere ricollocato, il datore di lavoro ne dispone agevolmente, sicché è anche più vicino alla concreta possibilità della relativa allegazione e prova.

Alla luce di tali argomentazioni, la Suprema Corte accoglie il motivo in quanto la pronuncia impugnata non appare coerente ai principi sopra enunciati in tema di repechage.

Licenziamento per superamento del periodo di comporto

Cass. Sez. Lav. 10 gennaio 2017, n. 284

Pres. Amoroso; Rel. Negri Della Torre; P.M. Finocchi Ghersi; Ric. D.T.; Contr. T.P.A.P.

Licenziamento per superamento del periodo di comporto - Motivazione - Giornate di assenza già note al lavoratore - Sufficiente indicazione numero complessivo di assenze nella lettera di licenziamento - Prova analitica dei fatti costitutivi da rendersi in giudizio - Malattia insorta durante periodo di ferie - Interruzione periodo di ferie - Computabilità dei giorni di assenza nel comporto - Sufficiente invio del certificato medico in costanza di ferie al fine di mutare il titolo dell'assenza - Volontà inequivoca del lavoratore

La malattia insorta durante il periodo feriale sospende il decorso di quest'ultimo. La trasmissione al datore di lavoro, da parte del lavoratore, di certificazione di malattia durante il periodo feriale in relazione a giorni compresi in tale periodo vale quale richiesta di modificazione del titolo dell'assenza (da ferie a malattia), pur in assenza di una espressa comunicazione (scritta od orale) al riguardo, trattandosi dell'atto cui è consegnata, in modo inequivoco, la volontà del soggetto di determinare l'effetto giuridico della conversione.

Nota

Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione torna sulla questione del licenziamento per superamento del periodo di comporto.

Nel caso in esame, la lavoratrice lamentava di non aver ottenuto, a seguito di richiesta successiva al licenziamento, la specificazione da parte dell'azienda datrice di lavoro delle giornate di assenza computate nel periodo di comporto; ancora, si controverteva sull'idoneità del semplice inoltro di un certificato medico, riguardante giornate ricadenti in un periodo di ferie già iniziato, ad interrompere il periodo feriale e ad imputare le relative giornate di assenza a malattia, con conseguente computo delle stesse ai fini del comporto.

La Corte, in primo luogo, ha ribadito il consolidato orientamento secondo cui "il licenziamento per superamento del periodo di comporto è assimilabile non già ad un licenziamento disciplinare ma ad un licenziamento per giustificato motivo oggettivo; così che 'solo impropriamente, riguardo ad esso, si può parlare di contestazione delle assenze, non essendo necessaria la completa e minuta descrizione delle circostanze di fatto relative alla causale e trattandosi di eventi, l'assenza per malattia, di cui il lavoratore ha conoscenza diretta. Ne consegue che il datore di lavoro non deve indicare i singoli giorni di assenza, potendosi ritenere sufficienti indicazioni più complessive, idonee ad evidenziare un superamento del periodo di comporto in relazione alla disciplina contrattuale applicabile, come l'indicazione del numero totale di assenza verificatesi in un determinato periodo, fermo restando l'onere, nell'eventuale sede giudiziaria, di allegare e provare, compiutamente, i fatti costitutivi del potere esercitatò".

Venendo alla questione dell'idoneità della malattia insorta durante il periodo di ferie a sospendere il decorso di quest'ultimo, la Cassazione conferma l'orientamento positivo, citando, al riguardo, la pronuncia della Corte costituzionale n. 616/1987 sul punto.

Ancora, a parere dei giudici di legittimità, non può sorgere alcun dubbio sulla volontà del lavoratore di mutare il titolo delle assenze da ferie a malattia, in presenza di una trasmissione, al proprio datore di lavoro, di un certificato medico riguardante giornate già ricadenti nel periodo di ferie.

Di talché, la Cassazione ritiene sufficiente tale mera trasmissione, pur in assenza di ulteriori comunicazioni, scritte o orali, al fine di interrompere il periodo feriale e imputare le giornate "coperte" da certificato ad assenza per malattia (e non più a ferie). Naturalmente, conseguenza inevitabile di ciò, è la computabilità di queste ultime giornate di assenza all'interno del periodo di comporto.

Fermo restando quanto sopra, avendo la Corte d'Appello omesso di considerare un fatto decisivo per il giudizio, la Cassazione ha accolto il relativo motivo di ricorso e rinviato gli atti al giudice d'appello, in diversa composizione.

Trasferimento del dipendente, obblighi di motivazione

Cass. Sez. Lav. 13 gennaio 2017, n. 807

Pres. Nobile; Rel. Lorito; P.M. Ceroni; Ric. P.I. S.p.A.; Controric. L.L.

Trasferimento del dipendente - Motivi - Obbligo di indicazione nel provvedimento datoriale - Insussistenza - Onere della prova in giudizio a carico del datore di lavoro - Sussistenza

Sebbene il provvedimento di trasferimento non sia soggetto ad alcun onere di forma e non debba necessariamente contenere l'indicazione dei motivi, né il datore di lavoro abbia l'obbligo di rispondere al lavoratore che li richieda, ove sia contestata la legittimità del trasferimento, il datore di lavoro ha l'onere di allegare e provare in giudizio le fondate ragioni che lo hanno determinato e, se può integrare o modificare la motivazione eventualmente enunciata nel provvedimento, non può limitarsi a negare la sussistenza dei motivi di illegittimità oggetto di allegazione e richiesta probatoria della controparte, ma deve comunque provare le reali ragioni tecniche, organizzative e produttive che giustificano il provvedimento.

Nota

La Suprema Corte è tornata a pronunciarsi in materia di trasferimento di lavoratore dipendente ex art. 2103 c.c.. Nel caso in esame, la Corte d'Appello di Bari, in riforma della sentenza di primo grado (che, invero, dichiarava inammissibile il ricorso per genericità della causa petendi in violazione dell'art. 414 c.p.c.), accoglieva la domanda, proposta da un lavoratore, volta alla declaratoria di illegittimità del trasferimento disposto nei suoi confronti dall'azienda, con conseguente condanna della società alla riammissione dello stesso nella posizione lavorativa ricoperta al momento del provvedimento datoriale.

Osservava, nello specifico, la Corte territoriale come la job rotation - invocata dalla società quale strumento per favorire la crescita professionale dei dipendenti, nonché lo sviluppo delle attività produttive (e ciò mediante una nuova migliore organizzazione delle risorse sul territorio) - in realtà si traducesse in uno strumento per realizzare un trasferimento, in assenza delle garanzie previste dalla legge.

Avverso la predetta sentenza, la società ha proposto ricorso per cassazione, duolendosi, in particolare: a) dell'erronea qualificazione, da parte della Corte di merito, dell'assegnazione del lavoratore ad altro ufficio in termini di trasferimento piuttosto che di "diversa allocazione" (ciò in violazione dell'art. 2103 c.c. nonchè della normativa contrattual-collettiva applicabile al caso in esame che prevede, ai fini dell'applicazione della disciplina dei trasferimenti, un requisito chilometrico in termini di distanza dalla sede di lavoro di provenienza); b) dell'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, per aver la Corte d'Appello negato l'avvenuta enunciazione, da parte dell'azienda, delle ragioni sottese alla diversa allocazione del lavoratore (cd. job rotation); ragioni che, peraltro, la società si è offerta di provare, avendo articolato, sia in primo sia in secondo grado, mezzi istruttori che non erano stati ammessi dal giudicante.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, ribadendo i seguenti principi ormai consolidati: 1) il datore di lavoro ha facoltà di disporre il trasferimento del lavoratore ad altra unità produttiva, sempre che il mutamento della sede sia giustificato da sufficienti ragioni tecniche, organizzative e produttive (Cass. 09/08/2013, n. 19095); 2) la nozione di trasferimento del lavoratore ex art. 2103 c.c. non è configurabile quando lo spostamento venga attuato nell'ambito della medesima unità produttiva (v. Cass. 18/05/2010, n. 12097); 3) sebbene il provvedimento di trasferimento non sia soggetto ad alcun onere di forma né debba contenere l'indicazione dei motivi, il datore di lavoro ha l'onere di allegare e provare in giudizio le ragioni che lo hanno determinato, non potendosi limitare a contestare la sussistenza dei motivi di illegittimità (del provvedimento datoriale) dedotti da controparte (v. ex plurimis Cass. 17/05/2010, n. 11984).

Ebbene, la Suprema Corte ha osservato come correttamente la Corte di merito, in ossequio ai principi sopra esposti, abbia, in primis, qualificato il provvedimento come trasferimento (non avendo la società ricorrente in alcun modo argomentato in ordine all'eventuale identità delle unità produttive di provenienza e di destinazione ovvero alla mancanza di autonomia strutturale e funzionale dell'ufficio di provenienza rispetto a quella di destinazione) e, in secundis, stigmatizzato la mancata allegazione e prova, da parte datoriale, delle ragioni sottese alla diversa allocazione del dipendente, e ciò in quanto la dedotta prassi aziendale di avvicendamento del personale quadro su posti di responsabilità (cd. job rotation) è stata espressa in termini del tutto generici e, come tali, inidonei a garantire la verificabilità della fondatezza delle ragioni del provvedimento di trasferimento adottato (anche con riferimento alla posizione lavorativa del dipendente).

Presunzione assoluta di subordinazione per il contratto a progetto non specifico

Cass. Sez. Lav. 24 gennaio 2017, n. 1744

Pres. Nobile; Rel. Boghetich; Ric. M.&M. S.n.c. e M.S. S.r.l.; Controric. M.C.

Lavoro - Lavoro Subordinato - Lavoro a progetto - Regime sanzionatorio ex art. 69, D.Lgs. 276/2003 ("ratione temporis" vigente) - Assenza di specifico progetto - Accertamento sulla natura del rapporto - Esclusione - Conversione automatica in rapporto di lavoro subordinato - Sussistenza

In tema di lavoro a progetto, l'art. 69, comma 1, D.lgs. 276/2003 ("ratione temporis" applicabile nella versione antecedente le modifiche di cui all'art. 1, L. 92/2012) si interpreta nel senso che, quando un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa sia instaurato senza l'individuazione di uno specifico progetto, non si fa luogo ad accertamenti volti a verificare se il rapporto si sia esplicato secondo i canoni dell'autonomia o della subordinazione, ma ad automatica conversione in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, sin dalla data di costituzione dello stesso.

Nota

Nella sentenza in commento, la Suprema Corte definisce la natura della presunzione di subordinazione di cui all'art. 69, c. 1, D.Lgs. 276/2003, ante novella ex art. 1, L. 92/2012.

Nella fattispecie, due società stipulavano con lo stesso lavoratore due contratti a progetto, concernenti l'attività di promozione telefonica o informatica dei prodotti venduti dalle medesime aziende. I predetti rapporti cessavano alla scadenza dei termini rispettivamente apposti.

I Giudici del merito, in accoglimento delle domande del prestatore, da un lato, accertavano che l'oggetto dei contratti coincideva con l'oggetto sociale delle committenti e, conseguentemente, costituivano in capo a queste ultime un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato; dall'altro, ritenevano che l'estromissione del lavoratore dall'azienda al momento della scadenza del termine apposto equivalesse ad un licenziamento intimato oralmente, con conseguente applicazione degli artt. 2, L 604/1966 e 18, L. 300/1970. Segnatamente, la Corte d'appello motivava che l'estromissione dal contesto aziendale fosse riconducibile alla volontà delle società, espressa in forma orale, "determinata da un calo delle vendite e da errori commessi" dal lavoratore, non essendo, per contro, provate né le dimissioni di quest'ultimo né una risoluzione consensuale.

Le società proponevano ricorso per Cassazione denunciando l'erronea qualificazione della presunzione ex art. 69, c. 1, D.Lgs. 276/2003 come assoluta, anziché come relativa (facoltizzante la prova contraria), nonché l'omessa valutazione della scadenza del termine quale valida causa di cessazione dei rapporti.

La Suprema Corte respinge entrambe le censure, argomentando come segue.

Sotto il primo profilo, osserva che la specificità del progetto costituisce l'elemento caratterizzante della differenza tra un genuino rapporto di lavoro a progetto e un contratto a progetto stipulato "solo per celare un rapporto di lavoro subordinato", sicché in mancanza di progetto specifico la conversione automatica in rapporto di lavoro subordinato non può essere evitata neppure provando che la prestazione lavorativa sia stata caratterizzata da una piena autonomia organizzativa ed esecutiva (conformi Cass. nn. 17636/2016, 17448/2016, 17127/2016 e 9471/2016).

Quanto al secondo, i Giudici di legittimità - pur riconoscendo, in via generale, che, ove sia previsto un termine finale, riveste, di per sé, "natura meramente ricognitiva la comunicazione alla controparte di cessazione del rapporto" da una certa data - ritengono, nella specie, corretta la statuizione della Corte territoriale, la quale, sulla base del libero interrogatorio del lavoratore, aveva rilevato come l'estromissione dal contesto aziendale fosse riconducibile alla volontà delle società "determinata da un calo delle vendite e da errori commessi" dal lavoratore, senza che fossero state provate né le dimissioni di quest'ultimo né una risoluzione consensuale, così qualificando detta estromissione quale recesso datoriale, espresso in forma orale, con conseguente radicale inefficacia dello stesso e con obbligo per i datori di corrispondere al prestatore, "trattandosi di rapporto di lavoro in atto", le retribuzioni non percepite a causa dell'altrui inadempimento.

Disciplina del trasferimento d'azienda

Cass. Sez. Lav. 4 gennaio 2017, n. 71

Pres. Napoletano; Rel. Esposito; Ric. C. T. T. S.r.l.; Controric. M.P.+6

Lavoro subordinato - Trasferimento d'azienda o di ramo d'azienda - Requisiti - Autonomia funzionale preesistente alla cessione - Necessità

Ai fini del trasferimento di ramo d'azienda previsto dall'art. 2112 c.c., anche nel testo modificato dall'art. 32 del d.lgs. n. 276 del 2003, costituisce elemento costitutivo della cessione l'autonomia funzionale del ramo ceduto, ovvero la sua capacità, già al momento dello scorporo dal complesso cedente, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi funzionali ed organizzativi e quindi di svolgere, senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario, il servizio o la funzione finalizzati nell'ambito dell'impresa cedente, indipendentemente dal contratto di fornitura di servizi che venga contestualmente stipulato tra le parti. Incombe su chi intende avvalersi degli effetti previsti dall'art. 2112 c.c., che derogano al principio del necessario consenso del contraente ceduto ex art. 1406 c.c., fornire la prova dell'esistenza dei relativi requisiti di operatività.

Nota

Il caso in esame affronta il tema della configurabilità di un trasferimento di ramo d'azienda e dell'applicabilità della connessa disciplina nell'ipotesi in cui l'autonomia funzionale del ramo oggetto di cessione non preesista al trasferimento.

Nel caso di specie alcuni lavoratori erano passati alle dipendenze di altra società, ai sensi dell'art. 2112 c.c., a seguito della cessione a quest'ultima, tramite un affitto di ramo, di una serie di servizi amministrativi che la cessionaria avrebbe poi dovuto svolgere in favore della cedente in virtù di contratto di appalto di servizi.

I lavoratori interessati dal trasferimento avevano chiesto che ne venisse dichiarata l' inefficacia e che, conseguentemente, fosse dichiarata l'illegittimità del successivo licenziamento operato dal cessionario e il ripristino del rapporto con l'impresa cedente, con conservazione della medesima sede di servizio.

Le domande di cui sopra, respinte dal giudice di prime cure, venivano accolte in secondo grado dalla Corte d'Appello di Firenze che, investita della questione, aveva dichiarato di aderire all'orientamento giurisprudenziale per cui può dirsi sussistente un ramo d'azienda ai sensi dell'art. 2112 c.c. solo nel caso in cui l'autonomia funzionale dello stesso preesista al trasferimento. La Corte territoriale rilevava altresì che nel caso di specie non si era in presenza di un ramo capace di vita autonoma sul mercato e, pertanto, dichiarava la nullità del trasferimento d'azienda e l'illegittimità del licenziamento operato dal cessionario.

Contro la decisione della Corte d'Appello proponeva ricorso per Cassazione la società cessionaria, sostenendo, per quanto qui interessa, che la Corte d'Appello avesse fatto erronea applicazione dell'art. 2112 c.c. nella misura in cui non aveva tenuto in considerazione che la novella introdotta dal D. Lgs. 276/2003, eliminando il requisito della preesistenza dell'identità del ramo d'azienda, aveva voluto consentire ai privati di identificare il ramo d'azienda da trasferire.

La Corte di Cassazione ha dichiarato tali doglianze infondate. In particolare, la Suprema Corte ha confermato l'indirizzo per cui "ai fini del trasferimento di ramo d'azienda previsto dall'art. 2112 c.c., anche nel testo modificato dall'art. 32 del d.lgs. n. 276 del 2003, costituisce elemento costitutivo della cessione l'autonomia funzionale del ramo ceduto, ovvero la sua capacità, già al momento dello scorporo dal complesso cedente, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi funzionali ed organizzativi e quindi di svolgere, senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario, il servizio o la funzione finalizzati nell'ambito dell'impresa cedente, indipendentemente dal contratto di fornitura di servizi che venga contestualmente stipulato tra le parti".

Nel caso in esame, la Suprema Corte ha dapprima elencato gli elementi valutati dalla Corte d'Appello ai fini della decisione, tra cui il fatto che il corrispettivo del contratto di appalto corrispondesse al costo dei dipendenti ceduti, che i servizi oggetto di cessione erano stati sostanzialmente sdoppiati e che il contenuto delle relative attività fosse assolutamente generico e non identificativo di un ramo distinguibile dal resto dell'attività di business svolta dalla cedente. Successivamente, sulla base dell'orientamento espresso sopra e dell'indagine di fatto svolta dalla Corte d'Appello, la Suprema Corte ha ritenuto corretta la conclusione della Corte territoriale secondo la quale l'operazione posta in essere dalle parti avrebbe realizzato soltanto una serie di distacchi di personale e non un vero e proprio trasferimento di ramo d'azienda.

Pertanto la Suprema Corte ha respinto l'intero ricorso.

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